Buenaventura Durruti, un popolo in armi
di G. Gatto

Buenaventura Durruti fu uno di quegli uomini che lasciano il segno, un protagonista. In vita, con la sua volontà di emancipazione rabbiosa e pur lucida e cosciente, rappresentò per il popolo spagnolo l'ideale stesso della lotta libertaria. Quando morì, quasi un milione di persone lo pianse, seguendone il feretro per le vie di Barcellona, testimonianza impressionante del credito che la sua opera aveva trovato. Con lui, era l'anima della Spagna rivoluzionaria, che se ne andava.
Era nato a Leon, nel 1896, figlio di un ferroviere. Come la sua estrazione sociale imponeva, entrò assai presto nel mondo del lavoro, prima in qualità di apprendista, poi come meccanico. Aderì, all'inizio, alla UGT, ma, durante il grande sciopero rivoluzionario dell'agosto 1917, fu attratto dalla combattività e dalla decisione degli uomini della C.N.T. e si unì a loro. Il sindacato libertario era il posto giusto per un militante della sua tempra, ed egli vi rimase legato, da allora, per tutta la vita.
In seguito allo sciopero, Durruti, come molti altri, perse il posto, colpito dalla repressione e dal boicottaggio del padronato di Leon. Si spostò a Gijon, centro di attrazione rivoluzionaria della Spagna settentrionale, e nucleo di influenza anarco-sindacalista nella regione delle Asturie. Qui conobbe Manuel Buencasa, segretario generale della C.N.T.. Costui gli fece conoscere le teorie anarchiche, aiutando parecchio, così, la sua formazione ideologica, contribuendo a trasformare il suo odio istintivo per l'autorità in qualcosa di più maturo e consapevole. Ma il soggiorno a Gijon fu forzatamente breve. Non essendosi presentato per il servizio militare, Durruti venne dichiarato renitente alla leva, e dovette scappare per non finire in prigione. Riparò in Francia.
A Parigi, entrò in contatto con molti personaggi di primo piano della militanza libertaria. Questo periodo fu assai importante per il maturare delle sue convinzioni politiche, fece di lui un rivoluzionario completo, che sapeva capire e vedere lontano, e non solo un uomo d'azione. Durruti fu un "estremista" per tutta la sua esistenza, ma il senso peggiorativo che i benestanti del giorno d'oggi attribuiscono al termine, è fuori luogo. La sua avversione irriducibile per ogni compromesso con il potere era il frutto non del fanatismo, ma di una posizione ragionata, che gli eventi e le peripezie contribuirono a rafforzare e consolidare. Anche quando i fatti della guerra civile lo portarono ad alti livelli di prestigio e di responsabilità, Durruti non si "addolcì" mai, come invece capitò, spesso, a tante "vedettes" della sinistra. Ritornò in Spagna all'inizio del 1920, spinto dall'ondata rivoluzionaria che si abbatteva su tutta l'Europa. Dopo una breve sosta a Saint Sebastian, andò a Saragozza e infine si stabilì a Barcellona. La capitale catalana era, già allora, la punta estrema della lotta. La polizia tentava di farla finita con la C.N.T. assoldando killers di professione (i "pistoleros") per assassinare i militanti anarchici, e questi, senza paura, rispondevano con gli stessi metodi. Durruti costituì il gruppo d'azione "Los Solidarios" (i solidali) e con esso organizzò e portò a termine numerosi colpi di mano contro il regime: attentati, espropriazioni di banche, azioni dimostrative. Diventò ben presto, insieme ai suoi compagni, una specie di incubo per la classe dirigente. I giornali davano grande risalto alle sue imprese e parlavano del "terribile individuo" Durruti. Venne messa una taglia sulla sua testa.
La lotta continuò, violenta e sanguinosa per entrambe le parti, tra scontri a fuoco e tentativi insurrezionali, fino alla dittatura di Primo de Rivera. In quest'epoca, la C.N.T. fu costretta a entrare nella clandestinità, mentre il gruppo Los Solidarios veniva praticamente distrutto dalla repressione padronale. Per non fare la fine di tanti amici, uccisi come cani in mezzo alla strada, o condannati e pesanti pene detentive, Durruti dovette, un'altra volta, fuggire in Francia con alcuni compagni.
Non fu che il primo atto di un'esistenza randagia e febbrile, che doveva durare più di due anni. Dalla Francia, gli esiliati si recarono a Cuba, e di lì in Messico, in Perù, in Cile, in Argentina, in eterno conflitto con le forze dell'ordine, guerriglieri vagabondi dei movimenti libertari dell'America del Sud.
Verso la metà del 1926 erano di nuovo a Parigi, a organizzare il rapimento del re Alfonso XIII di Spagna, che doveva visitare la capitale francese il 14 luglio. Era un'impresa ambiziosa, ma non poté neppure essere tentata. La polizia parigina di arrestò all'uscita del loro albergo, prima che potessero muovere un dito.
Il processo che seguì fu una grossa occasione di mobilitazione per tutto il mondo politico e intellettuale francese, nonché per la classe operaia, e servì ad attirare l'attenzione sul problema spagnolo. Molti giornali sostennero la campagna a favore degli anarchici.
Durruti e i suoi compagni vennero liberati nel luglio 1927, con l'obbligo di abbandonare il paese. La vita errabonda, dopo la sosta forzata della prigione, ricominciava, aggravata dai disagi della clandestinità. La maggior parte degli stati europei, infatti, aveva vietato loro l'ingresso, e, d'altronde, tornare in Spagna sarebbe stato un suicidio. Clandestino in Francia, clandestino in Germania, clandestino in Belgio, Durruti continuò la sua "militanza errante" fino al 1931. In quell'epoca aveva in animo di imbarcarsi per il Messico, ma la proclamazione della Repubblica spagnola lo fece desistere dal suo proposito. E, finalmente, tornò a casa.
La giovane Repubblica deluse rapidamente le speranze che aveva suscitato negli sfruttati, alla sua nascita, rivelandosi repressiva e autoritaria come il passato regime. Ma la delusione non si trasformò in scoraggiamento e, anzi, divampò violenta sotto forma di agitazioni, scioperi, insurrezioni. Gli spagnoli erano maturi per fare da sé. La C.N.T. raccoglieva sempre maggiori consensi: l'uscita dalla clandestinità dava nuovo vigore ed efficienza al suo impegno organizzativo e propagandistico.
Il nome di Durruti era conosciuto e rispettato in tutta la penisola. Dal 1931 al 1936, egli fu sempre in prima linea, infaticabile, in ogni grande conflitto sociale che si ebbe in Spagna. Si fece notare durante gli avvenimenti di Figols e fu deportato, fino al settembre 1932. Prese parte attiva nei movimenti rivoluzionari del gennaio 1933 e fu nuovamente imprigionato dal gennaio all'agosto dello stesso anno. Entrò nel comitato nazionale rivoluzionario, ma dal dicembre '33 al luglio '34, fu ancora condannato al carcere. Dal 5 ottobre 1934 fino alla metà del 1935, fu inviato al bagno penale. Nel settembre, sempre del '35, fu di nuovo in galera, per essere liberato solo pochi giorni prima delle elezioni del 1936. Ogni volta che usciva, si rimetteva all'opera, pronto ogni volta a ricominciare la lotta, ad esporsi senza timori, a pagare di persona. Come la maggior parte dei suoi compatrioti, sentiva che tutti quei fermenti avrebbero prodotto qualcosa, che la rivoluzione era vicina, e l'occasione era troppo importante, unica, irripetibile, per non dedicarvi tutte le proprie energie.
Il 1° maggio 1936, durante il 3° congresso della C.N.T., a Saragozza, il comitato rivoluzionario denunciò pubblicamente l'imminenza del colpo di stato militare e l'inettitudine del governo della Generalitad. Gli anarchici si organizzarono per armare il popolo e far fronte alla prevedibile situazione di emergenza. Durruti, coi suoi, dette l'assalto ai battelli mercantili ancorati nel porto di Barcellona, per impadronirsi dei fucili che si trovavano a bordo. Altrove, nei sobborghi, i militanti della confederazione, procedevano alla confisca delle armi in possesso dei cittadini che, per la loro estrazione sociale, avrebbero potuto fiancheggiare la ribellione dei generali. Col passare del tempo, il governo, spaventato dall'eventualità di una guerra civile, si tirava in disparte e veniva sempre più sostituito dall'iniziativa cosciente del popolo in armi. Quando, il 19 luglio, la guarnigione di Barcellona si sollevò e venne sconfitta, il potere statale non esisteva ormai che soltanto di nome. Di fatto, erano la C.N.T. e la F.A.I. ad essere padrone assolute della situazione.
Il 23 luglio, Durruti lasciava Barcellona alla volta di Lerida, con una colonna di quasi 10.000 uomini. Il controllo militare di essa era stato dato al comandante Perez-Farras, mentre Durruti ne era il delegato politico. Questo significava che egli aveva la responsabilità della funzione rivoluzionaria della colonna: lo scopo, infatti, era quello di esportare il più lontano possibile la rivoluzione, vittoriosa a Barcellona, in modo da contrastare non solo con le armi, ma anche con la forza dell'organizzazione libertaria, la sollevazione fascista.
Questo compito fu perfettamente compreso da Durruti, che, fino alla sua morte, si adoperò con grande impegno a garantire, da una parte, l'efficienza operativa delle sue unità, dall'altra, a mantenere il più possibile, al loro interno, una struttura egualitaria, contro ogni tentativo di militarizzazione in senso "classico". Ben presto, l'attività della colonna Durruti-Farras sul fronte Aragonese suscitò l'interesse di un gran numero di giornalisti e personalità varie, e non solo per le vittorie conseguite. Era proprio lo spirito libertario che animava il fronte tenuto dalla colonna, che attirava l'attenzione. Attenzione non sempre benigna. Il governo centrale, man mano che la guerra andava avanti, timoroso più del diffondersi delle idee anarchiche che di una sconfitta militare, prese a boicottare le unità del fronte aragonese, rallentando in modo criminale il rifornimento di armi, munizioni e viveri. A questo gioco non erano estranee le mene del Partito Comunista Spagnolo, diretta emanazione della volontà di Stalin, che vedeva di mal occhio la popolarità della C.N.T. in generale, e quella di Durruti, in particolare, e si dimostrò, nei fatti, disposto ad usare qualunque mezzo per debellarne la "concorrenza". I tentativi di ottenere da Madrid un approvvigionamento più adatto alla situazione, non ebbero esito.
Verso la fine del 1936, i franchisti sferrarono una terribile offensiva contro la capitale, il famoso (o famigerato) assedio di Madrid. Il Governo fu preso dal panico, pensando all'effetto disastroso che un'eventuale capitolazione avrebbe avuto, sia sul piano strategico, che sul morale degli altri combattenti. Chiamò, così, la Colonna di Durruti alla difesa della città, fidando che l'abilità e il prestigio di quest'uomo avrebbero risollevato il morale dei madrileni. Durruti giunse a Madrid il 12 novembre, accolto dalla gioia e dall'entusiasmo generale e, senza un attimo di respiro, si mise al lavoro sul settore più pericoloso. Il 19 novembre, verso le due del pomeriggio, si trovava di fronte al Policlinico, bastione che dominava la città universitaria, in cui i fascisti si erano trincerati. Qui, in circostanze che ancor oggi è difficile appurare, ricevette in pieno polmone una palla cal. 9: portato d'urgenza in ospedale, cessò di vivere alle 6 del mattino dell'indomani, dopo molti, inutili, interventi chirurgici. La sua morte venne tenuta segreta, per non scoraggiare i combattenti che vedevano in lui il simbolo stesso della lotta antifranchista, e, di nascosto, il corpo fu trasportato a Barcellona. Il suo funerale venne celebrato solo il 23 novembre, con tutti gli onori e il cordoglio che si meritava.
Chi uccise Durruti? La C.N.T., sempre nell'intento di non intaccare il morale delle truppe, comunicò pubblicamente che era stato colpito dal piombo fascista, ma era una versione di comodo, destinata a durare non più di qualche giorno. Rapidamente, le circostanze oscure della sua morte diventarono di dominio pubblico, e cominciò a circolare il termine più esatto per definirla: assassinio. Il partito comunista spagnolo mise in giro la versione secondo la quale Durruti era stato ucciso dai suoi stessi compagni, perché aveva rigettato i principi anarchici per avvicinarsi a quelli marxisti. Ma, per quanti lo conobbero, è una tesi così inverosimile da non meritare nemmeno di essere discussa. Al di là di quella che fu la meccanica dell'avvenimento, oggi possiamo affermare che furono proprio i comunisti ad assassinarlo, per togliere di mezzo un pericoloso ostacolo alla loro egemonia. Lo dimostra, oltre ad alcune testimonianze di sicuro valore, il fatto che furono gli unici a trarre vantaggio dalla sua morte. La storia, purtroppo, si ripete.

G. Gatto