Quel “matto” di Cafiero
di Felice Accame

da Rivista Anarchica on line

 

Paradigma manicomiale e genealogia delle idee in Carlo Cafiero.

 

Della tribolata esistenza di Carlo Cafiero mi limiterò a far notare che è stata tribolata per davvero. Di gran famiglia – di famiglia con quattrini –, studia legge e tenta una carriera di diplomatico, ma basta un incontro con Marx, Engels e con il solito calzolaio (il mestiere è notoriamente ad alto tasso di compatibilità con il pensiero oppositivo) per far emergere quelle contraddizioni che, presumibilmente, già erano latenti da un pezzo. Comune di Parigi, morte di Mazzini, amicizia con Costa e con Malatesta, arresto dopo la fallita insurrezione di Imola, costruzione (con i suoi quattrini) della Baronata con Bakunin, morte del medesimo, altra insurrezione fallita a Benevento, vendita della Baronata, Olimpia Kutuzov (la moglie) implicata nell’uccisione di Alessandro II e condannata ai lavori forzati in Siberia, fuga in Svizzera, litigio con Costa (“Costa inganna il popolo nella piena coscienza di ingannarlo”), arrestato in Svizzera, rilasciato va a Londra e viene colto da “febbre cerebrale piuttosto forte”, ritorno in Italia, nuovo arresto (scelta fra domicilio coatto all’estero o a Barletta), sceglie la Svizzera (ma a Chiasso sembra che arrivi in piena crisi psicofisica), torna in Italia, va a Firenze, lo arrestano, ma pochi giorni dopo – come “affetto da mentale alienazione” – è associato al locale manicomio. Ricompare la moglie, fuggita dalla Siberia. Lunghi anni di manicomio, un ritorno a Barletta – l’ultimo tentativo. Muore di “tubercolosi intestinale” il 17 luglio del 1892. Una vita d’inferno: tirato da una parte e dall’altra (famiglia, lotta politica; accettazione rassegnata del mondo, sua trasformazione), cercando di mediare opposti (anarchia, comunismo), collezionando amare delusioni (la Comune, le insurrezioni illusorie, i dissidi fra compagni).

 Paradigma manicomiale
 

I documenti raccolti da Gianni Bosio (in I conti con i fatti, Odradek, Roma 2002) risultano preziosi per farsi un’idea di quello che potremmo chiamare “il paradigma manicomiale” di Cafiero. Non prima, tuttavia, di aver fatto una premessa metodologica.
Una categoria psichiatrica – una definizione come “affetto da mentale alienazione”, o altro – è pur sempre, prima e ben diversamente della constatazione di un dato di fatto, un “genere interattivo”. Faccio due esempi:
La diagnosi di personalità multipla. Dal 1980 è diagnosi ufficialmente riconosciuta dall’American Psychiatric Association. Prima di allora – dal 1791, quando un medico tedesco fece la prima diagnosi – pur nella discordanza degli esperti, i casi riconosciuti erano un’ottantina. Nel 1986, invece, nei soli Stati Uniti d’America, si contarono seimila casi e, alla fine degli anni Ottanta, il disturbo colpiva, in quanto diagnosi, una persona su venti (cfr. J. Hacking, La riscoperta dell’anima, Feltrinelli, Milano 1996). Poi, interessò perfino il presidente Clinton (almeno a dar retta a quanto da lui stesso raccontato a Monica Lewinsky e, più tardi – nelle sedi istituzionali opportune – riferito).
Dal 1887 al 1909 la psichiatria europea (a partire dalle tesi di Philippe Tissié, autore de Les alienés voyageurs, che descrive il caso di Albert Dadas) ratifica fra le malattie mentali la “compulsione camminatoria” (un riflesso dell’epoca del turismo). Anni prima, nel 1850, in Louisiana, gli psichiatri americani bianchi avevano individuato la “sindrome di drapetomania” nella razza nera – sindrome che veniva definita come “voglia di fuggire” (cfr. J. Hacking, I viaggiatori folli, Carocci, Roma 2000).
Le categorie psichiatriche, insomma, sono generi interattivi e possono far nascere il sospetto – o qualcosa di più – che ciò che pretendono di descrivere sia un loro prodotto. Se prende piede la diagnosi aumenta il numero delle persone che ne manifestano i sintomi. È così per la sindrome premestruale, l’iperattività infantile, il deficit di attenzione, l’anoressia, la bulimia o, più semplicemente, per il “figlio di separati” a scuola – basta che un insegnante venga a sapere che il tal alunno è figlio di separati che, con il proprio modo di porsi in relazione con lui, gli farà assumere un comportamento che, più presto che tardi, si configurerà come quello di un “figlio di separati”. Va da sé che questi artefatti psichiatrici (e non solo psichiatrici) finiscono con il contrassegnare l’intero contesto ideologico in cui il povero diagnosticato si trova a vivere.

 Non voleva lavarsi
 

Dai documenti che accompagnano i ricoveri vari del povero Cafiero, allora, si ricava una serie di elementi che vanno a costituire il suo paradigma psichiatrico. Nei loro confronti occorrerebbe, innanzitutto, un’indagine che ne porti alla luce la complessa genealogia culturale – e forse, dopo questo lavoro, potranno apparire in una nuova luce, come in una nuova luce potrà apparire la coerenza della persona.
Alcuni esempi di questi elementi – ascrivibili al versante medico-igienico:
Cafiero non voleva più lavarsi
Si denudava (si tagliava addosso i vestiti, anche)
Si alimentava di soli liquidi, o pesce, o cioccolata
Parlava da solo (anche in francese, o in tedesco)
Fumava molto
Diceva di ricevere benefici influssi dai pavimenti
Era ipocondriaco
Rideva in modo strano (come un grido di pavone)
A volte era aggressivo con i medici (ma raramente)
Si tagliava più peli che poteva (e diceva che aspettava la crescita delle penne, per volare)
Almeno in un caso si è dato all’iconofagia (mangiando fotografie di persone care, per purificarsi)
Poi, (per la sezione meno tradizionalmente medicalizzata del paradigma):
Era darwinista e, al contempo, creazionista: materia e forza sono eterne, uomo, bestie e piante si possono trasformare ma sono creati ab eterno
Sostiene che l’ultima fase dell’evoluzione sarà la spiritualizzazione della materia
Quindi, è teleologista
Vorrebbe unire i socialisti con i gesuiti
Parla dell’occhio della mente
Firma apponendo una croce cristiana dopo il proprio nome
Credeva in una sorta di simbolismo cromatico
Invia “telegrammi” gestuali (comunicazione telepatica)
Ipotizza l’esistenza di una macchina duplicatrice
Sogna di fare il marinaio nella Marina Inglese
E, a quanto pare, per un anno intero non ha “consumato” il matrimonio.

 

 Il fumo ha fatto bene a lungo
 

Di ciascuno di questi elementi – idee, opinioni, valori, più e meno condivisi – si può ricostruire entro buoni limiti di senso la genealogia. Faccio qualche esempio, senza pretendere di essere esaustivo.
Sulla nudità come forma di igiene e come sistema ideologico ben fondato sono sorti fior di movimenti, che, spesso, se non hanno ricevuto il plauso generale, sono stati considerati socialmente legittimi. Jean Baptiste Charcot, figlio di Jean Martin Charcot, nel 1881, gioca a pallone nudo nel cortile della Salpetriere, ma lui fa parte del personale medico e non della categoria dei “pazienti” – e dunque nessuno ha alcunché da obiettare.
È vero che l’invenzione del sapone può esser fatta risalire almeno ai fenici – che lo ottenevano facendo bollire grasso di capra, acqua e ceneri –, ma è anche vero che il suo uso è stato molto alterno, sia in rapporto ai tempi, e al clima ideologico relativo, che ai Paesi. Il trionfo del cristianesimo – con lo svilimento del corpo conseguente –, per esempio, ha trasformato l’uso del sapone in una trasgressione. San Gerolamo ammonisce spesso: sulla via della purezza dell’anima, meglio non lavare il corpo.
Il fumo ha fatto bene a lungo. Ancora oggi c’è chi contesta il suo rapporto diretto con il cancro ai polmoni.
Le mode alimentari cambiano praticamente una volta l’anno e tornano ciclicamente a seconda dell’efficacia dei diversi apparati retorici. C’è stato, c’è e ci sarà il momento della dieta liquida – e la passione per il cioccolato anticipa la scoperta del suo modesto apporto alla produzione di endorfine nel cervello, con il benessere conseguente.
Anche i seguaci dei santi Cosma e Damiano ingerivano le loro immagini a scopo terapeutico. Grattavano perfino i muri dove i due santi erano dipinti e continuavano a godere, se non di miglior salute, della considerazione pubblica.
Dell’Ipocondria come categoria diagnostica al giorno d’oggi non rimane più nulla: già in Galeno, nel 1600 la recupera Sydenham, nel 1857 si trova ancora nel sistema classificatorio di Morel, ma poco più tardi Wollenberg ne stroncherà ogni carattere nosografico. Oggi la usano solo alcuni psicoanalisti a buon mercato e gli impiegati nel “piccolo mobbing” del chiacchiericcio nella pausa del pranzo.
La firma con la croce la usava Cristoforo Colombo e, purtroppo, nessuno ha mai interpretato la cosa per gli aspetti negativi che aveva.
Alla comunicazione telepatica (si pensi alle numerose spedizioni antropologiche ad Antille e ad affini, o alle applicazioni di elettroencefalogrammi a yogin in estasi) o alla bellezza della Marina Inglese hanno creduto e continuano a credere persone stimate e dabbene che con i manicomi non hanno mai avuto a che fare.
Anche le ballerine degli show televisivi si tagliano più peli che possono e non vengono incriminate (né diagnosticate come tricofobe).
L’idea dell’occhio della mente (o del terzo occhio) è antica e, comunque, all’epoca ben rinfrescata da Madame Blavansky e dai suoi seguaci. Nel 1957, in Inghilterra, suscitò ancora interesse un libro – intitolato, per l’appunto, Il terzo occhio –, firmato da un misterioso Lobsang Rampa (e non a caso, dunque, ne parlano a tutt’oggi con serietà gli psichiatri televisivi quando devono spiegare delitti come quello avvenuto a Cogne nel 2002).
L’idea di una macchina duplicatrice è chiaramente affine all’idea della duplicazione di checchessia in innumeri mondi – contenuta in un’opera esoterica di Blanqui, Dagli astri l’eternità.
L’idea del simbolismo cromatico – e dell’effetto fisico dei colori in genere – è anch’essa antica. Ogni cultura praticamente ha una soluzione in proposito. Per Cafiero il pallido del proprio corpo dipendeva dal fatto di indossare mutande bianche, camicie bianche e abiti chiari. In ragione di ciò sostiene che indossando biancheria rossa aumenterebbe la massa sanguigna. Non tanto dissimilmente, oggi (ma a partire dagli anni Cinquanta), per esempio, Silvia Lubich (in arte Chiara), fondatrice del movimento cattolico integralista “Il Focolare”, statuisce una corrispondenza fra l’effetto dell’“Ideale” e i vari aspetti della vita: il rosso è l’economia e la comunione dei beni, l’arancio l’apostolato e il proselitismo, il giallo la vita spirituale, il verde la salute, l’indaco la conoscenza, il viola la comunicazione e l’azzurro la casa (per cui, al posto di dire “facciamo le faccende di casa”, le donne dovrebbero dire “facciamo un po’ di azzurro” – così, nella metafora, si ratifica la schiavitù della donna).
Chiunque abbia subìto un periodo di ospedalizzazione – senza bisogno di tornare ai secoli passati –, infine, credo che abbia preso in considerazione seriamente l’idea di strozzare almeno un medico con le proprie mani.

Categorizzazioni su un rivoluzionario
 

Alcuni di questi elementi sembrerebbero palesemente contraddittorii. Ma una ricerca più approfondita sul piano storico mostrerebbe che, alla contraddizione così come appare alla logica dell’oggi, non corrisponde affatto il rapporto così come si è potuto porlo ieri.
È più che plausibile, per esempio, che possa esser stata coltivata l’idea di trovare un terreno comune fra socialismo e gesuiti. Ignazio di Loyola fonda la Compagnia di Gesù nel 1534, ma Clemente XIV la sopprime nel 1773 – con un breve, Dominus ac Redemptor – e Pio VII la rimette in piedi nel 1814, ma non senza crisi di rigetto in parecchi paesi europei. Tanto è vero che ha bisogno degli USA per tornare in auge. Allorché Balzac scrive – e pubblica, anonima, nel 1824 – una Storia imparziale dei Gesuiti, non ne fa un bersaglio, perché li vede come valida opposizione alla gerarchia vaticana.
Sembrerà strano, ma anche per creazionismo e darwinismo sono state dettate le condizioni di una sorta di compatibilità reciproca. Gente come Bergson, Wallace, e William James sono riusciti a essere darwiniani e poi spiritualisti – fino alle sedute spiritiche (cfr. G. Scarpelli, Il cranio di cristallo, Bollati Boringhieri, Torino 1993).
La spiritualizzazione della materia, infine, è la conclusione classica del percorso iniziatico. Trasmutazione dei metalli in oro, elisir di lunga vita e pietra filosofale costituivano – nella letteratura alchemica – soltanto stazioni intermedie. Si noti che l’intera paccottiglia – lungi dal ritrovarsi nella pattumiera delle idee – supera indenne l’Ottocento e trae nuova linfa dalla meccanica quantistica e dalla fisica atomica.
Le contraddizioni, insomma, se ci sono, ci sono come in tanti che in manicomio non sono finiti, ma che, anzi, spesso sono stati dall’altra parte del paziente, nella veste di suoi giudici. Non sto a sindacare sulla sanità di mente o sullo stato di malattia di Carlo Cafiero. Dico che le categorizzazioni cui è stato sottoposto – categorizzazioni, si badi, concernenti pur sempre un rivoluzionario, un ribelle nei confronti dell’ordine costituito e del suo sistema di valori – hanno certamente contribuito a modificare i suoi comportamenti secondo una logica. E dico che questa logica non era neutrale, ma attingeva ad interessi di classe.
Sull’origine delle contraddizioni di Cafiero, in quanto contraddizioni culturali mi sono pronunciato più volte. Ancora recentemente, con La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (Spirali, Milano 2002) ho cercato di mostrare come occorra – per venirne a capo – andare a verificare alcuni “conti non fatti” con la filosofia, che persiste a far pesare la propria autorità conservatrice sulle forze del cambiamento – con quell’imbroglio millenario che, in un momento particolarmente felice, Feyerabend (cfr. Conquista dell’abbondanza, Raffaello Cortina editore, Milano 2002) ha definito come una “pozione di streghe” i cui ingredienti sono spesso “mortali”.

 Felice Accame