Sta per uscire un libro, edito da Manifestolibri, firmato dai giornalisti  Sergio Sinigaglia e Francesco Barilli e introdotto dallo storico Giovanni  De Luna, che attraverso le parole della vedova,ricostruisce la storia di  Pino Pinelli , ferroviere, anarchico, precipitato nella notte tra il 15 e  il 16 settembre 1969 da una finestra al quarto piano della Questura di   Milano, dove era stato trattenuto in quanto (ingiustamente) sospettato di  aver partecipato all'organizzazione della strage di piazza Fontana (17  morti per una bomba alla filiale della Banca dell'Agricoltura) avvenuta  quattro giorni prima.
 “La piuma e la montagna. Storie degli anni Settanta”, così si intitola il  libro, ricostruisce le storie di una dozzina di militanti della sinistra  uccisi nel corso del lungo Sessantotto italiano.
A proposito del commissario Calabresi, secondo la signora Licia, oggi  ottantaduenne, che in tutti questi anni ha continuato a vivere a Milano,  non c'è riconciliazione possibile tra le memorie e gli affetti di quelle  che pure sono a pari titolo due vittime di quegli anni: «A volte penso -  dice - che c'è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la  vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto.  Ma così, con tutto quello che è successo, no. C'è una distinzione netta,  fra noi».
La parte più dura e serrata del racconto di Licia Pinelli è quella in cui  vengono ricostruite le ore della notte tra il 15 e il 16 dicembre, quando  la storia del paese e quella della famiglia Pinelli si intrecciano una  volta per tutte: «Vengono a bussare da me verso l'una. Io, le bambine e mia suocera  eravamo già a letto. (…) Sono andata ad aprire e ho trovato questi due  giornalisti. Sembravano affannati, dopo quattro piani di scale senza  ascensore, e soprattutto davano l'impressione di farsi forza l'un altro,  cercavano le parole per dirmelo: "Sembra che suo marito sia caduto da una  finestra". Gli chiusi la porta in faccia e mi precipitai a telefonare  alla questura.  Chiesi di Calabresi e me lo passarono. Dissi che c'erano due giornalisti  alla mia porta, gli riferii cosa m'avevano detto, chiesi perché non  m'avevano avvertito. "Sa, signora, noi abbiamo molto da fare", mi  rispose… Non so se gli ho detto ancora qualcosa, sicuramente gli ho  sbattuto la cornetta in faccia. Dalla questura non seppi nulla: mentre  Pino era all'ospedale, invece di chiamarci loro avevano indetto la famosa  conferenza stampa…».
 Il racconto continua così: «Sempre quella notte, o poco più tardi,  arrivarono a casa mia Camilla Cederna, Stajano, un dottore  dell'Università Cattolica per cui avevo lavorato (che sulla vicenda in  seguito scrisse un lungo articolo sull'Europeo), e qualcun altro ancora.  Ad un certo punto non ce la facevo più a stare in quella stanza, volevo  andarmene da sola in camera. Mi venne dietro mia suocera. Mi disse:  "Vedrà, domani daranno a lui la colpa di tutto". "Va bene", risposi, "ma  ci siamo anche noi, con cui dovranno fare i conti"».
Nel giugno del 1971 la vedova Pinelli denunciò Calabresi e gli agenti  presenti agli interrogatori cui era sottoposto il marito fra il 12 ed il 15 dicembre per omicidio volontario: il giudice istruttore Gerardo  D'Ambrosio mandò avvisi di reato a tutti i denunciati, ma l'inchiesta fu  chiusa con il proscioglimento e la famigerata spiegazione del «malore  attivo» quale causa del volo mortale: «Quando succede un fatto del genere - commenta la vedova - che vede
>> coinvolti elementi delle forze dell'ordine, alla fine oltre a non  arrivare alla verità si finisce con le promozioni. Lo stiamo vedendo  anche oggi, per i fatti di Genova. (…) Alla tesi del suicidio, poi, non  ho mai creduto. Pino non l'avrebbe mai fatto, era un'eventualità che non  ammetteva. Una volta avevamo parlato di una ragazza che conoscevamo, che  aveva tentato il suicidio, e lui era stravolto. Non era una scelta che  concepiva, amava la vita, non l'avrebbe mai fatto».