Sulla democrazia e oltre
di Andrea Papi

Come tutte le forme politiche la democrazia non esiste in natura, ma è una squisita creazione umana, un tipico prodotto culturale che fu pensato e cominciò a prendere forma a civiltà pienamente compiuta: in Grecia, nel momento del massimo splendore della civiltà ellenica.
I primi a sviluppare una riflessione ampia ed approfondita furono Platone ed Aristotele ed entrambi, non a caso, ne diedero un giudizio sostanzialmente negativo. Platone, per il quale la miglior forma di governo è quella aristocratico/filosofica, vede la democrazia come la meno buona delle forme buone e la meno cattiva delle forme cattive e la definisce “governo del numero”, o “governo dei molti”, o ancora “governo della moltitudine”. Aristotele invece la presenta come una delle tre possibili forme del governo, secondo la tripartizione classica costituita da monarchia (di uno solo) oligarchia (di pochi) democrazia (di tutti), considerandola una degenerazione dell’ideale politeia, che corrisponderebbe al governo armonico della maggioranza nell’interesse di tutti.
Penso che sia Platone che Aristotele ne avevano una visione negativa perché, oltre alla loro personale considerazione delle cose, furono influenzati dal funzionamento della democrazia ateniese. Tutti gli uomini liberi della città si radunavano nell’Agorà e tutti insieme prendevano le decisioni in grandi assemblee di popolo. Ad Atene la quantità assembleare poteva raggiungere attorno ai 5000 individui, cifra ragguardevole per quei tempi. Al di là dell’atto formale, non poteva che essere una condizione altamente problematica, perché era praticamente impossibile che tutti potessero esprimersi compiutamente e liberamente. Per farlo c’è bisogno di situazioni che favoriscano la comunicazione diretta, che non riesce a manifestarsi nelle grandi quantità. Aristotele denuncia che vi trionfava facilmente la demagogia, che falsava la limpidezza delle decisioni facendo emergere chi aveva l’abilità di imporsi sugli altri ottenendone il consenso.
Ciò che per noi è di grande importanza è che viene introdotto il concetto e la visione che per il popolo sia possibile governarsi da solo, senza più essere governato. Lo svela con chiarezza la stessa etimologia della parola con cui i greci la definirono: demos, che equivale a popolo, e kratos, che equivale a potere. Potere del popolo. Quindi il popolo, che comprende indistintamente tutti i componenti della società, in democrazia è l’unico titolare del governo di sé, è cioè l’unico vero e legittimo detentore della sovranità e della titolarità di decidere su ciò che lo riguarda. Questa e non altra è la base concettuale su cui si fonda il senso genetico della democrazia, la quale in origine fu appunto pensata, concepita e sperimentata nella convinzione di realizzare il governo di tutti.
Dobbiamo passare al medioevo, con Marsilio da Padova, per trovare un’analisi approfondita capace di chiarire il concetto di sovranità e di introdurre quello di rappresentanza, distinguendo tra titolarità ed esercizio del potere e creando una separazione tra l’una e l’altro. Il titolare del potere sovrano resta sempre il popolo, mentre l’esercizio del potere è demandato ai suoi rappresentanti, che vengono eletti con un mandato revocabile ed hanno il compito specifico di eseguirlo. Si introduce così nella democrazia il principio della separazione del potere. Il concetto iniziale, che si rifaceva alle decisioni assembleari, si è dilatato e ha cambiato di qualità. L’esercizio del potere non avviene più direttamente, in prima persona, ma per seconda persona, delegata a farlo da una quantità definita di individui che accettano di essere rappresentati. In questa visione però il rappresentante deve rispettare il mandato perché se non lo fa è revocabile.
Dopo la stagione ateniese bisogna arrivare alla rivoluzione francese, preparata culturalmente dal secolo dei lumi, che, dopo aver scardinata la monarchia e il regime delle caste per censo, mise in moto le istanze popolari dal basso e preparò il terreno affinché prendesse piede la visione liberaldemocratica, quale superamento contemporaneo della logica e dello strapotere dei nobili impostisi col feudalesimo fin dal medioevo. Con alterne vicende c’è poi voluto più d’un secolo e mezzo affinché nell’intero occidente si stanziasse e diventasse stabile in modo irreversibile l’istituzionalizzazione di regimi democratici, unica realtà vigente anche là dove formalmente esistono monarchie o stati nobiliari, i quali sono ormai solo rappresentanze di facciata temperate, espropriate dell’antico potere da costituzioni democratiche a tutti gli effetti.
Purtroppo ciò che ha preso avvio e si è stabilizzato, diventando fatto compiuto, è ben lontano dai presupposti di senso per cui originariamente era stata concepita, cioè la messa in opera di forme decisionali capaci di restituire veramente il potere alla conclamata legittima sovranità popolare. Fin dal momento in cui il popolo aveva bussato con forza alle porte, dimostrando di voler finalmente contare seriamente, i nuovi poteri borghesi emergenti, che avevano contribuito alla vittoria della rivoluzione per decapitare una monarchia tremebonda che li umiliava, presi dalla paura di perdere immediatamente i nuovi privilegi acquisiti, si resero conto che non potevano permettere né la costituzione né l’istituzionalizzazione di un’autentica gestione dal basso. Dovevano andare incontro alla richiesta popolare e, nello stesso tempo, garantirsi l’instaurazione del nuovo potere, eteronomo al pari di quello abbattuto, ma che, a differenza di quello, avesse l’apparenza dell’autonomia come a gran voce richiedevano gli eventi.
Trascinati dalla richiesta popolare di istituire un nuovo assetto politico sociale che avesse le caratteristiche della democrazia, cioè di una partecipazione del popolo attiva e verace, misero in atto forme di mistificazione del consenso, con un’operazione culturale e istituzionale di progressiva deprivazione di senso, per preparare una sostituzione di senso. Se avessero permesso al popolo di avere il controllo effettivo delle decisioni attraverso gli organismi che si era creato spontaneamente non sarebbe stato possibile imporre un potere in grado di ridefinire la nuova forma di dominio. È fatto di storia: in ogni rivoluzione che ha imposto una svolta, da quella francese a quella russa, si sono imposti nuovi poteri castrando le strutture popolari sorte spontaneamente (club, comitati, consigli, soviet) che avevano definito in vera autonomia l’ambito e i modi del proprio intervento.
Tolto con spudorata finezza sofistica il vero e autentico controllo di base, ogni rappresentanza cessa di rappresentare veramente, mentre acquista la supremazia di un potere separato che al contempo è legittimato a decidere indipendentemente e al di là di chi lo sceglie per essere rappresentato. Se la delega, come supposto nelle analisi medioevali, non viene supportata da un mandato revocabile, che sia veramente un mandato ben definito e veramente revocabile, da delega tecnica si trasforma de facto in mandato di potere, per cui non ti delego più a rappresentare la comune volontà delegante, ma ti eleggo dandoti il potere di decidere al posto mio. In questo modo la rappresentanza prima impoveriva il proprio senso originario, per poi sostituirlo con un altro completamente diverso che lo negava ed affossava. Inventata per ripristinare la divisione gerarchica del comando, su queste ceneri del principio diretto nasceva la democrazia rappresentativa, eliminando tutte quelle forme che permettono l’esercizio effettivo del potere decisionale popolare, come le deleghe con mandato, il controllo sui mandati e la revocabilità immediata nel caso che il mandato non venga rispettato.
Da allora, nel tempo e con l’esperienza, hanno preso forma di pensiero e di molteplici esperimenti tre modi, diversi fra loro fino alla contrapposizione, che si collegano al principio democratico pensato in origine: che cioè il popolo possa essere e sia in grado di governarsi da solo senza essere governato. Può anche essere inteso come un percorso lunghissimo e molto intricato verso la meta, sempre presente nei sentimenti più reconditi, di un’autentica emancipazione dall’imposizione, dalla costrizione, dalla non libertà. Non è affatto semplice, né tantomeno lineare, scrollarsi di dosso le logiche e il senso del dominio, che dal tempo dei tempi hanno preso forma dominante nella costruzione del controllo di tutti gli ambiti delle relazioni umane, ma che continuano a non soddisfare e a generare l’esigenza della rivolta e della non rassegnazione.
Il primo modo è quello dominante, sotto gli occhi di tutti e che tutti, volenti o nolenti, dobbiamo subire e ad esso conformarci. È la democrazia rappresentativa, che istituisce nei parlamenti nazionali l’organo del potere decisionale, i quali affidano l’esecuzione delle proprie decisioni a strumenti d’imposizione, di controllo, di coercizione. Le relazioni sociali vi vengono regolate attraverso la definizione di obblighi e divieti, che devono essere rispettati se non si vuole incorrere in sanzioni, più o meno pesanti a seconda del reato. Le leggi non vi sono più sancite per volontà arbitraria di un monarca o di oligarchi con potere inappellabile, ma da apparati istituzionali, impersonali e strutturati burocraticamente. Tali istituzioni si giustificano con la filosofia di essere al servizio dei cittadini, che li delegherebbero a comandarli per realizzare un presunto “bene comune”.
È intuitivo che se sono al servizio non vivono una relazione partecipata con i cittadini, gli utenti cui erogano i servizi per cui si sentono demandati. La democrazia rappresentativa si regge così su un potere separato, non partecipato, come invece pretenderebbe teoricamente. Non vi è infatti che un unico momento di partecipazione, quello elettorale del voto, che però ha l’unica funzione istituzionale di definire una delega di potere. Il problema di fondo della sua incongruenza rispetto ai presupposti originari risiede nelle premesse su cui trova fondamento.
Essa è stata impostata in modo tale da garantire un potere centralizzato demandato a decidere ed al contempo un consenso di base che lo legittimi. La preoccupazione principale di chi l’ha pensata e impostata non era come far si che la base trovasse il modo di essere direttamente partecipe alle decisioni comuni, bensì di mantenere le distanze tra i decisori e gli altri, assicurandosi al contempo che i cittadini, fruitori passivi delle decisioni, partecipassero limitandosi a scegliere chi lo doveva fare. Così in democrazia rappresentativa si sceglie chi deve avere il potere senza condividerne le funzioni, contrariamente agli intenti originari che avevano invece la preoccupazione di realizzare la condivisione delle funzioni decisionali. In altre parole, col rito generalizzato del voto non si chiede agli elettori di partecipare al governo che ci riguarda tutti, ma di designare collettivamente l’oligarchia di comando cui tutti poi dovranno sottostare. Gli eletti non hanno un mandato tecnico cui devono rispondere, bensì sono insigniti del potere di governare senza mandato di alcun tipo. È per questo che, correndo il solo rischio di non esser più rieletti la volta successiva, si possono permettere di non mantenere le promesse che fanno in campagna elettorale.
Il secondo modo è la democrazia partecipativa. Concezione recentissima, è sgorgata con discrezione all’interno dei new-global, il movimento di contestazione globale del capitalismo neoliberista, ovviamente concepita dall’ala che ci piace definire neoriformista, perché è ancora convinta che si possa agire all’interno delle regole del sistema che dichiara di voler affossare. La sua non casuale denominazione ha lo scopo precipuo di distinguerla dalla vigente democrazia rappresentativa ed intende sottolineare, fin dall’atto della propria definizione, che il carattere specifico che la distingue è appunto la partecipazione.
Già qui c’è una prima incongruenza teorica. La democrazia in quanto tale, infatti, si definisce e si qualifica per la qualità e il tipo di gestione messi in campo, indipendentemente dalle forme procedurali prescelte e, proprio per la concettualità che esprime, deve comunque essere esercitata dall’insieme societario. La partecipazione così è un elemento indispensabile e non può che essere già compresa nella realizzazione e nel concetto originari. A livello di definizione perciò non potrebbe esistere una specifica democrazia partecipativa distinta da altre forme di essa, in quanto, a rigor di logica, non può che essere sempre partecipata, altrimenti non può che essere qualcosa d’altro. Ciò che distingue la tipologia democratica non è la partecipazione, bensì il tipo di decisionalità, perché, comunque intesa, per poter esserci presume sempre da un minimo ad un massimo di partecipazione. Se ha dunque senso parlare di democrazia rappresentativa e all’inverso di democrazia diretta, non ne ha affatto riferirsi ad una presunta nuova definita partecipativa, in quanto qualsiasi democrazia non può che essere sempre partecipata in qualche modo.
La teoria partecipativa della democrazia ha origine da esperienze di gestioni locali in Brasile, in particolare nell’ormai simbolica Porto Alegre che ne è diventata il centro irradiatore, che però con le ultime elezioni ha perso il governo di sinistra, per cui l’esperienza è di fatto andata a puttana. I social forum di tutto il mondo, che erano alla ricerca di nuove forme di rappresentanza capaci di diventare modello per sé e per il mondo intero, non potendo accettare in toto nella sua essenza il messaggio e le modalità gestionali del Chiapas perché troppo rivoluzionari, una volta entrativi in contatto se ne sono innamorati e l’hanno fatta propria. Ma è proprio indagando nelle modalità pratiche di funzionamento brasiliane che i suoi insiti limiti saltano evidenti.
Il presupposto su cui si fonda l’esperienza brasiliana è quello dell’ascolto di organismi popolari da parte dei poteri costituiti. La partecipazione popolare promossa è soprattutto un modo di gestire lo stato tentando di rimanere in relazione con gli abitanti. Di fatto, un continuo esercizio di tolleranza per i rappresentanti istituzionali, i quali stessi affermano che si tratta di uno spazio di dialogo per discutere con gli abitanti sulle trasformazioni importanti del territorio che riguardano tutti, non per decidere insieme a loro. Decideranno poi se tener conto dei suggerimenti che ne potrebbero scaturire in base alle loro sensibilità e disponibilità. Iria Charão, assessore dello stato di Rio Grande do Sul, sostiene che «formalmente questi istituti partecipativi non potrebbero avere che un potere consultivo: sta al patto d’onore tra istituzioni e cittadini renderli realmente dei “centri di deliberazione”, le cui decisioni abbiano valore vincolante…»
Non abbiamo perciò la costruzione di organismi e strutture popolari di base finalizzate a tentare di mettere in piedi il governo della città gestito dai cittadini stessi. Le strutture e gli organismi decisionali, invece, sono sempre quelli che abbiamo ora, eletti con le stesse identiche procedure partitocratiche e clientelari. La differenza risiede nell’ipotesi di riuscire a mettere in piedi organismi collaterali, con la capacità e la possibilità di affiancare il normale lavoro dei tradizionali e usurati centri di potere, in modo da venir loro in aiuto per non esser sganciati dall’umore e dalla volontà dei cittadini che dovrebbero rappresentare. In altre parole, è la messa in opera di una condivisione consultativa tra gli organismi dirigenti ed i diretti, in modo tale che gli elettori vengano coinvolti direttamente nella responsabilità decisionale, rimanendo però esclusi dalle decisioni. Una truffa politica insomma, che prima illude e poi inevitabilmente delude.
Il terzo modo è la democrazia diretta. Non mediata e non filtrata da rappresentanze e deleghe di potere di alcun tipo, annulla totalmente la separazione di potere tra chi ha la facoltà di decidere, i decisori, e tutti gli altri, fruitori delle decisioni, i cittadini cui sono destinate. La modalità tecnica fondamentale di applicazione della democrazia diretta è l’autogestione, o autogoverno, che si esplica nell’autonomia condivisa da tutti i componenti la società, secondo un rapporto di completa parità e reciprocità, per l’esercizio della funzione di governo, cioè per gestire le decisioni che riguardano l’intera collettività di appartenenza e le loro applicazioni.
Con la democrazia diretta, in uno stato diffuso di autogestione, non ha più senso l’istituzione di ruoli gerarchici, in quanto non hanno più senso le relazioni di comando-obbedienza e di imposizione-subordinazione. Ciò che ne definisce il senso e la coerenza non sono le formule procedurali né tanto meno le strutture burocratiche, ma il metodo, secondo il quale la partecipazione a tutti i momenti e a tutte le fasi di decisione e di realizzazione non è costretta, ma sentita e voluta, non è imposta, ma pensata e discussa sulla base di un confronto paritario che coinvolge tutti, e soprattutto non è legata e condizionata da interessi di parte perché c’è spazio solo per la convergenza degli interessi e delle differenti volontà.
Le procedure e le modalità applicative della democrazia diretta non possono essere rigide, dal momento che dipendono dalla decisione comune degli individui che vi partecipano. Per questo sono sottoposte a continue verifiche e possibilità di cambiamenti, sempre però all’internodi prese di decisioni condivise e secondo il presupposto della consensualità, anche quando si verifichino divergenze che non trovano accordi di realizzazione. La guerra nasce quando la divergenza è vissuta come conflitto inconciliabile, quando le parti si sentono l’una nemico dell’altra e sentono perciò il bisogno d’imporsi l’una sull’altra attraverso uno scontro risolutivo per cui chi vince sottomette chi perde. Ma quando i contendenti hanno la possibilità di sperimentarsi entrambi contemporaneamente, oppure di discutere fino ad arrivare ad un appianamento, oppure di non partecipare se non sono d’accordo senza per questo mettere in discussione i presupposti della convivenza, allora le divergenze perdono l’aspetto della conflittualità inconciliabile per assumere quello del confronto dinamico e problematico, che può esistere e funzionare solo all’interno di un contesto che non sia rigido, ma perennemente sperimentale e autocorrettivo.
Forme e situazioni di autogestione ci sono sempre state e ci sono tuttora in ogni parte del mondo (comitati, collettivi, consigli, soviet, club e gruppi politici rivoluzionari). Sono sorte e sorgono ogniqualvolta gli oppressi hanno la possibilità, la forza e la volontà di emanciparsi dal giogo della sottomissione, anche solo per brevi periodi. Essendo dirompenti e contrastanti con gli assetti politici vigenti, sono costrette ai margini e delegittimate dai poteri costituiti. Per loro natura si pongono in maniera tale che mettono in discussione le vigenti strutture di potere, hanno cioè in sé il germe della rivoluzione sociale. Per questo, se non intervengono rivolgimenti generali e generalizzati, hanno sempre una durata limitata e, o vengono assorbite e normalizzate dal sistema perdendo il senso e la propulsione per cui si distinguevano, smettendo anche di essere autentiche e innovative forme di autogestione, o esauriscono la loro funzione sovversiva e concludono l’esperienza.
Anche dove erano riuscite ad essere forma istituente della società che si autogoverna, come nelle rivoluzioni francese, russa e spagnola, appena i nuovi poteri statali si sono insediati le hanno affossate, istituzionalizzate e inglobate, annullandone l’impatto rivoluzionario e riducendole a istituti impossibilitati ad autogestirsi. Se la gestione dal basso, diretta e non mediata, prende piede e diventa forma istituita funzionante e diffusa, la centralizzazione statale perde senso e scompare, proprio perché riesce ad esserci solo quale alternativa inconciliabile con le logiche burocratiche e centralizzatrici statuali.
La democrazia diretta autogestionaria è dunque la realizzazione più radicale e conseguente dell’assunto originario su cui si fonda il concetto democratico: il potere del popolo, ovvero il popolo che si governa da solo senza essere più governato. Gli altri due modi d’intenderla ne travisano il senso e la trasformano o nel suo contrario o in mostri concettuali snaturanti. La democrazia rappresentativa, attraverso l’alibi della rappresentanza per delega elettorale, ha ripristinato in pieno il potere separato e le strutture gerarchiche del comando, annullando di fatto ogni possibilità di vera partecipazione alla decisionalità dal basso. La democrazia partecipativa, quasi via di mezzo tra rappresentanza e autogoverno, rendendosi conto che la rappresentativa è il fallimento più completo di una democrazia autentica, non mette in discussione la rappresentanza elettorale e le sue strutture separate, mentre, in una logica e con degli intenti che considero conservativi, cerca di ravvivarla e di salvarla con momenti di consultazione popolare che lasciano intatto però il potere separato.
Il fatto è che i sistemi vigenti, cosiddetti democratici, in realtà non funzionano, perlomeno dal punto di vista dei presupposti per cui il “potere del popolo” è stato concepito. La distanza tra il basso che elegge e l’alto che viene eletto è sempre maggiore, ormai una vera e propria separazione incolmabile. Funzionano invece molto bene dal punto di vista della centralizzazione del potere separato. Nella situazione attuale fra l’altro, dove vige un capitalismo liberista globale in grado di condizionare ampiamente stati e governi, anche i rappresentanti delegati si trovano sottoposti e sono costretti a scelte determinate da occulti poteri forti e a rispettare condizioni oggettive da cui non possono prescindere, se vogliono mantenere la poltrona conquistata. Nel mondo globalizzato la distanza è veramente abissale e le democrazie in atto, invece di realizzare il superamento della separazione tra chi è governato e chi lo governa, com’era nei presupposti per cui sono sorte, non fanno altro che contribuire all’aumento di questo fossato, al punto che ormai è impossibile riuscire a vedere l’altra sponda.
Ma l’illusione sta crollando. L’obsoleto popolo, che oggi preferisco chiamare l’insieme di quelli che non contano, che sono la stragrandissima maggioranza degli individui, anche quando segue con brava costanza tutti i rituali dell’integrazione nel sistema è sempre più secolarizzato e si fida sempre meno dell’empireo della politica che incombe dall’alto su tutti. Quelli che non contano sono sempre più insubordinati. Con sempre maggior frequenza formano comitati e collettivi autonomi di cittadini contro gli inceneritori, le discariche, le centrali a combustione ed ogni altra nefandezza che i poteri costituiti cercano d’imporre, oppure si ritrovano in centri sociali e luoghi di aggregazione politica e culturale sganciati dagli stereotipi istituzionali. È iniziata una rivolta underground, i cui confini e il cui senso non sono ancora chiari, ma che denota con chiarezza l’emergere di bisogni mai sopiti di autentica autonomia da un politico opprimente che non ha nessuna intenzione di riconoscerla.
Bisogna attivare dei processi di autogestione e di sperimentazione libertaria, fino a riuscire a creare una società nella società, fino a far si che la società emergente scalzi e si sostituisca a quella esistente ora. La modificazione radicale dei sistemi decisionali in senso libertario è fondamentale per la realizzazione di una nuova società possibile. Il potere di decidere dev’essere espropriato e, senza trucchi né fraintendimenti, trasferito dall’alto delle oligarchie parlamentari al basso delle collettività. Ogni compromesso tra la democrazia diretta, gestita direttamente dalla società, e quella parlamentare, gestita dagli eletti cui il mandato decisionale ha dato il potere, è destinata a diventare esclusivamente uno strumento in mano alla seconda.