Archeologia della violenza

Pierre Clastres

Sul penultimo numero di "Cenerentola", ho recensito la raccolta di saggi di Pierre Clastres intitolata "La società contro lo stato", recentemente ripubblicata da Ombre Corte. E poichè non mi piace far le cose a metà, recensisco questa volta l’altra opera fondamentale di quest’interessante autore: "Archeologia della violenza", uscita in Italia nel 1980 (edita da La Salamandra) e, più recentemente, nel 1998 (da Meltemi).

Si tratta, anche in questo caso, di un libro di piacevole lettura, scritto in modo chiaro, elegante e sintetico. In esso Clastres contesta le opinioni di Leroi-Gourhan e di Lévi-Strauss sull’origine della guerra.

Al primo attribuisce la pretesa di far derivare la guerra dalla caccia. "Per Leroi-Gourhan" – scrive – "la guerra non è nient’altro che la caccia all’uomo" e tale affermazione, almeno posta in questi termini, risulta certamente poco credibile. Infatti "persino presso le tribù cannibali lo scopo della guerra non è mai uccidere i nemici per mangiarli".

Circa Lévi-Strauss, invece, ne riassume il pensiero nella seguente formula: "Gli scambi commerciali rappresentano guerre potenziali pacificamente risolte, e le guerre sono il risultato di transazioni sfortunate". Una formula la cui validità è piuttosto dubbia, almeno sulla base di ciò che si conosce delle "società senza stato", e che sarebbe stata sostenuta dal famoso antropologo solo perchè tener conto della "funzione sociologica della guerra" risultava incompatibile con la sua analisi della società.

"La guerra" – sostiene invece Clastres –"è una struttura della società primitiva e non l’esito accidentale di uno scambio mancato. Ed è simile statuto strutturale della violenza che ritroviamo nel carattere universale della guerra nel mondo dei Selvaggi". Di più: "La società primitiva è il luogo dello stato di guerra permanente". Un’affermazione per molti versi condivisibile che però, fatta da Clastres, secondo il quale le "società senza stato" erano prive di potere coercitivo "tranne che in guerra", finisce col limitare notevolmente il valore delle teorie da lui precedentemente sostenute.

La causa della guerra nelle "società primitive", e del suo non essere mai risolutiva, sarebbe, secondo Clastres, la necessità di mantenere la coesione e la relativa omogeneità del gruppo. La sua assenza, al contrario, porterebbe alla stratificazione sociale e, conseguentemente, alla necessità di uno strumento adatto a mantenerla: lo stato. La persistenza della guerra, in conclusione, dovrebbe essere interpretata come un mezzo per prevenire la formazione delle classi e dello stato.

Esistono, aggiunge, presso alcune di queste società, "gruppi sociali" costituiti da guerrieri: ma il destino di coloro che vi appartengono è morire in combattimento, e questo evita il loro trasformarsi in classe dominante.

Tutto ciò suona molto strano. Se così stessero le cose, si farebbe fatica a spiegarsi per quale motivo, in molte parti del mondo, le "società senza stato" si siano spesso trasformate in società in cui lo stato e le classi sono presenti.

Forse perchè era venuto meno lo "stato di guerra permanente"? Sulla base delle (frammentarie) conoscenze fornite dalla protostoria, la cosa non risulta.

Verrebbe piuttosto da pensare che proprio lo "stato di guerra permanente", sia pure in concomitanza con altri fattori, abbia portato all’istituzionalizzazione di una casta di guerrieri, e che tale istituzionalizzazione le abbia consentito di servirsi della propria posizione per consolidare il potere sulla restante parte della popolazione e sui vinti.

 

Luciano Nicolini