L’anarchismo religioso di UG Krishnamurti
di Federico Battistutta

 

Un pensatore indiano le cui posizioni quantomai originali e oltremodo radicali in materia di religione continuano a sconcertare anche dopo la sua scomparsa.

 

Se percorriamo la via Aurelia, verso la Costa Azzurra, a una decina di chilometri dal confine francese, in prossimità di centri noti come Sanremo e Bordighera, ci capiterà di incontrare il comune di Vallecrosia. Anche questa località beneficia appieno dei favori del clima che ha segnato la fortuna della Riviera dei fiori. Oggi Vallecrosia è una località affollata nel periodo estivo, una meta fra le tante del turismo balneare in terra di Liguria e probabilmente la si può apprezzare di più fuori stagione. In una villa di Vallecrosia, poco più di un anno fa, è morto Uppaluri Gopala Krishnamurti – comunemente e amichevolmente chiamato con le sole iniziali UG –, un pensatore indiano le cui posizioni quantomai originali e oltremodo radicali in materia di religione continueranno a sconcertare anche dopo la sua scomparsa.
U.G. Krishnamurti era nato ottantotto anni prima nell’India del sud. È stato definito come il modello dell’anti-guru, a causa della critica verso ciò che lui definiva “l’ipocrisia del mercato spirituale”. Dirà, ad esempio: “Per secoli ci hanno insegnato ad interpretare tutto quanto in termini religiosi e questo ha creato una condizione di miseria per tutti noi. E più continuate a interpretare le cose in termini di religione, più aggiungete miseria alla vostra vita”. A leggere i testi dei colloqui di UG con i vari interlocutori si rimane infatti spiazzati. Qualcuno l’ha dipinto come un Rudra ambulante (Rudra è una divinità dai tratti minacciosi e distruttivi del pantheoninduista). La stampa indiana l’ha apostrofato come “l’ultimo dei nichilisti” o addirittura nei termini di un “terrorista spirituale”. In effetti, il rifiuto di un’autorità incombente sopra di sé ha caratterizzato l’intera vita di UG fin dagli inizi.

 La provocazione dell’anti-guru

Pur conducendo una vita tutto sommato appartata, UG negli anni si era costruito non poche antipatie, con una schiera di critici e detrattori, che lo accusavano (più in forma polemica, senza entrare nel vivo delle questioni sollevate) di demolire sistematicamente la speranza e la fede insite nella natura umana, a causa degli attacchi da lui rivolti a qualsiasi tradizione spirituale e a ogni genere di confessione religiosa. Viceversa, si è costituito e si è andato consolidando uno schieramento di sostenitori del valore delle parole di questo anti-guru. Per molti i suoi discorsi hanno costituito una salutare e fertile provocazione (prendendo tale parola nell’accezione etimologica: “pro-vocare”, letteralmente “chiamare fuori”), un invito, quindi, ad abbandonare pregiudizi e preconcetti; anche se bisogna riconoscere che alcuni hanno finito con l’idolatrare proprio colui che, nel corso della vita, si è proposto con una determinazione assoluta di voler distruggere ogni idolo.
D’altro canto non sarebbe un segno di onestà intellettuale ignorare proprio quegli aspetti problematici presenti in tanti interventi di UG. Anzi, le questioni più acute e disturbanti, rimaste aperte, costituiscono – come i koan del buddhismo zen (le domande paradossali volte ad ottenere un cambiamento improvviso) – probabilmente l’eredità più stimolante della testimonianza di UG. Sarebbe un tradimento voler offrire al lettore una versione addomesticata del personaggio, facendone una sorta di icona da consumare a beneficio degli orfani e degli insoddisfatti dell’universo della spiritualità contemporanea, come molti new agers desidererebbero.
Da questa angolatura l’apporto di UG costituisce una traccia significativa per una spiritualità laica a venire, una spiritualità divenuta adulta, svincolata dai lacci e laccioli di un rapporto di dipendenza con le istituzioni religiose, oggi sempre più in crisi (sull’argomento ricordo un interessante saggio, tradotto l’anno passato, del francese André Comte-Sponville, dal titolo Lo spirito dell’ateismo).
A chi gli si rivolgeva dichiarando di voler scrivere una biografia su di lui, UG sorrideva, dicendo che non era possibile raccontare la vita di chi è convinto di non avere affatto una storia e che comunque le biografie sono tutte menzognere. Aggiriamo il problema della biografia, limitandoci ad alcune notizie telegrafiche. Educato in maniera tradizionale, UG si dimostrò ben presto recalcitrante ai principi dell’induismo. La frequentazione di alcuni guru non modificherà il suo pensiero. Divenuto adulto, abbandonerà l’India, viaggiando molto, sia in Europa che in America. Significativo sarà il periodo di tempo – siamo negli anni Sessanta – vissuto alla deriva, fra Londra, Parigi e Ginevra. Questo momento critico costituisce il preludio per quella fase trasformativa, che ebbe poi luogo in maniera improvvisa e inaspettata in Svizzera e che venne da lui definita come “esperienza della calamità”. Tale termine venne adoperato per sottolineare che quest’esperienza di profondo rivolgimento interiore non possedeva certo i tratti dello stato di beatitudine, come molti amanti del misticismo desiderano pensare, ma era simile a una condizione sgradevole, a una vera e propria calamità fisica e psichica. Non uno stato di grazia, ma una disgrazia!

 “Nessuno può insegnarvi...”

In seguito si diffuse la voce sulle strane vicende occorse a questo uomo, piccolo di statura e dall’espressione accattivante, con idee spiazzanti pressoché su tutto, ma in particolare sulla religione. Qualcuno cominciò a frequentarlo. Nacquero così gli incontri con chi desiderava conoscerlo e parlare con lui. Tali incontri, che si svolsero nell’arco di diversi anni, non furono mai pubblici e sempre di natura fortemente informale; UG Krishnamurti non vi si sottrasse mai, ma neppure li incoraggiò. Spesso, accoglieva chi si ripresentava dicendogli che il solo fatto di ritornare era una delusione, perché rivelava che l’interlocutore non aveva afferrato la sostanza di quanto discusso insieme in precedenza, in cui sicuramente c’era l’invito a camminare sulle proprie gambe, senza dipendere da nessuno. “Voi dovete toccare la vita in un punto dove non è mai stata toccata da nessuno prima d’ora. E nessuno può insegnarvi come si fa”, è un’affermazione che rispecchia bene il suo pensiero. O quest’altra: “Non vi sto dando delle risposte. Se fossi così stupido da fornirvi risposte, voi dovreste capire che proprio queste stesse risposte distruggono la possibilità che le domande scompaiano”.
Alcune di queste conversazioni vennero registrate e successivamente trascritte e pubblicate in alcuni volumi tradotti in varie lingue, anche se UG non dimostrò grande interesse verso queste pubblicazioni, giungendo a dichiarare che chiunque era libero di riprodurre e diffondere le sue parole, senza che vi fosse bisogno di copyright, né del consenso dell’autore, anzi uno poteva anche appropriarsi di quelle affermazioni e farne ciò che meglio desiderava.
Nei discorsi di UG si parla spesso di uno “stato naturale”. È un’espressione che gli era particolarmente cara, ma insisteva nel dire che non andava intesa come sinonimo di “illuminazione” o “realizzazione.” Anzi, nel continuare a parlare di uno “stato naturale” vi vedeva il pericolo di ingessare il discorso dentro una terminologia coniata ad hoc, riportando all’interno di categorie conosciute qualcosa di costitutivamente irriducibile al pensiero cosciente e all’elaborazione del linguaggio. Infatti, nel dire “stato naturale” non intendeva riferirsi a uno “stato”, ma, al contrario, a qualcosa di intrinsecamente dinamico, l’immersione in un movimento perpetuo senza centro o direzione; né era da intendere per “natura” la ricerca nostalgica di una lontana condizione di innocenza, contrapposta alla nevrotica vita contemporanea. Secondo UG l’umanità a un certo punto del percorso evolutivo ha sperimentato la separazione dalla totalità della vita, percependosi scissa in modo radicale proprio dalla vita nella sua complessità, sentendosi isolata, conoscendo così la paura. Allora, il bisogno di ritornare a questa condizione di pienezza ha creato un intenso bisogno di assoluto, sperando che gli obiettivi di tipo spirituale – Dio, la verità o la realtà ultima – aiutassero l’uomo a tornare a far parte di quel tutto. Ma lo stesso sforzo di integrarsi nuovamente nella totalità della vita, pianificando il tutto, ha allontanato l’uomo ancora di più da ciò che cercava, generando nuova violenza. In una conversazione UG dirà: “Se vogliamo usare un termine politico crudo, il pensiero è fascista: per nascita, contenuto, espressione e azione. Non c’è via di uscita, è un meccanismo che si autoalimenta.” (E non a caso c’è chi, in America, ha provato a mettere in relazione le posizioni di UG Krishnamurti con le tesi primitiviste di John Zerzan sui nodi fondamentali dell’evoluzione e dell’alienazione umana; a questo proposito sarebbe opportuno integrare simili riflessioni, visitando le posizioni meno note, ma più articolate, di Jacques Camatte o di Giorgio Cesarano).


 Il senso dell’anarchismo religioso

“La maggior parte dei maestri religiosi trascorrono il loro tempo nel tentativo di dimostrare l’indimostrato con l’indimostrabile”. Questo è una dei tanti irresistibili aforismi provocatori che fecero la fama e anche la sfortuna di Oscar Wilde. Non ci sarebbe da stupirsi se UG avesse sottoscritto una simile definizione. Aggiungiamo allora in chiusura un pensiero. È una forma di eresia totale, quella di UG, come nel caso di Giordano Bruno o di Spinoza? La parola ‘eresia’ è stata coniata per indicare la diffusione di idee erronee e pericolose all’interno di un comune sentire religioso. Il termine indica già condanna e persecuzione, e nelle poche lettere che danno corpo alla parola sentiamo salire il fumo dei roghi. Ma, volendo approfondire, il significato originario della parola ‘eresia’ vuol dire ‘scelta’. E tale scelta non è l’opposto di quella domanda di senso radicale presente anche in tanti percorsi religiosi, in quel cammino di ricerca che decide di rinnovarsi costantemente, con una messa in gioco, attraverso tentativi ed errori, senza imitazioni, ripetizioni o formalismi. C’è una forbice che stringe religione ed eresia, norma e trasgressione, che sa confrontarsi con aperture e rotture di orizzonti. Qui sta il senso dell’anarchismo religioso: da un lato il rifiuto del principio di autorità e di comando, che rigetta un’autorità imposta, estranea, statica e arbitraria, fonte essa stessa di ingiustizie, disordine e violenza; dall’altro la tensione verso un ordine con una fisionomia ben differente: intrinsecamente dinamico, organico, scaturito dalla capacità autentica di “essere lampada a sé stessi”. E con UG Krishnamurti siamo senz’altro in buona compagnia. Ma non basta: anche noi siamo chiamati a impugnare queste forbici e stabilire quanto siamo disposti a mettere davvero in gioco.
Concludo con un breve racconto, proveniente, come UG, dall’India. Da qualche parte del vasto territorio indiano c’è un uomo che ha acquisito la fama indiscussa di maestro. E ci sono anche dei giovani, i quali – come succede spesso quando si è giovani – non sopportano l’aura che aleggia intorno a un adulto ritenuto importante. Decidono perciò di screditare quella presunta saggezza: poiché la gente reputa che l’uomo possegga anche qualità che definiremmo extrasensoriali, come la lettura del pensiero, i ragazzi così pensano: “Prendiamo un pulcino e tenendolo fra le mani andiamo dall’uomo per chiedergli se questo pulcino sia vivo oppure morto. Se dirà che è vivo, basterà una leggera stretta della mano per far morire la bestiola, viceversa se afferma che è morto, apriremo la mano per mostrare a tutti che è vivo e in buona salute. Qualunque risposta darà, risulterà errata”. Detto fatto si recano dall’uomo, pregustando la vittoria. Ascoltata con attenzione la domanda, l’uomo in silenzio guarda per un po’ alternativamente prima la mano serrata, poi gli occhi nervosi dei due giovani. Dopodiché si limita a dire: “Amico, la risposta sta lì, è nelle tue mani”.

 Federico Battistuta