Il 23 maggio del 1992, quando i killer di Giovanni Falcone erano già lontani, e si preparavano a un brindisi, altri - non sappiamo ancora chi, e chiamarli mafiosi o uomini infedeli delle istituzioni fa poca differenza - erano stati incaricati di entrare in azione adesso. Perché anche le intuizioni, i segreti investigativi di Giovanni Falcone fossero cancellati, come quelle vite sull'autostrada di Capaci. Perché non restasse più traccia dei pensieri che il giudice aveva portato via da Palermo - anche quelli - quando aveva accettato la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di diventare direttore degli Affari penali. Appena un anno prima.

"Voleva lasciarsi dietro - racconta Martelli ai giudici - scontri, polemiche e incomprensioni". Ma a Roma, Falcone continuava a riflettere sulle indagini che aveva dovuto lasciare a metà. E non erano poche.
Leggeva e rileggeva i suoi appunti. Poi annotava su computer e agendine elettroniche.

"Una sera - ricorda Giuseppe Ayala al processo per la strage di Capaci - quando ancora Giovanni era al palazzo di giustizia di Palermo, andai nella sua stanza. Mi disse: Prendi un sorso di whisky, devo terminare una cosa. Quando finì di scrivere sul computer portatile mi guardò: Sto annotando tutto quello che mi sta succedendo per ora in ufficio. Qualunque cosa dovesse succedere, tu sai che c'è tutto scritto".

Non si è mai trovato nulla degli appunti di Giovanni Falcone, se non due fogli che il magistrato aveva affidato alla giornalista Liana Milella.
Quel 23 maggio si mossero dunque con certosina solerzia. Certo, adesso ad agire non erano più i picciotti delle cosche, ma probabilmente insospettabili uomini delle istituzioni, con un tesserino e un distintivo in tasca. Non può che essere così. Anche perché, poche ore dopo la strage, la Procura di Caltanissetta aveva già posto i sigilli all'ufficio di Falcone al ministero, e dato ordine di cercare ogni elemento utile alle indagini nelle sue abitazioni.

Ma accaddero lo stesso cose strane: nella casa di Roma, il Servizio centrale operativo della polizia non trovò mai il databank Casio "Sf 9500", non ce n'è traccia nel verbale del primo sopralluogo. Eppure, qualche giorno dopo - eravamo già a fine giugno - si materializzò proprio fra quelle mura. E i familiari lo consegnarono immediatamente alla magistratura. Il contenuto era stato però interamente cancellato, ed era scomparso un accessorio fondamentale, l'estensione di memoria che conteneva altri dati.

Anche nell'abitazione palermitana di Falcone, si materializzò un altro computer solo dopo il sopralluogo della polizia, un portatile Toshiba. I dati c'erano tutti, ma erano stati maldestramente letti e in parte modificati.

Nell'ufficio del ministero di via Arenula, collegato al computer da tavolo, è rimasta un'unità di "back-up", ma delle relative cassette magnetiche non si è trovata traccia. Accanto, il giudice teneva un notebook Compaq, protetto da chiave elettronica: anche in questo caso, il contenuto del computer portatile venne consultato maldestramente, cancellando le date originali dei documenti.
Imperizia degli investigatori o quei file erano stati letti da qualcun altro che aveva poi cercato di depistare, sviando i sospetti? Il giallo è rimasto.
 

 

Nell'inferno che era diventato via d'Amelio, il 19 luglio del 1992, qualcuno mantenne comunque i nervi saldi. Paolo Borsellino era morto, ma bisognava assicurarsi che non nuocesse più per davvero. C'era solo un modo: cancellare tutti quei segreti che aveva raccolto dopo la strage di Capaci. Molti erano dentro un'agenda rossa, che al magistrato era stata regalata dai carabinieri.

Qualcuno ebbe per davvero i nervi saldi in quell'inferno di corpi maciullati e macerie. Si avvicinò all'auto blindata, frugò dentro la borsa del giudice. Prese solo ciò che cercava, sapeva cosa. E fece scomparire per sempre l'agenda di Paolo Borsellino.

L'ultima volta, era stata aperta appena qualche ora prima: "Non si separava mai da quell'agenda", racconta la vedova, Agnese Piraino, ai giudici del primo processo Borsellino. "Segnava tutto: incontri, impegni di lavoro. Però adesso non si trova più. Quella domenica, a pranzo, la teneva nelle mani ed aveva segnato gli appuntamenti della settimana successiva".

In udienza, il pubblico ministero Anna Maria Palma insiste nel chiedere alla signora Piraino: "Ma lei è sicura che quando suo marito è andato via da Villagrazia avesse portato con sé quell'agenda?"

"Si - è la risposta - lui metteva le sue cose nella borsa. Non la lasciava mai, la portava sempre con sé, tanto che io, scherzosamente, gli dicevo: Guarda mi sembri Giovanni Falcone, che ovunque andava portava con sé la borsa con le sue cosine. E Paolo, da un po' di tempo, faceva la stessa cosa, camminava sempre con questa borsetta dietro".

Era un'agenda dell'Arma dei carabinieri. Non c'era fra le cose che vennero restituite alla famiglia dopo la strage di via d'Amelio. "La borsa si era un po' accartocciata - ricorda la vedova Borsellino - ma il contenuto era integro. Un po' affumicato, ma c'era tutto. O meglio, quelle poche cose che Paolo aveva: un'agenda con i suoi numeri telefonici, le sigarette. Ma l'agenda rossa non c'era".

 

A Paolo Borsellino rimasero altri 57 giorni di vita. E li visse tutti come se ognuno dovesse essere l'ultimo.
Anche lui, come Giovanni Falcone, aveva intuito quale passaggio epocale fosse stato segnato dall'omicidio di Salvo Lima, avvenuto il 12 marzo di quell'anno: un sistema di equilibri di potere, durato decenni, si era infranto.

"Dal 23 maggio in poi ci sono una serie di evidenti segnali", raccontail magistrato Antonio Ingroia al primo processo per la strage di via d'Amelio: "Paolo Borsellino cominciò ad essere perfettamente consapevole della particolare sovraesposizione in cui si trovava. E ripeteva: Giovanni Falcone era il mio scudo, dietro il quale potevo proteggermi. Morto lui, mi sento esposto e adesso sono io che devo fare da scudo nei vostri confronti".

I 57 giorni cominciarono a scorrere inesorabili. Nei tre processi che si sono celebrati, i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, li ripercorrono tutti. Borsellino aveva un "chiodo fisso", così lo chiamava. Scoprire gli autori dell'eccidio di Capaci. "Quando avrò le idee più chiare sul contesto e la pista giusta - confidò ad Ingroia - consacrerò le mie dichiarazioni alla Procura di Caltanissetta: non voglio legarmi le mani oggi, con una verbalizzazione, quando ancora devo verificare una serie di cose che potrebbero essere importanti per lo sviluppo delle indagini".

Iniziò a rileggere alcuni appunti dell'amico Giovanni, alla ricerca di episodi, paure e presentimenti che potessero aprire uno spiraglio di verità. Sfogliò quelle pagine per giorni. "Era assolutamente convinto di trovarsi di fronte a una strage di Cosa nostra - spiega Ingroia ai giudici della Corte d'assise - ma il punto era cercare episodi, particolari filoni investigativi che potessero aver costituito una causa determinante o scatenante del fatto stragista. Ricordo che diceva: Giovanni non aveva l'abitudine di tenere un diario. Se però ha deciso di appuntare frasi e riferimenti ad alcuni episodi, vuol dire che dietro questi fatti c'è molto di più di quanto non appaia".

Ma in quella ricerca, sembrava solo. Paolo Borsellino stava già ripercorrendo la stessa amara sorte di Giovanni Falcone. I primi ostacoli li incontrò proprio al palazzo di giustizia.
Ebbe comunque il tempo di riprendere alcune delle intuizioni di Giovanni Falcone, curò l'inizio della collaborazione di due pentiti, Leonardo Messina e Gaspare Mutolo. Comprese che dietro la spartizione degli appalti si nascondevano i nuovi segreti dei rapporti fra mafia e politica.
 

Sono trascorsi dieci anni, tre processi. Ma non sappiamo ancora chi azionò il telecomando quel pomeriggio del 19 luglio 1992, in via d'Amelio. La condanna all'ergastolo di alcuni degli esecutori materiali e dei mandanti di mafia non ha soddisfatto neanche le sentenze, che pur hanno aperto un importante squarcio di verità.
"La Corte è pienamente consapevole - hanno fatto ammenda i giudici del Borsellino ter nelle motivazioni della sentenza - che la ricostruzione dei fatti che intende offrire è gravemente lacunosa, rimanendo tuttora non identificata una larga parte degli attentatori e dovendosi ancora sciogliere innumerevoli e importanti interrogativi riguardo alle modalità operative seguite dai medesimi".

Di chi è la colpa? "Non è agevole individuare le cause di tale stato di cose", è la risposta della sentenza: "Certamente, una grave responsabilità va addebitata a quegli imputati coinvolti nella fase esecutiva che, pur avendo deliberato di collaborare con l'autorità giudiziaria, hanno mantenuto un atteggiamento gravemente reticente in ordine a molti aspetti della propria - e altrui - partecipazione alla strage".
Non è stata riconosciuta leale la partecipazione di Salvatore Cancemi e di Giovan Battista Ferrante, a cui i giudici del Borsellino ter hanno negato lo sconto di pena previsto dalla legge per i collaboratori di giustizia.

Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, che erano state alla base delle indagini iniziali e del primo processo, vengono adesso liquidate: "La sua collaborazione - dice la sentenza del Ter - ha provocato un notevole dispendio di risorse investigative ed ha a lungo impegnato gli inquirenti nel gravoso sforzo di discernere le poche verità dalle molte menzogne che hanno infarcito le sue dichiarazioni".
La verità resta avvolta da una coltre di dubbi. Chi coprono i due pentiti chiave dell'inchiesta?
 

Nei giorni successivi alla strage di Capaci scattano perquisizioni nelle villette attorno al tratto di autostrada in cui Cosa nostra aveva organizzato l'attentato. Una fonte confidenziale porta la squadra mobile in un'abitazione dove vengono scoperte alcune apparecchiature per la clonazione dei telefonini P300 della Nec e di molti altri modelli. Sul momento, gli inquirenti non si rendono neanche conto di quello che hanno in mano, non sanno che attorno a uno strano giro di telefonini clonati stanno molti dei misteri dell'eccidio di Capaci.

La Procura di Palermo dà subito incarico al suo esperto informatico, Gioacchino Genchi, di esaminare tutti i reperti. Ne nascerà una maxi indagine su una strana agenzia del crimine elettronico, composta da una trentina di persone, le più diverse, che operavano in tutta Italia nel business della clonazione. Dalla Calabria alla Puglia, da Roma ad Ascoli Piceno, a Torino e Milano: mettevano a disposizione dei criminali più diversi gli ultimi ritrovati della tecnologia. Che arrivavano principalmente dalla Gran Bretagna.

Fra i clienti della singolare agenzia, c'era anche Cosa nostra. Lo si scoprì un anno dopo la strage quando furono arrestati due dei componenti del commando di Capaci, Gioacchino La Barbera e Antonino Gioè. Loro utilizzavano cellulari clonati, anche se non è stato ancora chiarito da quando. Ma i telefonini non mentono: anche una breve comunicazione, lascia una quantità di codici tale da poter ricostruire tutto il percorso che ha fatto. Difficili ricordarli a memoria i codici. E allora bisogna appuntarli: la stessa sequenza di numeri telefonici e di relativi codici seriali che Gioè aveva segnato su un'agendina della Camera dei deputati, sequestrata dalla Dia nel covo di via Ughetti, a Palermo, era tra i file trovati nel computer dell'agenzia del crimine elettronico.

In uno dei file, chiamato "Motorola.log è allora forse la chiave delle singolari compagnie dei mafiosi, in genere così gelosi delle proprie cose. C'è la firma di questa agenzia delle clonazioni: per accedere al software, i falsificatori avevano fissato una chiave: 27/05/91. E questa avevano fornito a tutti i loro clienti.
 

Gli "insospettabili" si erano mossi quel pomeriggio del 23 maggio 1992. Ma avevano lasciato qualche traccia anche sul luogo dell'attentato. Tre giorni dopo, gli investigatori della polizia scientifica di Palermo notano un singolare bigliettino a circa cento metri dal cratere dell'esplosione.

Sta scritto: "Guasto numero 2 portare assistenza settore numero 2. GUS, via Selci numero 26, via Pacinotti". E di seguito il numero di un cellulare, 0337/806133. I magistrati ci mettono poco a capire da chi sia utilizzato. Un'informativa della Direzione centrale della Polizia criminale spiega che è di un funzionario del Sisde, il servizio segreto civile. "L'ipotesi di una convergenza di interessi di settori deviati dei servizi segreti viene corroborata dal rinvenimento di questo bigliettino", sostiene il pm Luca Tescaroli nella sua requisitoria: "Ci si deve chiedere, in effetti: come mai un biglietto con un'annotazione relativa al nome e alla sede di una società del Sisde, nonché ad un numero telefonico di un funzionario appartenente alla medesima struttura siano stati rinvenuti in quel luogo proprio nella immediatezza dell'eccidio? Quando, da chi e per quale motivo è stato fatto ritrovare in quel sito?", si domanda il magistrato.

La "Gus", Gestione unificata servizi, è una società di copertura dei servizi segreti. Quel funzionario è stato vice capo della struttura informativa di Palermo ed è ritenuto vicino a Bruno Contrada, l'ex numero 3 del Sisde finito in carcere per presunte collusioni mafiose, condannato in primo grado e assolto in appello. Hanno lavorato insieme a Roma e a Palermo.
Via In Selci, e non via Selci, è la sede della società Gus, a Roma, mentre in via Pacinotti, a Palermo, c'è la Telecom. Troppi dati sul quel biglietto. Poi, quel "guasto numero 2", che farebbe pensare a una comune avaria tecnica è in realtà il codice di errore nel funzionamento del telefonino, che segnala la probabilità di una clonazione in atto.

Quante coincidenze. Anche gli stragisti di Capaci utilizzavano cellulari clonati. Ma questo, all'epoca, lo sapevano solo i diretti interessati e pochi altri. Forse qualcuno voleva mettere sull'avviso? L'affare del bigliettino diviene subito un'inquietante presenza. Anche soltanto per l'ipotesi di un depistaggio. Perché è difficile credere che gli agenti dei servizi segreti che operarono sul teatro della strage - come risulta dagli atti - si siano persi fogli e bigliettini da visita.
E' solo la prima di singolari tracce, che tornano anche nella strage di via d'Amelio.
 

Affari e impunità. Sono le uniche voci nell'agenda di lavoro di un capo dell'organizzazione mafiosa. Per gli uni e per l'altra, Totò Riina aveva cominciato a spendersi molto prima della stagione delle stragi.

Correva il 1987, si approssimavano le elezioni politiche, che in Sicilia coincidevano anche con un turno delle Provinciali, e lui provava a giocare una nuova partita con il mondo politico. La guerra di mafia lo aveva d'altro canto designato vittorioso, consegnandogli lo scettro del comando: adesso, all'organizzazione non restava che un solo problema per garantirsi il futuro, aggirare lo scoglio del maxi, il primo grande processo imbastito dal pool di Falcone e Borsellino contro Cosa nostra.

Fu così che Riina, conciliando la garanzia dell'impunità alla prosperità degli affari, tentò il salto di qualità che fa di un generale golpista un potenziale primo ministro. Era la risposta all'esercito e alla schiera dei suoi colonnelli rinchiusi in galera, che chiedevano conto e ragione.
Cambiò così il gioco e partirono i primi segnali. Riina aveva ormai deciso la svolta, lo spostamento di un consistente pacchetto di voti dalla Democrazia cristiana al Partito socialista.

Anni di consuetudini si spezzavano d'un colpo. "Il canale socialista - così viene tratteggiato nella prima inchiesta su mafia e appalti della Procura di Palermo, che arrivò solo nella seconda metà degli anni Novanta - da percorrere parallelamente o alternativamente a quello storico fornito dagli esattori Salvo di Salemi e da Salvo Lima, idoneo a consentire a Cosa nostra di uscire indenne dalla più incisiva offensiva giudiziaria che l'organizzazione mafiosa si fosse mai venuta a dovere affrontare: il primo maxi-processo. Era attraverso il gruppo Ferruzzi e l'opera di persuasione che i principali esponenti di esso avrebbero compiuto presso i loro referenti politici che Riina contava per risolvere i gravi problemi giudiziari". L'incontro con i nuovi referenti sarebbe avvenuto sul terreno della spartizione degli appalti in Sicilia.

Ma non era il solo canale di trattativa. I pentiti hanno rivelato che all'inizio degli anni Novanta vennero rinsaldati quei contatti fra Cosa nostra e alcuni esponenti della Fininvest, che risalivano ai primi anni Ottanta. Per questa accusa, Marcello Dell'Utri, deputato di Forza Italia, è imputato davanti al tribunale di Palermo per presunte collusioni con le cosche.

Quando poi, nel gennaio del '92, la Cassazione confermò le condanne del maxiprocesso, Riina avviò la vendetta verso i vecchi referenti politici della prima repubblica: cominciò con Salvo Lima, decretando la sua morte. Attraverso le stragi, intavolò poi una nuova trattativa con i palazzi del potere, alla ricerca di nuovi referenti. Riina ne aveva fatto scaturire anche un "papello" di richieste ad imprecisati esponenti delle istituzioni. Le richieste, sempre le stesse: revisione dei processi, sconti nei sequestri dei beni, trattamento penitenziario privilegiato.

I pentiti hanno parlato, le Procure hanno riempito pagine e pagine di verbali. Sul registro degli indagati, a Caltanissetta e Firenze, sono finiti Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Indicati, per motivi di segretezza dell'indagine, rispettivamente come "Alfa" e "Beta", "Autore uno" e "Autore due".

A Firenze, la prima inchiesta sui mandanti occulti è stata archiviata il 14 novembre 1998: il coinvolgimento di "Autore uno e due - sostiene comunque il gip nelle due pagine del provvedimento - è un'ipotesi che conserva una sua plausibilità". E le indagini adesso continuano, anche se contro ignoti, ripartendo da quegli elementi.

A Caltanissetta, stessa sorte per "Alfa" e "Beta", ma le valutazioni del procuratore Giovanni Tinebra sono state più critiche: "Una forzatura arbitraria" credere "all'istigazione" dei fondatori di Forza Italia, "un'ipotesi sfornita di aderenza alla successiva realtà", è stato scritto nella richiesta di archiviazione inviata a metà febbraio del 2001 al gip Giovanbattista Tona. Trentasei pagine, firmate anche dal procuratore aggiunto Paolo Giordano e dal sostituto Salvatore Leopardi, per mettere in rilievo più d'una riserva sul pentito Cancemi e le sue dichiarazioni sulle "persone importanti contattate da Riina"; piuttosto, i magistrati danno credito a Giovanni Brusca, che ha parlato di stragi realizzate da Cosa nostra "per indurre lo Stato alla trattativa".

Ai pm di Caltanissetta non convince l'analisi del pentito Maurizio Avola: "Va osservato che egli ha dichiarato che la riunione a Catania in cui Eugenio Galea, di ritorno da altra riunione con Riina, disse che stava nascendo un partito nuovo risale al settembre '92, dopo le stragi. A tutto concedere - scrivono i pm nella loro richiesta di archiviazione - le dichiarazioni di Avola dimostrano soltanto che Cosa nostra avrebbe guardato con interesse la nascita della nuova formazione, non già che erano stati stipulati patti con tale formazione". Poi ancora: "Prima della costituzione di Forza Italia - si legge nel provvedimento della Procura - in Cosa nostra era stato caldeggiato il progetto di costituzione di un movimento indipendentista con caratterizzazione di leghismo meridionale, poi abbandonato solo sul finire del 1993, inizi del 1994. Il che mal si concilia con un impegno politico dei vertici della Fininvest".

Infine, per la Procura di Caltanissetta, anche un teste d'eccezione a difesa di "Alfa" e "Beta", l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: "La decisione di scendere in politica di Berlusconi, per quanto mi consta - ha fatto mettere a verbale - va collocata esclusivamente a due, tre mesi prima delle elezioni del '94".

Quindi, il "papello" con le richieste di Riina: "Le clausole previste (abolizione dell'ergastolo, del 41 bis e della legge sui pentiti) - ne è convinta la Procura di Caltanissetta - coincidono in parte con alcune importanti leggi che però sono state varate non da Forza Italia ma attraverso un ampio consenso politico".

Insomma, tutto da ricominciare, e questa volta sul versante degli appalti, così come suggerisce la stessa richiesta di archiviazione. Eppure, quando i giornali diedero la notizia del provvedimento, uno dei magistrati che a quell'indagine aveva lavorato negli anni passati, Luca Tescaroli, restò non poco sorpreso. "Finché ho potuto - ha scritto in un articolo pubblicato da Micromega - ho fatto la scelta più naturale per un magistrato, quella della riservatezza".
Cosa era accaduto: sui giornali era apparsa anche la bozza della sua richiesta di archiviazione per "Alfa" e "Beta", ben più pesante di quella poi firmata da Tenebra. "Un fatto grave - scrive Tescaroli nel suo articolo - sia per la fuga di notizie su atti riservati, sia per la sovraesposizione e la delegittimazione di chi ha semplicemente svolto il proprio dovere, indagando senza distinguere le persone sulla base del censo, del potere personale e del ruolo sociale, com'è previsto dal nostro ordinamento (almeno sino ad oggi)".

Tescaroli rispondeva a chi lo aveva accusato di "teoremi fantasiosi", difendeva la sua indagine e le conclusioni che aveva preparato: mettevano in rilievo come le dichiarazioni dei collaboratori fossero "concordanti" e "integrate" fra loro, e che era necessario proseguire le indagini. "Perché ad esempio - è adesso la sua proposta - non creare un pool temporaneo sovraterritoriale di magistrati, trasversale alle singole procure, che convogli le migliori energie ed esperienze professionali e continui a lavorare sulle stragi del '92-93 e sul tema connesso del riciclaggio?"
Luca Tescaroli era già andato via da Caltanissetta, per "l'impossibilità - ha spiegato - di proseguire il suo lavoro".

All'inizio di maggio del 2002, il gip Giovanbattista Tona ha disposto l'archiviazione del procedimento nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Falcone, Borsellino. Ma non solo. Ci sono trent'anni di delitti eccellenti senza verità che non sia quella, a volte forse fin troppo comoda, di una cupola mafiosa che tutto poteva e decideva. Una lunga e travagliata stagione giudiziaria ha rassegnato centinaia di ergastoli a Totò Riina, Bernardo Provenzano, con i soliti noti di Cosa nostra. E insieme a loro, moventi che però sembrano stare stretti nei panni dei "picciotti" di Corleone.

Ma i processi hanno detto spesso molto di più delle sentenze. Hanno disseminato indizi, a volte labili, a volte concreti, che portano a responsabilità oltre il livello della cupola mafiosa: non si sono mai potute accertare. Anche i pentiti hanno chiamato in causa i colletti bianchi dei palazzi. Ma alle inchieste non è bastato per vedere al di là delle colpe dei mafiosi.

Viene da chiedersi come potranno proseguire le indagini.

Il concetto della "convergenza di interessi" sembra ormai essere crollato sotto i colpi delle sentenze di assoluzione per alcuni dei casi più eclatanti che hanno visto imputati uomini politici. Nella zona grigia delle complicità eccellenti ci sono però anche altre presenze, quelle di spregiudicati uomini d'affari innanzitutto. Ed è da questa prospettiva che la Procura di Caltanissetta ha tentato di ripercorrere la strada tortuosa che porta ai mandanti occulti.

Nonostante le assoluzioni per i politici - da Andreotti a Mannino - le sentenze dei giudici di Palermo rassegnano ancora nuovi dubbi. Autorizzano a ritenere che la "convergenza di interessi" fra politica e mafia sia esistita per davvero e che però non si sia ancora riusciti a colpirla con un adeguato numero di sentenze perché le indagini e i processi non hanno rassegnato la "prova", intesa secondo i canoni della legge penale.

Calogero Mannino è il caso più eclatante, assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma nelle 435 pagine della motivazione della sentenza, i giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo esprimono pesanti perplessità: "È acquisita la prova - scrivono - che nel lontano 1980-81, Mannino aveva stipulato un accordo elettorale con un esponente della famiglia agrigentina di Cosa nostra, Antonio Vella". E dopo di lui, anche con altri fra i boss della vecchia mafia della città dei Templi. Ci sono le prove, ma non tutte quelle necessarie per condannare: "Manca l'accertamento della controprestazione di Mannino", annota il collegio giudicante presieduto da Leonardo Guarnotta: "Non c'è la prova che l'accordo elettorale abbia avuto ad oggetto la promessa di svolgere un'attività, anche lecita, anche sporadica, per il raggiungimento degli scopi di Cosa nostra".

Ma allora i mafiosi facevano beneficenza ai politici? La sentenza esprime anche una valutazione storico-giudiziaria: "La mafia ha sempre votato per la Dc, partito di maggioranza relativa, poiché era agli esponenti di tale forza al potere che ci si doveva rivolgere per ottenere vantaggi: è rimasto epocale il temporaneo voltafaccia verso i socialisti (ampiamente documentato al processo) che si era verificato alle elezioni nazionali del 1987". Eppure, ribadiscono i giudici, per condannare è mancata la prova della "controprestazione del politico, la prova delle condotte positive aventi contenuto individualizzante e consapevole".

E questo è un altro dato che spinge verso una rivalutazione critica della stagione giudiziaria dell'antimafia sin qui avviata. Colpa delle indagini che non hanno saputo trovare quella prova, della timidezza dei tribunali ad accertarla, o degli strumenti di legge inadeguati per colpirla?

In attesa delle risposte, la ricerca storica e sociologica non può fermarsi. Anche perché l'organizzazione mafiosa cambia velocemente pelle e le ultime indagini ci dicono che ha riconquistato un rinnovato rapporto con i palazzi delle istituzioni. Si rischia, dunque, di non comprendere più i profondi cambiamenti in atto.

Un problema irrisolto, e non da ora. L'essenza delle travagliate indagini su mafia e politica la coglie l'avvocato di parte civile Alfredo Galasso nel processo per la strage Falcone. Chiede a Giuseppe Ayala, uno dei pubblici ministeri del primo maxiprocesso: "Vi fu una sfumatura, che non era di poco conto, fra la requisitoria e l'ordinanza di rinvio a giudizio. Cosa ricorda?"

Giuseppe Ayala: "Si è vero, ne parlammo a lungo con Falcone, io non condividevo il termine contiguità che pure il mio ufficio, la Procura, aveva adoperato nella requisitoria. Il termine era venuto fuori durante una riunione dedicata al capitolo dei rapporti fra mafia e politica. Dietro quella questione terminologica, ce n'era una ben più profonda, relativa all'impostazione dell'atto. C'era da fissare il livello di cautela nel parlare di un rapporto che certamente esisteva, ma che processualmente non era provato. Ebbene, l'ufficio istruzione e Falcone non condivisero quel termine. E nell'ordinanza, sia pure fra le ottomila pagine, c'è un accenno: "Ma quale contiguità? C'è qualcosa di più che la mera contiguità". E mi trovai perfettamente d'accordo con Giovanni Falcone".

Nella ordinanza sentenza del maxi-processo, il pool scrive: "Nella requisitoria del pubblico ministero si fa riferimento alla contiguità di determinati ambienti imprenditoriali e politici con Cosa nostra. Ed indubbiamente questa contiguità sussiste anche se è stata scossa, ma non definitivamente superata, dai tanti tragici eventi che hanno posto in luce il vero volto della mafia. Ma qui si parla di omicidi politici - prosegue il documento - di omicidi, cioè, in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente voltare pagina".

Tratto da "Repubblica", 28 marzo 2002

Boss in fuga dopo la condanna
Ergastolo per la strage di via D' Amelio, in due scappano
Cosimo Vernengo e Giuseppe Urso erano stati assolti in primo grado, la Corte d' appello li ha ritenuti colpevoli

di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo

Condannati all'ergastolo per la strage di via D'Amelio, in fuga subito dopo la sentenza. L'ordine di arresto è arrivato tardi, Cosimo Vernengo e il cognato Giuseppe Urso erano ormai latitanti.
Assolti in primo grado nel febbraio del 1999, condannati in appello dieci giorni fa al Borsellino bis, i due sono riusciti a beffare la giustizia. Hanno fatto perdere le loro tracce tra il verdetto della corte d' assise d'appello di Caltanissetta e la notifica del provvedimento di custodia cautelare che li rispediva in cella.

Sei in tutto gli imputati per i quali è stata ribaltata l'assoluzione di primo grado. Tre di loro, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina e Lorenzo Tinnirello, nonostante la precedente assoluzione, non avevano mai lasciato il carcere perché detenuti per altri processi. Vernengo, Urso e Gaetano Murana erano invece tornati liberi. Murana è stato così arrestato nella notte tra il 18 e il 19 marzo, a dodici ore dalla sentenza d'appello, nella sua casa di Palermo. Gli altri due, che erano stati in carcere ininterrottamente per quattro anni e mezzo fino al 1999, detenuti tra Pianosa e Rebibbia, hanno invece scelto la latitanza.

Cosimo Vernengo è figlio del boss di Corso dei Mille, Pietro che fu protagonista di una fuga iniziata dopo un ricovero agli arresti ospedalieri e finita in un vano segreto nel suo cantiere nautico, al Ponte Ammiraglio. Nel processo Borsellino bis, Vernengo e Urso sono stati chiamati in causa per la prima volta dal pentito Vincenzo Scarantino. Avrebbero preparato, insieme ad altri boss, la 126 esplosa in via D' Amelio: prima rubata e poi imbottita di tritolo. Accadeva due giorni prima della strage. Insieme con loro, ci sarebbero stati anche Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Pietro Aglieri, Francesco Tagliavia e Tanino Murana. Vernengo e Urso si muovevano spesso insieme. Il primo ha un cognome di riguardo, il secondo, commerciante, ha sposato Rosa Vernengo, l'altra figlia di Pietro: era già stato coinvolto nel maxiprocesso dopo le rivelazioni di Totuccio Contorno, ma era stato poi assolto grazie alla testimonianza di un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, marito di una sua cugina acquisita, che aveva escluso che fosse affiliato a Cosa nostra.

Nel processo Borsellino bis il destino giudiziario dei due, come degli altri assolti, era appeso invece alla credibilità di Scarantino. Il pentito accusò, poi si tirò indietro, ritrattando. Così era scattata l' assoluzione del primo grado. Ma qual che mese fa, l'ex picciotto della Guadagna ha chiesto di essere ascoltato nuovamente dai giudici del processo d'appello. Che gli hanno in parte creduto. E sono così arrivate le nuove condanne all' ergastolo. La sentenza è stata emessa dalla corte d' assise d' appello di Caltanissetta presieduta da Francesco Caruso. I giudici hanno letto il verdetto alle 13 del 18 marzo. Hanno inflitto complessivamente 13 ergastoli, confermati quelli per Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Confermata anche la condanna a dieci anni, per associazione mafiosa, a Giuseppe Calascibetta e Salvatore Vitale; otto anni e sei mesi per Salvatore Tomaselli e otto anni per Antonino Gambino.

Unico assolto, in primo grado e in appello, Giuseppe Romano, accusato soltanto di associazione mafiosa. Alle 14 del 18 marzo l' ordinanza di custodia cautelare a carico dei condannati era già pronta: a chiedere il provvedimento erano stati i sostituti procuratori gene rali Dolcino Favi e Maria Giovanna Romeo nella loro requisitoria. Ma Vernengo e Urso hanno scelto la latitanza, mentre Murana non si è mosso da Palermo, tanto che a poche ore dall' arresto ha anche firmato il registro dei sorvegliati nei locali del commissariato di zona. A notte fonda, ha ricevuto la notifica del provvedimento, ed è stato trasferito all' Ucciardone.
 

 


 

Tratto da "Repubblica", 29 marzo 2002

"Stragisti invitati alla fuga" L' ira del figlio di Borsellino
Bufera sulla latitanza di due condannati per via D' Amelio. Centaro: "È gravissimo"
 

di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo

Una latitanza offerta " un piatto d' argento" Dice così Manfredi Borsellino, figlio del procuratore Paolo, assassinato in via D' Amelio. Rompe un lungo silenzio e commenta esterrefatto la notizia della latitanza di Cosimo Vernengo e Giuseppe Urso, condannati all' ergastolo per la strage del 19 luglio di dieci anni fa e fuggiti prima che i poliziotti tornassero ad arrestarli. " un fatto gravissimo, enorme" ripete Manfredi Borsellino. "on c' è molto da commentare" prosegue sconsolato."Credo - aggiunge - che gli sia stata offerta una latitanza su un pi atto d' argento. Due dei presunti assassini di mio padre sono stati di fatto invitati alla fuga e sono ancora in circolazione" .

Arrestati sul finire del 1994, Vernengo e Urso, accusati di avere caricato di tritolo l'autobomba che uccise il magistrato e cinque agenti della sua scorta erano stati assolti in primo grado e scarcerati dopo quattro anni e mezzo di carcere duro. Liberi in attesa dell' appello, hanno scelto la fuga alle prime avvisaglie di una possibile condanna. Il 18 marzo la Corte d' assise d' appello di Caltanissetta, ribaltando il primo grado, gli ha inflitto l' ergastolo.

Insieme con Vernengo e Urso i giudici hanno condannato altri tre boss rimasti in carcere tra i due gradi di giudizio perché detenuti per altri processi. Gaetano Murana, invece, ha atteso a casa l' arrivo dei poliziotti. Come avevano chiesto i sostituti procuratori generali nel corso della requisitoria, la Corte d' assise d' appello ha disposto il ripristino della custodia cautelare per i condannati. Il provv edimento è stato emesso poco meno di un' ora dopo la sentenza. Ed eseguito nella tarda serata. Vernengo e Urso, probabilmente già da giorni, avevano deciso di rendersi irreperibili. "' è un oggettivo vuoto legislativo per casi come questi" spiega il presidente della commissione Antimafia Roberto Centaro. Conferma indirettamente quel che viene detto negli ambienti investigativi: "Non possiamo controllare tutti i potenziali ergastolani, non lo prevedono le norme". "Appunto - ribatte Centaro - occorre introdurre, con un regolamento del ministero degli Interni, una forma di vigilanza discreta ma efficace nei confronti di chi, accusato di reati gravissimi, potrebbe ragionevolmente rendersi latitante in caso di condanna. Finora non c' è nulla del genere, ma bisogna provvedere perché fatti gravissimi come questi non si ripetano. Un regolamento mi pare la soluzione possibile, per rendere automatica una misura preventiva che impedisca la latitanza".

Uno stato di allerta, dunque, dettato dalle norme e non dalla sensibilità degli apparati giudiziari e investigativi: al riparo da possibili storture, disfunzioni, ritardi nella trasmissione delle informazioni. "Questa è una vicenda che lascia l' amaro in bocca", commenta Francesco Crescimanno, legale di parte civile della famiglia Borsellino al processo per la strage di via D' Amelio. Nelle sue parole la conferma di un vuoto normativo che rende possibile questo genere di latitanze. "La giustizia - aggiunge l' avvocato - dovrebbe attrezzarsi per evitarle". Crescimanno guarda alla fuga dei due ergastolani ma anche a quel che resta da fare per ottenere piena giustizia: "C' è da accertare quale altro livello è stato coinvolto nella progettazione e nella decisione delle stragi del 1992".

 

Tratto da "la Repubblica" del 5 aprile 2002

Diventerà un monumento alle vittime della mafia l'auto di Giovanni Falcone, la croma bianca blindata che il 23 maggio del '92 fu dilaniata dal tritolo di Cosa nostra. Il ministero della Giustizia ha accolto la richiesta del Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Era stato Gian Carlo Caselli, l'ex procuratore di Palermo poi diventato direttore delle carceri, ad avanzare l'idea del monumento. Ora è il suo successore, Giovanni Tinebra, l'ex procuratore di Caltanissetta, a completare il progetto. La croma blindata è stata già assegnata al Dap e presto verrà collocata in una delle scuole di formazione dell'amministrazione penitenziaria.
 

La stessa idea era venuta anche al procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna: "Un segno concreto per non dimenticare il sacrificio delle vittime della mafia", spiega il magistrato, che adesso sta verificando la possibilità di realizzare un altro monumento, con l'auto blindata di Paolo Borsellino, da collocare nella palazzina della Dna.
 

"Quella croma bianca era stata assegnata da poco al giudice Falcone - ricorda Giuseppe Costanza, l'autista del magistrato, che il 23 maggio si salvò miracolosamente - ultima di tante auto su cui abbiamo praticamente vissuto insieme, dall'84 al '92. E in quella croma bianca ci sono gli ultimi ricordi della signora Francesca Morvillo, del giudice Falcone: le loro parole, che nulla facevano presagire ciò che sarebbe accaduto".
 

Giuseppe Costanza condivide l'idea di far diventare quell'auto un monumento: "Perché è necessario ricordare sempre - dice - soprattutto che giustizia deve ancora essere fatta, perché non conosciamo i nomi dei veri mandanti. Quanta amarezza ho provato qualche tempo fa guardando l'auto del giudice Rocco Chinnici, devastata dal tritolo nell'83, abbandonata in un magazzino dell'Ucciardone. Però, insieme alle cose, ai simboli, bisogna avere cura delle persone". Costanza è amareggiato, aveva chiesto di poter continuare a prestare servizio all'ufficio automezzi: "Non avrei potuto continuare a fare l'autista per il piombo che porto in corpo, ma avrei voluto continuare a dare il mio contributo per ciò che so fare in questo settore così delicato per la sicurezza dei magistrati. Mi sono invece trovato a dovermi reinventare un mestiere, come informatico. Ma non è il mio mestiere, lo so, ogni giorno per me è una mortificazione". (s.p.)


 

 

processo Borsellino deposizione di Agnese Piraino
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