Dov’è la destra? Dov’è la sinistra?
di Andrea Papi

da Rivista anarchica on line

 

I due termini che, dalla Rivoluzione Francese, definiscono due visioni del mondo contrapposte e inconciliabili, sono diventati oggi sempre più spuri e ambigui.

 

Martedì 7 ottobre 2003 Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale e vicepresidente del consiglio dei ministri in carica, sorprendendo l’intero mondo politico italiano compresi gli stessi affiliati del suo partito, ad un convegno del CNEL annuncia che “sono maturi i tempi per discutere del voto agli immigrati, almeno in sede amministrativa”. La sorpresa generale è più che giustificata, dal momento che Fini è un leader indiscusso della destra europea e, prima della svolta politica moderata di AN, è stato per anni segretario dell’MSI, partito dichiaratamente nostalgico del fascismo. Il suo annuncio rompe con lo stereotipo che la concessione di diritti agli immigrati sia tradizionalmente patrimonio esclusivo di una cultura di sinistra, che non potesse essere abbracciata in alcun modo da chi a qualsiasi titolo proviene dalle file della destra, tanto più da chi ne ha responsabilità di dirigenza istituzionale.
La politica e la cultura di destra si prepara dunque ad invadere il campo specifico della sinistra? Com’è possibile che i rappresentanti di una visione del potere, secondo lo stereotipo, conservatrice, quindi proiettata a mantenere e favorire le differenze di classe e di casta con i privilegi connessi, possano occuparsi di e tentare soluzioni che, secondo lo stereotipo opposto, appartengono per diritto di nascita ad una visione riformatrice ed estensiva dei diritti che riconosca l’uguaglianza sociale? Non esiste forse, almeno sempre secondo una visione stereotipata, un confine invalicabile tra un modo di pensare e di agire che si colloca politicamente a sinistra, intesa in senso lato, ed uno che al contrario si può collocare solo a destra, sempre intesa in senso lato? Cos’è quindi che può farci dire oggi che una scelta è di destra ed un’altra di sinistra?

 

 Presunta invasione di campo
 

Appare evidente che per tentare di rispondere bisogna innanzitutto uscire dagli stereotipi e poi tentare di identificare quale nesso strutturale stia alla base di questa presunta invasione di campo. Non mi riferisco ovviamente agli addetti ai lavori, i politicanti di professione, i quali presumo dovrebbero essere sufficientemente disincantati da aver superato da un pezzo i confini ideologici e precostituiti, all’interno dei quali continua a vederli ed a considerarli il popolo dei fruitori dello spettacolo della politica. Mi riferisco invece a quell’enorme numero di persone, non coinvolte direttamente nelle decisioni, ma che col cuore e con la mente si identificano negli schieramenti ed accettano di buon grado di essere parte e partigiani dei greggi che sostengono e rafforzano l’operato dei differenti leader di riferimento. Per sentirsi schierati debbono immedesimarsi in idee e principi forti, capaci di identificare lo schieramento cui ci si sente di appartenere, che dovrebbe distinguerli e permetter loro di rappresentarli nei desideri, nelle illusioni, nelle propensioni immaginative. In altre parole, destra e sinistra fin dalle origini usufruiscono di due immaginari collettivi contrapposti, entrambi in grado di creare e determinare identificazione. Proprio rispetto a questo dato di fatto, l’uscita a sorpresa di Fini sul voto agli immigrati ha rotto gli argini, scompaginando e destrutturando ulteriormente i residui dei margini delle certezze identificative.
In questo articolo non farò riflessioni politologiche, più o meno aderenti alla realtà, sulle conseguenze politiche delle affermazioni di Fini e dei rigurgiti che possono scaturirne nei meandri del palazzo, cioè per esempio dello scontro interno alla maggioranza di governo o del voto trasversale su una simile eventuale legge quando sarà votata in parlamento. Non è di questo che m’interessa parlare. Prenderò invece a pretesto l’uscita d’impatto mediatico di Fini per analizzare il senso del rapporto, innanzitutto istituzionale, tra lo schieramento detto di destra e quello detto di sinistra. Da tempo sono infatti convinto che non ha più senso, se non puramente convenzionale, parlare di differenziazioni politiche di destra e di sinistra, rifacentisi a schieramenti di tradizioni storiche consolidate. Esistono delle tradizioni, quelle sì, che ne rispecchiano i contenuti ed il senso, ormai però saldamente storicizzate, ma non esiste più né un senso né dei contenuti che si possano rispecchiare in dette tradizioni. Da tempo non c’è più politica, né come proposte né come scelte, identificabile in modo netto nelle contrapposte visioni storiche della destra e della sinistra.
Per capire vediamo di risalire al senso genetico. La destra e la sinistra politica hanno origine nello storico parlamento della rivoluzione francese quando, il 17 giugno del 1789, i rappresentanti del popolo si proclamarono e si legittimarono assemblea nazionale, dando l’avvio alla rivoluzione che portò al potere la borghesia ed al tramonto definitivo l’antico regime feudale. Da allora, la disposizione dei seggi di questo storico parlamento è diventata il simbolo delle tendenze e delle tensioni politiche, messe in moto proprio dalla rivoluzione francese. A destra, di fronte al presidente, i nobili e i prelati assolutisti, cioè il blocco degli aristocratici, che auspicavano la restaurazione dell’antico regime. Al centro i deputati liberali, conservatori o monarchici che, pur pendendo dalla parte della destra, volevano mediare in modo da adattare il nuovo avanzante alle esigenze del vecchio. A sinistra i patrioti, ancora sostenitori della monarchia, ma soprattutto timorosi della controrivoluzione, quindi dalla parte del progresso contro la conservazione e la restaurazione. All’estrema sinistra il gruppo dei democratici, tra cui Robespierre, intransigenti sui due punti della sovranità nazionale e dell’eguaglianza civile, per la cui vittoria erano anche disposti all’uso della violenza rivoluzionaria.

 Visioni contrapposte del mondo
 

Da allora il senso originario si è dilatato pur rimanendo inerente ai presupposti fondanti. Destra e sinistra sono ben presto diventate differenti visioni contrapposte del mondo, vere e proprie aree culturali difficilmente conciliabili, che hanno ispirato scelte politiche legate ad esse. Per cui la destra si è identificata nella difesa dei valori tradizionali, fino ad auspicare un vero e proprio tradizionalismo esoterico, riconoscendosi nell’instaurazione autoritaria dell’ordine costituito sostenuto da poteri forti, nella divisione gerarchica della società in tutte le sue sfaccettature, nella teorizzazione di disparità e divisioni che trovano riscontro nella legittimazione di élite di comando. Mentre la sinistra vuole eliminare le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, propugna politiche che riconoscono pari diritti e pari dignità a tutti gli esseri umani, agendo nel senso della realizzazione dell’uguaglianza sociale, rifiuta l’adattamento al sistema capitalista e liberista, in quanto instauratore di aberranti forme di sfruttamento e di disuguaglianze estreme legate alla realizzazione di profitti economici e finanziari, concepisce la comunità sociale sorretta dalla solidarietà e non dall’esercizio del comando per il mantenimento del dominio. Nel mezzo c’è il centro, mediatore tra le due e comunque sempre moderato, che, pur sostenendo regimi liberaldemocratici fondati su principi di libertà, riconosce livelli e forme di disparità e propugna la necessità del comando come regolatore dei conflitti sociali, proponendosi contrario ad interventi radicali di qualsiasi tipo, in quanto si considera oltremodo pragmatico e realistico. Infine le due ali estreme contrapposte che, pur con differenti soluzioni all’interno, propugnano cambiamenti radicali non mediabili, corrispondenti alle due visioni di destra e di sinistra.
Nella politica ufficiale però ormai questi due universi politico-culturali contrapposti trovano pochissimo riscontro. Senz’altro le scelte strategiche si sono livellate a tal punto che è sempre meno possibile identificare una chiara politica di destra che si contrapponga in modo inequivocabile ad una di sinistra. Gli scontri tra le due aree non avvengono più da tempo sul piano delle idee e delle proposizioni sociali complessive, com’è stato in origine, bensì sui programmi di governo oppure in occasione delle campagne elettorali, durante le quali più che altro si scambiano reciprocamente fendenti mediatici tesi soprattutto a screditarsi a vicenda per incrinare l’immagine degli avversari.
Quando presero corpo sotto la propulsione della rivoluzione francese, destra e sinistra si differenziarono da subito perché rappresentarono senza equivoci visioni del mondo e prefigurazioni sociali diversificate. Furono cioè fucine di idee e di ipotesi di sperimentazione politica che, per la loro natura, non potevano che essere in conflitto l’una contro l’altra. Nonostante sostanziosi cambiamenti e vistose metamorfosi teoriche sopraggiunte nel tempo, hanno pur sempre continuato a rappresentare la stessa cosa fino al 1989, quando, col crollo simbolico del muro di Berlino, crollò pure definitivamente l’impero sovietico, cioè l’alternativa politico-sociale al capitalismo per l’immaginario collettivo. Da quel momento le politiche ufficiali in tutto il mondo hanno subito una svolta epocale e, non più caratterizzate dallo scontro teorico-politico tra due realtà e due universi culturali fino allora inconciliabili, hanno totalmente spostato i loro campi d’indagine e di azione dal piano delle idee e delle progettazioni sociali complessive a quello delle progettazioni pragmatiche, finalizzate alla gestione del mondo del giorno per giorno.

 Organici e funzionali al sistema
 

Oggi si può affermare con grande tranquillità che il sistema istituzionale nel suo complesso è sostanzialmente omogeneo, che cioè le forze, le coalizioni e i partiti che lo compongono, pur conservando in alcuni casi differenze non sottovalutabili, sono tutte organiche e funzionali al sistema stesso. Tutte si riconoscono nel metodo liberaldemocratico e confondono la democrazia liberale applicata in auge con la realizzazione della libertà politica. Tutte accettano di essere parte del sistema capitalista e liberista complessivo dominante, differenziandosi solo nella proposizione di modi diversificati per gestirlo. Tutte si pongono, pur con proposte differenziate, come garanti della sicurezza della continuità del presente stato di cose. Poi, siccome in realtà il sistema non funziona se non per gli interessi di pochissimi, mentre tutte le forze democratiche in campo dicono di pensare e di agire per gli interessi della collettività nel suo complesso, allora tutte tentano, ognuna a modo suo, di accreditarsi come riformiste, riconoscendo implicitamente la necessità di modificarlo e di condurlo in modo tale da trasformarlo in una garanzia di equità sociale e di realizzazione della giustizia. Nella realtà delle cose il sistema continua imperterrito il suo cammino di appropriazione delle ricchezze collettive distribuendo a man bassa miseria, sopraffazione, sfruttamento, ingiustizie e deprivazione di senso, mentre i proponentisi riformisti non riescono a far altro che a garantirne la continuità.
Cos’è successo dunque alla destra e alla sinistra? Mi piace chiamarlo un processo progressivo di erosione della sostanza, che ha portato all’annichilimento dei principi originari e dei fondamenti teorici che ne hanno giustificato l’emergere. Mentre erano sorte come portatrici di valori e di principi irrinunciabili, sostenitrici di sistemi sociali basati su idee forti ed inconciliabili, nella continua illusione e nel continuo tentativo di usare il sistema nemico che avrebbero dovuto abbattere o superare, sono state progressivamente ma inesorabilmente assorbite fino a diventare le garanti della perpetuazione del nemico originario. Nei meandri della politica istituzionale oggi nessuno più si sogna di restaurare l’antico regime feudale a destra, o il “sol dell’avvenire” a sinistra. Oggi sono tutti diventati dei bravi pragmatici realisti, consapevoli della posta in gioco, che non è più la trasformazione alle radici del sistema di cose presente, ma quella di scalarne i vertici per gestirlo ed indirizzarlo, lasciandone intatta la sostanza. In fondo la leggendaria presa del potere di marca leninista, sorta a suo tempo per gestire la rivoluzione sociale, in qualche modo è tuttora rimasta una presa del potere, ma molto più pragmaticamente e utilitaristicamente per appropriarsene e basta. Oggi le differenze tra destra e sinistra non sono più sulle contrapposte visioni del mondo e dei sistemi politici, bensì molto più terra a terra sui programmi e sulle proposte per gestire la stessa identica cosa, il sistema vigente, tranquillamente accettato e difeso da entrambe.

 Convivenza e connivenza
 

Un vero e proprio trionfo della convivenza e della connivenza tra fazioni sorte per combattersi, che ha riscontri sia all’interno dei singoli stati nazionali, sia soprattutto a livello della politica internazionale. A dimostrazione sono sufficienti i casi più eclatanti. Il premier inglese Blair, esponente di punta della sinistra storica britannica, vanta l’amicizia ed è perfettamente appaiato sulle posizioni di politica internazionale con Bush, presidente degli USA, rampollo della destra repubblicana più conservatrice. Schroeder, segretario del partito socialdemocratico e premier del governo tedesco in carica, agisce in combutta con e sostiene le stesse posizioni di Chirac, attuale presidente della repubblica francese e storico rappresentante della destra moderata. In questo valzer di allegre alleanze pragmatiche c’interessa da vicino sottolineare la consonanza a tutto campo tra lo stesso Blair ed il premier di casa nostra Berlusconi, dichiaratamente moderato di destra, entrambi in combutta frequente col premier spagnolo Aznar, anch’egli proveniente dalla destra moderata.
Un accenno al quadretto di casa nostra, utile a rendere più succoso il quadretto generale che sto esponendo, fra l’altro del tutto insufficiente. Nella coalizione governativa di centrodestra si trovano accomunati, più dalla litigiosità ormai endemica che da altro, AN, convinti nazionalisti, e la Lega, dichiaratamente secessionisti. Dati i dispetti quotidiani che con noncuranza continuano a propinarsi alla luce del sole, ormai è chiaro a chiunque mastichi un po’ di politica che una tale alleanza si regge esclusivamente per conservare le poltrone governative, ci verrebbe da dire quasi per dispetto della concorrente coalizione parlamentare all’opposizione. Nel centrosinistra allegramente si trovano insieme i DS, eredi storici del vecchio PCI, e personaggi come Mastella, democristiano moderato che mi ha sempre dato l’idea di un faccendiere della politica, e Dini, che guarda caso inizialmente fu eletto nelle fila di Berlusconi. Il loro spensierato stare insieme ha tutta l’aria di essere un patto di ferro per il solo comune interesse, costi quel che costi, di contrapporsi all’odiata immagine di Berlusconi con tutte le forze disponibili, al di là e contro ogni convergenza di pensiero.
Una riflessione particolare richiede l’ultimo atto ufficiale di politica internazionale. Dopo l’ultima risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU votata all’unanimità, che autorizza e raccomanda a tutti i paesi di collaborare alla ricostruzione dell’Iraq, l’area del centrosinistra si è spaccata. La risoluzione ONU da più parti è stata interpretata come una legittimazione postuma dell’intervento bellico americano in Iraq. L’illusorio grandissimo fronte unitario che aveva fatto bella mostra di sé durante le manifestazioni di milioni di persone contro la guerra, in un batter d’occhio si è diluito ed è saltata fuori la vera natura delle cose. Subito La Margherita ed i DS hanno annunciato, pur con differenti diplomatiche sfumature, che la legittimazione ONU permetteva di appoggiare la scelta berlusconiana d’inviare truppe di “pacificazione” e ricostruzione in terra irachena, tuttora teatro sempre più acceso di continuità della guerra, nonostante Bush il 1 maggio scorso ne avesse dichiarato ufficialmente la fine.

 No War senza... l’avallo dell’ONU
 

Qual è allora il senso politico profondo di questa ennesima vicenda sinistrese? Che c’è una differenza incolmabile tra una visione di principio ed una di azione politica che si considera realista. Da una parte l’area plurale movimentista che è contro la guerra in quanto tale, perché la considera uno strumento di sopraffazione egemonica da parte degli stati più forti nei confronti delle popolazioni aggredite ed opta per interventi di altra natura politica e sociale per risolvere i conflitti. Dall’altra l’area istituzionale che pensa, si propone ed agisce in funzione della gestione del potere democratico, che aveva rifiutato la guerra in Iraq non perché guerra, ma perché non aveva l’avvallo dell’ONU, facendo finta di dimenticarsi, fra l’altro, che col governo D’Alema aveva scelto di partecipare alla guerra in Kossovo sempre al di fuori delle Nazioni Unite. Il famoso No War senza se e senza ma, che aveva scandito il senso delle grandiose manifestazioni a cui avevano aderito anche le forze istituzionali, si è così aerizzato di fronte al pressare della realpolitik. Questi signori, che continuano a dirsi di sinistra, hanno trasformato un problema antropologico di principio che inerisce al senso della guerra in un problema di legalità internazionale, aderendo allo stesso terreno dei signori della guerra, facendo finta di dimenticare che il permesso degli organismi internazionali è storicamente sempre stato un alibi usato dai prepotenti per aggredire e colonizzare. Soprattutto dimenticando che il mondo non lo si cambia limitandosi a gestire al meglio il presente stato di cose, ma applicando con coerenza principi radicalmente diversi da quelli su cui il presente si sorregge.
Dove sono finite allora destra e sinistra? Ammesso che lo siano mai state, non appartengono più alla politica fattuale, votata per natura al pragmatismo realista ed alla conservazione del potere vigente. Esse permangono come visioni contrapposte delle cose, molto dilatate, sempre più dilatate. Aleggiano nell’aria e ci sovrastano riuscendo ogni tanto a sfiorare gli avvenimenti nel loro succedersi. Ma, ormai troppo spurie ed ambigue, non ne sono le interpreti, perché la politica nel suo realizzarsi giorno dopo giorno le ha bandite, pur tentando strumentalmente di tenerne conto e di usarle. Sono spunti di pensiero ed occasioni di tensioni ideali, che non hanno però la forza e non trovano la dignità di diventare ed essere vicenda vissuta.
A ben guardare e riflettere, le differenze che rappresentano realmente chiavi di lettura utili ad intervenire per modificare lo stato di cose che non vorremmo, non sono poi di destra o di sinistra, troppo invischiate di amalgami teorici estremamente differenziati e contraddittori tra loro. La diversità che conta è invece tra altre due inconciliabili visioni delle cose. Da una parte una miriade di concezioni che, pur diverse tra loro, vedono come prioritaria la necessità dell’esercizio del potere politico attraverso strutture gerarchiche e forme di dominio più o meno mascherate. Dall’altra la concezione di società che si autogestiscono attraverso la realizzazione di principi di libertà, capaci di suggerire forme di autoregolazione fondate su un “potere” anarchico, o non potere, o assenza di dominio, o potere di tutti, gestito paritariamente, reciprocamente ed equamente tra tutti gli individui componenti le diverse società. L’una pianifica e semplifica attraverso l’ingiustizia e la prepotenza del comando dall’alto, l’altra realizza i valori dell’uguaglianza, della libertà, della fratellanza.

 Andrea Papi