Entrammo, armati 
	fino ai denti, con fucili, pistole e mitragliatori. Non portavamo camicia, 
	avevamo i volti anneriti dal fumo della polvere. 
	“Siamo i rappresentanti della CNT e della FAI,” dicemmo al capo di 
	gabinetto, “e questa è la nostra guardia del corpo, che viene con noi. 
	Companys ci vuole parlare.” 
	Il presidente ci accolse in piedi. Era visibilmente commosso. Ci strinse la 
	mano; quasi quasi ci abbracciava. Lo spettacolo fu breve. Ci sedemmo. 
	Ciascuno di noi aveva un fucile fra le ginocchia. Companys ci tenne il 
	seguente discorsetto: 
	“Per primissima cosa devo dir Loro questo: la CNT e la FAI non sono state 
	fino ad oggi trattate mai in modo rispondente alla loro importanza. Siete 
	stati sempre perseguitati nel modo più duro, ed io, che un tempo mi trovavo 
	dalla vostra parte, con dolore mi sono visto costretto, per esigenze 
	politiche, a combattervi ed a perseguitarvi. 
	Oggi siete i padroni della città e di tutta la Catalogna, perché voi, voi 
	soli, avete battuto i fascisti. Spero che non ve la prendiate a male se, 
	tuttavia, ricordo che uomini del mio partito, della mia guardia e della mia 
	amministrazione, siano stati pochi o molti, negli ultimi giorni non vi hanno 
	rifiutato il loro appoggio.”. Rifletté un attimo e poi continuò: 
	“Ma la verità è semplicemente questa: perseguitati ancora l’altro ieri, oggi 
	avete battuto i militaristi e i fascisti. Io so chi siete e che cosa siete, 
	e perciò devo parlarvi in tutta sincerità. Avete vinto. 
	Tutto è nelle vostre mani. Se non avete più bisogno di me come presidente 
	della Catalogna, o se non mi volete più, ditelo subito. 
	Mi batterò contro i fascisti come semplice soldato. 
	Ma se invece pensate che da questo posto, che in caso di un trionfo del 
	fascismo non avrei abbandonato vivo, io possa essere utile alla lotta che 
	prosegue in tutta la Spagna e della quale non sappiamo quando e come finirà: 
	allora potete contare su di me, sul mio partito, sul mio nome e sul mio 
	prestigio. Potete fidarvi della mia lealtà come della lealtà di un uomo, e 
	di un uomo politico, convinto che con oggi è crollato tutto un passato, e 
	tutta la sua vergogna, e che desidera sinceramente che la Catalogna si ponga 
	alla testa dei paesi socialmente più avanzati.” 
	Juan García Oliver 1 
Tratto da: Hans Magnus Enzensberger, La breve estate dell’anarchia, Feltrinelli, Milano, 1973.
	
Il momento sembrava arrivato 
	di Abel Paz 
Agli inizi di dicembre del 1932, dopo circa tre mesi di detenzione 
	governativa, senza che riuscisse mai a capire a che cosa si doveva questa 
	misura, Durruti venne liberato. 
	Di nuovo fuori e di nuovo i soliti problemi. Non ebbe alcuna difficoltà a 
	farsi riassumere al suo vecchio posto di meccanico, nella fabbrica tessile 
	dove aveva lavorato dal maggio del 1931, ossia il suo primo impiego da 
	quando era tornato dall’esilio. 
	La prima cosa che si domandò Mimì fu fino a quando sarebbe durata la 
	libertà, allorché Durruti le comunicò, tre giorni dopo essere stato 
	liberato, che quella sera si riuniva tutto il gruppo per studiare la 
	posizione che la CNT doveva prendere riguardo al recente potere autonomo 
	della Generalitat de Catalunya. 
	La riunione si tenne in casa di García Oliver, nel quartiere di Sants. 
	All’ora convenuta, erano presenti Antonio Ortiz e Gregorio Jover, Francisco 
	Ascaso e suo fratello Domingo (che, anche se non apparteneva al gruppo, 
	godeva della fiducia di tutti), Aurelio Fernández e la sua compagna María 
	Luisa Tejedor, anche lei del gruppo; Durruti, Ricardo Sanz e García 
	Vivancos, che erano arrivati assieme, seguiti, poco dopo, da Pepita Not e 
	Julia López Maimar. 
	Oggetto della riunione? García Oliver era stato incaricato dal Comitato 
	Regionale della CNT (e questo secondo una mozione del pleno regionale) della 
	elaborazione di un piano insurrezionale da mettere in pratica nel momento 
	che si riteneva opportuno. 
	E quel momento sembrava arrivato. 
	
Guerra o rivoluzione 
	di Abel Paz 
Stalin inviava un alto funzionario a Madrid e un rivoluzionario a 
	Barcellona. Perché questa differenza? I due avevano compiti differenti. 
	Antonov Ovssenko veniva a Barcellona, capitale dell’anarcosindacalismo 
	spagnolo e centro europeo di una ideologia rivoluzionaria ostile al 
	marxismo. Non si era mai avuto un movimento socialista catalano di una certa 
	forza. 
	Il Partido Socialista Obrero Espanol era sempre stato un’organizzazione 
	minuscola, senza alcun peso. L’Unió Socialista de Catalunya aveva 
	sicuramente dirigenti di prestigio ma senza la sua alleanza elettorale con 
	la Esquerra non avrebbe avuto mai un deputato né un consigliere municipale. 
	Il Partido Comunista filo-moscovita era, di fatto, inesistente e il Bloc 
	Obrer i Camperol era un raggruppamento giovane e dinamico, ma senza alcuna 
	influenza sulle masse operaie del paese. 
	Le due grandi forze popolari erano la CNT, di radice anarcosindacalista e la 
	Esquerra Republicana, di orientamento catalanista. La missione del console 
	generale sovietico era certamente difficile, più pericolosa ancora 
	dell’assalto al Palazzo d’Inverno: doveva attirare, neutralizzare o 
	distruggere quelle due forze. 
	Pochi giorni dopo il suo arrivo a Barcellona, e probabilmente indirizzato da 
	un conoscitore della scena politica catalana, Antonov Ovssenko entrò in 
	relazione personale con me, della Esquerra, e con García Oliver, uno dei 
	rappresentanti più autentici dell’anarcosindacalismo catalano. 
	All’inizio, il console sovietico prese alloggio all’Hotel Majestic del Paseo 
	de Gracia. E in due o tre occasioni ci invitò, García Oliver e me, a 
	pranzare con lui da soli, semplicemente per “parlare della situazione”. Il 
	suo obiettivo era duplice: capire chi eravamo e come la pensavamo e studiare 
	se c’era la possibilità di attirarci dalla sua parte. 
	Allora la discussione era centrata sull’alternativa: guerra o rivoluzione. 
	Gli anarchici sostenevano la tesi rivoluzionaria. Una volta trasformato il 
	colpo di Stato del 19 luglio 1936 in guerra civile – diceva García Oliver –, 
	la vittoria delle forze repubblicane non può essere che il risultato 
	dell’azione militante della classe operaia. E quindi è necessario fare una 
	“guerra rivoluzionaria”, espressione fisica, sociale ed economica del 
	proletariato rivoluzionario. 
Brani tratti da: Abel Paz, Durruti e la rivoluzione spagnola, BFS, La Fiaccola, Zero in condotta, 1999