Stato, l'etnocidio 
		necessario 
		a cura di 
		Piero Flecchia 
Tra la caduta di Barcellona e il maggio francese è il 
	lungo inverno dell'anarchia: quando sembrò farsi vera l'affermazione 
	arrogante di Trotskij: "Voi siete cani spenti! Gente il cui tempo è 
	tramontato". Soprattutto colpiva una sorta di sterilità culturale, una 
	incapacità del pensiero anarchico di uscire fuori dal ghetto dove si 
	perpetuava in una sorta di minorità ed esilio. Il maggio francese mette 
	improvvisamente in movimento, con dei fatti che ancora fermentano nel corpo 
	della società europea, un nuovo tipo di pensiero che, là dove cerca delle 
	affinità recenti, sempre più spesso guarda, oltre gli anatemi e le 
	maledizioni marxiste e borghesi, all'anarchia. Ed ecco che pensatori prima 
	del e nel marginale anarchico, improvvisamente ritornano alla ribalta. 
	Clamoroso è il caso di Malatesta, la cui opera riprende a circolare in tutto 
	il mondo.
	Ma questa autentica rinascita anarchica resterebbe ben poca cosa se si 
	limitasse a una rilettura e, magari, reinterpretazione dei fatti che 
	accadono alla luce di testi scritti tra fine ottocento e primi novecento. Il 
	"Rinascimento anarchico" si individua con due nomi che da due continenti 
	stabiliscono due fermi, e forti caposaldi nelle scienze umane di maggiore 
	importanza oggi: Noam Chomsky nel linguaggio e Pierre Clastres in 
	antropologia.
	Pensatori grandissimi, pensatori decisivi per il prodursi di una nuova 
	cultura libertaria: una cultura dichiaratamente anarchica che non solo si 
	misura con i temi del pensiero marxista e borghese, ma tale pensiero confuta 
	e precede.
	Per restare nel clima post-sessantottesco, anche i marxisti dovevano, 
	almeno a parole, dismettere le tecniche di conquista dello stato per 
	occuparsi di tecniche di abolizione dello stato. Di qui la tentazione di un 
	titolo come "La società contro lo stato", il primo libro di Pierre Clastres 
	tradotto in italiano. Ma la ricerca di Clastres conosceva anche altre 
	radicali e motivate scelte culturali, portate avanti da una serrata e severa 
	analisi socioculturale, spesso tra polemiche e con una caustica ironia, da 
	un linguaggio cartesianamente chiaro. Questo Clastres che certamente ha dato 
	uno tra i più grandi contributi teorici all'anarchia di oggi, è raccolto 
	nella antologia postuma "Archeologia della violenza e altri scritti di 
	antropologia politica". È una organica riflessione sul nesso violenza potere 
	politico strutture religiose e rapporti tra i sessi nelle società primitive. 
	Ma una riflessione sempre condotta avendo ben presente l'oggi. Tra il ieri 
	"selvaggio" e l'oggi dell'"acculturazione dell'incivilito" Clastres 
	stabilisce nessi e distinzioni, sempre facendo centro su quella che egli 
	definisce "La questione principe": attraverso quali processi la 
	stratificazione sociale si introduce in società che non la conoscono. Detto 
	altrimenti: quali le origini del dominio.
	Splendida antologia che raccoglie una serie di saggi in sé conclusi, 
	tutti centrati sulla categoria del "politico", il libro culmina con il 
	formidabile studio sul ruolo della guerra nelle culture selvagge: due 
	capitoli postumi di un libro che Clastres stava scrivendo, preziosa traccia 
	sulla quale riflettere e con la quale misurarsi, soprattutto per non cadere 
	oggi ancora una volta vittime dei mercanti della pace: che sempre precedono, 
	nel tragico girotondo del dominio, i mercanti della guerra. Questa gente che 
	commercia con i massacri lontani per i vicini scanni montecitoriferi. Ecco 
	perché, potendo scegliere un capitolo del libro, abbiamo optato per la 
	decisiva analisi dell'etnocidio: in linea teorica più nulla di nuovo si 
	potrà forse aggiungere. Se non sarà certo questo saggio di Clastres a por 
	fine agli etnocidi lontani, facciamo almeno in modo, a procedere da esso, 
	che i profittatori a noi vicini finiscano, almeno loro, di lucrare i 
	profitti qui di un etnocidio accaduto altrove. Ma soprattutto, leggendo 
	Clastres, si possono trovare i fondamentali per por fine a quell'etnocidio 
	della cultura anarchica che per oltre mezzo secolo, tra fascismo e 
	restaurazione democristiana, i vari bigottismi italici hanno selvaggiamente 
	portato avanti. Ecco perché, anche certe forzature del traduttore Piero 
	Flecchia, certe "trasposizioni" di nomi francesi con confratelli italiani, 
	ci sembrano nella linea del testo: una sorta di fedeltà allo spirito di 
	Pierre Clastres.
Etnocidio: il vocabolo solo pochi anni or sono non esisteva. Oggi, per il 
	favore capriccioso della moda, ma molto anche per un una obiettiva 
	attitudine del termine a rispondere a una esigenza di precisione 
	terminologica, etnocidio è parola rapidamente dilagata, uscendo dall'ambito 
	dove fu tenuta a battesimo: l'etnologia, per entrare nell'uso comune. Ma la 
	repentina diffusione di un vocabolo garantisce l'idea che ha la funzione di 
	veicolare, nel rigore e coerenza auspicabili? Non necessariamente la 
	comprensione si avvantaggia con la verbosità; tutti abbiamo perfettamente 
	chiaro il referente del vocabolo etnocidio. Nelle intenzioni di chi l'ha 
	coniata, la parola doveva esprimere una realtà finora mai chiaramente 
	individuata. Se si è sentita la necessità di questo nuovo vocabolo, un 
	pensiero nuovo urgeva, o meglio, un qualche cosa di antico, e finora 
	irrilevato, si faceva pensiero. Un vocabolo che fino a ora aveva, nel 
	giudizio degli uomini, adeguatamente rappresentato e significato il 
	fenomeno: il vocabolo genocidio, sembrava ormai inadeguato al compito. Non 
	si può quindi tentare una seria riflessione sul termine etnocidio, senza 
	tentare prima di capire in che cosa si distingue il fenomeno così designato 
	dalla realtà che il vocabolo del genocidio designa.
	Prodotto del processo di Norimberga ai criminali nazisti, il concetto 
	giuridico di genocidio è la registrazione, entro la norma giuridica, di un 
	tipo di crimine fino ad allora irrilevato. Più precisamente, rimanda alla 
	prima manifestazione giuridicamente registrata di questo crimine: lo 
	sterminio sistematico degli ebrei in Europa, ad opera dei nazisti. Il 
	delitto giuridicamente definito "di genocidio" origina dal razzismo, ne è il 
	logico, e necessario prodotto. Là dove il razzismo si sviluppa liberamente, 
	come appunto nella Germania nazista, si deve finire nel genocidio. Le guerre 
	coloniali che, dopo il 1945 hanno sconvolto il terzo mondo, e che ancora 
	durano, hanno spesso sollevato, contro le potenze coloniali, l'accusa di 
	genocidio, ma problemi di politica internazionale, e la relativa 
	indifferenza dell'opinione pubblica, hanno impedito una azione giuridica 
	come quella di Norimberga.
	Se il genocidio nazista è stato il primo ad essere giudicato, non è però 
	stato il primo genocidio perpetrato. La storia dell'espansione coloniale 
	occidentale nel XIX secolo - che ha portato alla creazione di grandi imperi 
	coloniali da parte dei maggiori e più potenti stati nazionali europei -, è 
	innanzitutto una catena di sistematici massacri di popolazioni aborigene. 
	Per le dimensioni continentali, per la drammaticità e vastità della caduta 
	demografica, il più evidente è però il genocidio delle popolazioni amerinde. 
	Dal 1492, anno del loro arrivo in America, i bianchi mettono in essere una 
	autentica macchina di distruzione degli aborigeni, che continua ancora oggi 
	a funzionare là dove ancora sopravvivono, come nelle grandi foreste 
	amazzoniche, tribù selvagge. Anche negli ultimi anni sono stati 
	documentatamente denunciati massacri di indios in Brasile, Colombia, 
	Paraguay: sempre invano. Proprio dalle loro esperienze americane gli 
	etnologi - soprattutto Robert Jaulin - sono stati indotti a formulare il 
	concetto di etnocidio: il referente di questa idea sono gli indios del sud 
	America. Abbiamo dunque a disposizione un terreno tristemente privilegiato 
	per una ricerca circa la differenza tra genocidio ed etnocidio, poiché le 
	ultime popolazioni libere del continente sono simultaneamente vittime di 
	entrambi i crimini. Se il termine genocidio rimanda all'idea di razza, e 
	alla volontà di sterminare una minoranza razziale, l'etnocidio si propone 
	non la distruzione fisica degli individui (nel qual caso ricadremmo nel 
	genocidio) ma l'annientamento della loro cultura. L'etnocidio è la 
	distruzione sistematica dei modi di vita e di pensiero di un popolo da parte 
	di un altro popolo. Mentre il genocida uccide fisicamente, l'etnocida uccide 
	lo spirito. In entrambi i casi è la morte, ma una morte differente: la 
	soppressione fisica immediata è altra cosa rispetto alla oppressione 
	culturale; che ha effetto solo sui tempi lunghi e in modo diverso, a seconda 
	delle congiunture e capacità di resistenza degli oppressi. Non si tratta qui 
	di scegliere il minore tra due mali: è fin troppo evidente che in ogni caso 
	è sempre da preferire la minore barbarie. Ciò premesso, qui si cerca il vero 
	significato del concetto di etnocidio, sul quale poi indagare.
	Identica la visione del diverso nel genocidio e nell'etnocidio: il 
	diverso è la differenza, ma innanzitutto la cattiva differenza; 
	però seguono vie e visioni divergenti, circa la terapia della "cattiva 
	differenza". La volontà genocidiaria aspira puramente e semplicemente 
	all'annientamento della differenza. Si stermina gli altri perché sono 
	irrimediabilmente malvagi. La volontà etnocida ammette invece una relatività 
	nel male della cattiva differenza: gli altri sono malvagi, ma possono essere 
	riscattati, obbligandoli a trasformarsi, fino a renderli, se possibili, 
	identici a un modello che loro si propone, e infine si impone brutalmente. 
	La negazione etnocida del diverso conduce a una assimilazione 
	dell'altro a sé, in una necessità di totale identificazione, volgendo il due 
	in uno. Si potrebbe contrapporre genocidio ed etnocidio considerandoli 
	rispettivamente come forme degenerate di pessimismo ed ottimismo. In sud 
	America gli uccisori di indios spingono ai termini estremi la posizione 
	della differenza, facendo dell'altro un assoluto estraneo: l'indios 
	selvaggio non è un essere umano, è solo e soltanto un animale, per cui 
	l'omicidio di un indios non è più un atto criminale. Qui si giunge ad 
	annullare lo stesso razzismo, perché esso implica ancora il riconoscimento 
	di una comune natura umana con il perseguitato. Non siamo che alla 
	ripetizione di una antica e monotona affermazione, le cui origini 
	Lévi-Strauss ci rammenta in Race et Histoire: i popoli caraibi si 
	domandavano se gli spagnoli, nuovi giunti, erano dei o uomini, mentre i 
	bianchi si interrogavano circa la natura umana o nudamente bestiale degli 
	indigeni.
	Chi pratica l'etnocidio? Chi aggredisce l'anima dei popoli? Etnocidari di 
	prima classe, nell'America del sud, ma anche in altri continenti, si 
	segnalano innanzitutto i missionari. Propagandisti militanti della fede 
	cristiana, il loro scopo unico ed esclusivo è di sostituire alle credenze 
	pagane la religione del monoteismo evangelico. La posizione evangelica 
	comporta due certezze:
	a) la differenza: il paganesimo è inaccettabile e deve essere 
	respinta;
	b) la cattiva differenza può essere sovrastata e infine cancellata.
	Per questa seconda convinzione ogni cultura etnocidante inclina 
	all'ottimismo: riconosce, come il cristianesimo, al diverso, i mezzi per 
	elevarsi, attraverso un processo di identificazione, fino alla propria 
	assoluta perfezione gaudiosa. Distruggere la forza delle convinzioni pagane, 
	è distruggere la sostanza stessa della socialità tribale. Ma appunto questo 
	è il risultato scientemente cercato dai missionari: sola via per condurre 
	l'indios alla vera fede, è farlo passare dalla sua cultura selvaggia, al 
	qualitativo dei rapporti che vigono tra occidentali. Il preteso discorso 
	laico è solo una ripetizione e continuazione del messaggio cristiano: non 
	aggiunge assolutamente nulla di nuovo. Un esempio è la dottrina ufficiale 
	del governo brasiliano circa la politica filo-aborigena: "I nostri indios, 
	proclamano i responsabili, sono esseri umani come tutti gli altri, ma la 
	vita nelle foreste li condanna alla miseria e alla sventura. È nostro dovere 
	aiutarli a superare questa triste condizione. È loro assoluto diritto 
	elevarsi alla dignità di cittadini brasiliani, potendo così partecipare a 
	pieno titolo allo sviluppo della società nazionale, godendone tutti i 
	benefici". La spiritualità dell'etnocidio? Ma è l'etica dell'umanitarismo!
	L'orizzonte sul quale si determina e lo spirito, e la pratica dell'etnocidio 
	è individuato dai seguenti due assiomi:
	1) la gerarchia delle culture: ce n'è di inferiori e superiori;
	2) però una e una soltanto è al sommo: la nostra!
	per cui è evidente che la nostra cultura: bianca occidentale, potrà 
	avere con le altre culture, e segnatamente quelle selvagge, solo un rapporto 
	di tipo negativo. Però si tratta di una negazione positiva, perché qui si 
	vuol sopprimere l'inferiore solo in quel che ha di inferiore, per elevarlo. 
	Si sopprime l'indianità dell'indios per farne un cittadino brasiliano. Nella 
	logica convinta degli agenti dell'etnocidio, l'etnocidio non è mai vissuto 
	come un puro atto distruttivo: questa sua realtà è sempre occultata alle 
	loro coscienze, dove invece è vissuto come un momento necessario, che 
	l'umanitarismo: cuore della tradizione culturale e occidentale, 
	assolutamente impone.
	Definiremo etnocentrismo la vocazione a riferire tutte le differenze 
	all'unità della propria cultura. L'occidente è etnocida perché 
	etnocentrista: si pensa e si vuole la civiltà. Così formulato, il 
	problema suscita immediatamente una domanda: la nostra cultura è la sola 
	etnocentrista? Prendiamo in esame il nome che ogni società primitiva si 
	autoattribuisce: come si autodenomina; e si scopre che ovunque, ogni cultura 
	primitiva attribuisce a sé un solo identico nome: gli Uomini. Alcuni esempi 
	dal campo della mia esperienza personale: i Guaiaki dicono di se stessi che 
	sono Ascé: le Persone, i Waika del Venezuela si proclamano Yanomami: le 
	genti, gli eskimesi sono Innuit, Uomini nella loro lingua.... Oppostamente, 
	è regola generale che ogni società designi le popolazioni finitime con 
	termini sistematicamente ingiuriosi peggiorativi spregiativi. Ogni cultura 
	divide l'umanità in due. Da una parte i sodali: che si autopresuppongono il 
	paradigma per eccellenza dell'umano; circa l'altra parte, essa partecipa 
	solo subordinatamente e mediocremente al consorzio degli umani. La 
	riflessione su se stessa di ogni società selvaggia; riflessione che ci è 
	raccontata dal modo di autodenominarsi, ci rappresenta ogni società 
	selvaggia come culturalmente etnocentrista in quanto afferma la superiorità 
	della propria cultura, rifiutando pari status a tutte le altre: ritenute 
	sideralmente inferiori. Ed ecco che l'etnocentrismo si rivela la cosa forse 
	più imparzialmente e meglio distribuita tra gli uomini sulla terra; la 
	cultura occidentale sembra ora in nulla distinguersi dalle altre. Dobbiamo 
	però meglio svolgere la nostra analisi. In ragione dell'universale 
	diffusione, dobbiamo pensare l'etnocentrismo come una proprietà formale di 
	ogni cultura; immanente nell'evento cultura. Tutte le culture si 
	considerano: la cultura per eccellenza; perché l'etnocentrismo è 
	l'essenza stessa della cultura. Detto altrimenti: le culture di altrove, le 
	altre culture, non sono mai apprese come differenza positiva, ma, lungo un 
	asse che articola una struttura gerarchica, come inferiorità.
	Se tutte le culture sono etnocentriste, resta però il fatto che solo la 
	nostra occidentale è etnocida, per cui ne consegue che non necessariamente 
	la pratica dell'etnocidio procede dalle convinzioni etnocentriste, 
	altrimenti tutte le culture dovrebbero praticare l'etnocidio: e così non 
	accade. Proprio davanti a questo problema mi sembra esista un vuoto 
	speculativo, tra quanti si sono occupati, e anche correttamente, del 
	problema dell'etnocidio. Riconoscere e denunciare la funzione etnocida della 
	cultura occidentale non è sufficiente. Se si limita a definire il mondo 
	dell'uomo bianco come mondo dell'etnocidio, si rimane all'esterno del 
	problema, ripetendo (legittima ripetizione certamente), quanto denunciato 
	con grande acume e forza morale già infinite altre volte, da persone egrege, 
	quali il vescovo Bartolomeo de Las Casas che, agli albori del XVI secolo 
	gridò forte e chiaro, in termini esatti ed implacabili, il genocidio e 
	l'etnocidio spagnoli in Messico e nelle isole dei Caraibi. Leggendo gli 
	studi sull'etnocidio ho avuto l'impressione che gli autori ritenessero la 
	civiltà occidentale una sorta di astrazione, senza radici socio-storiche, 
	una vaga entità che, da tempi immemorabili, portava in sé una inclinazione 
	spirituale per l'etnocidio. Invece la nostra cultura non è per nulla una 
	astrazione: è il risultato, a poco a poco costruito e faticosamente, di una 
	vicenda, che può essere svelata da una attenta ricerca genealogica. Che cosa 
	fa della civiltà occidentale una civiltà etnocida? Ecco il problema! 
	L'analisi dell'etnocidio esige, oltre la denuncia dei fatti, una ricerca sul 
	"come" si è determinato: attraverso quali vicende storiche, il 
	nostro universo culturale. Dobbiamo quindi volgerci alle vicende accadute. 
	Poiché non è una astrazione atemporale, la civiltà occidentale non è un 
	blocco compatto, una realtà omogenea, sempre identica a se stessa e nel 
	tempo e nello spazio: ma è purtroppo proprio tale falsa immagine che gli 
	storici dell'etnocidio tendono a proiettare. Se l'occidente pratica 
	l'etnocidio, così come il sole è fonte di calore e luce, una tale situazione 
	finisce per rendere non solo inutile, ma perfin assurda la denuncia del 
	crimine, e i tentativi di salvare le vittime. Questi studiosi finiscono per 
	denunciare l'etnocidio come una situazione allo stato diffusivo 
	nell'occidente, noi invece oppostamente riteniamo si deva, almeno come 
	ipotesi, domandarci se questa autentica vocazione all'etnocidio 
	dell'occidente non corrisponda e non sia la prosecuzione di una sorta di 
	orrore-errore all'interno della macchina culturale occidentale: che ha 
	praticato innanzitutto nel proprio ambito, sul proprio corpo l'etnocidio. Su 
	questa linea dobbiamo innanzitutto individuare gli elementi che distinguono 
	la nostra cultura da quelle primitive o selvagge, perché è in questo ambito: 
	della differenza, che dobbiamo cercare il meccanismo criminale. Il 
	primo e decisivo criterio di classificazione per differenza tra società 
	selvagge e società storiche è lo Stato.
	Società selvagge = società senza stato - Società storiche = società dello 
	stato.
	Ecco i termini sui quali si deve centrare la speculazione. Possiamo 
	legittimamente associare i concetti di stato ed etnocidio nell'ambito della 
	società occidentale? E poi generalizzare facendo delle società stataliste 
	società etnocide? Sarebbe così anche spiegato perché le società selvagge, 
	società senza stato, o primitive, possono essere etnocentriste senza cadere 
	nell'etnocidio.
lo stato, ovvero l'etnocidio
Soppressione delle differenze culturali giudicate negative, o malvage, l'etnocidio 
	è azione di un principio di identificazione; progetto di riduzione 
	dell'altro diverso a un a me simile: gli indios in Amazzonia sono soppressi 
	in quanto tali e volti in buoni cittadini brasiliani. Il processo di 
	etnocidio vuole la riduzione del molteplice diverso: la sua dissoluzione 
	nell'uniforme seriale dell'unità sempre identica a se stessa. E che cos'è 
	esattamente la nostra struttura statale se non la messa in azione di un 
	meccanismo centripeto che, là dove se ne manifesta la necessità, non esita 
	ad usare la più spietata violenza per reprimere tutte le istanze 
	centrifughe? Lo stato si vuole e onestamente proclama: il centro della 
	società; in una da sempre ribadita rappresentazione antropomorfa, cervello 
	che controlla le varie parti del corpo sociale: il "tutto" dove le 
	parti si ricapitolano; luogo delle decisioni ultime: alle quali tutti devono 
	allinearsi. Se si spinge l'indagine nel cuore dello stato si scopre che la 
	forza che lo muove e lo mantiene in azione è la logica dell'uomo assoluto: 
	che procede contro l'orrore della differenza che il concetto di molteplice 
	sta a significare. Svolgendo la riflessione entro le tecniche del pensare 
	strutturale, noi scopriamo che la pratica dell'etnocidio e i processi di 
	gestione della macchina statale funzionano allo stesso modo, e producono gli 
	stessi effetti: sia che si consideri i risultati della "civiltà 
	occidentale", sia che si consideri i risultati dell'azione della macchina 
	statale, sempre ci si trova davanti a una volontà di riduzione progressiva, 
	e finale cancellazione del molteplice, trasformando le diversità delle 
	differenze in una identità, che si fa consustanziale necessità, pratica del 
	gusto dell'identico: culto dell'Unità.
	Dall'analisi formale passiamo a quella diacronica temporale, lungo il cui 
	asse esaminiamo la cultura francese, come caso particolare della cultura 
	occidentale, e a un tempo esemplificazione feconda dello spirito e destino 
	dell'occidente. La Francia origina in una vicenda plurisecolare i cui 
	confini coincidono meticolosamente con i processi espansionistici dello 
	stato, agli esordi monarchico e poi repubblicano. A ogni ulteriore sviluppo 
	della forza della macchina statale corrisponde una espansione della relativa 
	cultura. La cultura francese è una cultura nazionale; è la cultura-culto del 
	francese. La dilatazione dell'autorità dello stato francese si traduce 
	automaticamente in un espansionismo anche linguistico. La nazione si può 
	dire costituita, e lo stato si proclama detentore assoluto ed esclusivo del 
	potere, solo là dove e quando la popolazione sulla quale si esercita la 
	dominazione dello stato, parla solo e soltanto la lingua dello stato. 
	Macroscopicamente, questo processo di integrazione passa per la soppressione 
	di ogni possibile differenza. In questa necessità, coerentemente logica 
	entro le strutture stataliste, rientra, dall'alba, la nazione francese: 
	quando la Francia era meno della valle della Senna, e i suoi re pallidi 
	signori del nord, i cui domini stavano tutti al di sopra della valle della 
	Loira. La crociata contro gli albigesi, si abbattè sul sud cancellandone la 
	differenza: religione, poesia, letteratura. Con il pretesto di condurre una 
	crociata contro i catari tutto fu cancellato, e le popolazioni della Lingua 
	d'Oc divennero sudditi del re di Francia. Con il trionfo dei giacobini sui 
	girondini nel corso delle lotte politiche nate dalla rivoluzione del 1789: 
	vittoria della tendenza centralista accentratrice su quella municipalista e 
	federalista, il disegno dell'amministrazione statale di Parigi si 
	perfeziona. Cancellate le regioni storiche, nate ed espressione di una 
	realtà locale culturalmente omogenea, si introducono delle entità astratte: 
	i dipartimenti, sorti proprio per frantumare e sopprimere quanto di 
	differente sopravviveva, e così ovunque facilitare la penetrazione 
	statalista. Così sprofonda la realtà antica del mondo rurale: la 
	francesizzazione è infine conseguita. Ultima tappa di questo travaglio per 
	cancellare le differenze la terza repubblica: essa trasforma 
	irreversibilmente gli individui in cittadini con l'istruzione obbligatoria 
	gratuita e il servizio militare di massa: l'etnocidio è consumato, ora 
	finalmente si consente alle tradizioni locali di esistere, trasformate in 
	elementi dell'industria dello spettacolo, ad uso e consumo del turista.
	Anche da questo exscursus brevissimo risulta ad abundantiam che la 
	soppressione, a seconda delle necessità più o meno violente, delle 
	differenze, cioè l'etnocidio, rientra nel naturale funzionamento della 
	macchina statale, la quale procede sistematicamente alla standardizzazione 
	dei rapporti tra gli individui: lo Stato non riconosce che cittadini eguali 
	davanti alla legge.
	Ogni stato è il principio dell'etnocidio in azione. Questa affermazione vale 
	anche per stati completamente diversi dagli stati europei? Prendiamone in 
	esame uno: lo stato incaico. Gli Incas, sulle Ande erano riusciti a 
	costruire una macchina amministrativa che suscitò la più profonda 
	ammirazione degli spagnoli e per la continentale vastità del territorio e 
	per la precisione nei dettagli tecnici amministrativi, per cui l'imperatore 
	e le legioni di funzionari erano in grado di esercitare un controllo 
	capillare e totale su tutti gli abitanti dell'impero. Svela la dimensione 
	attivamente etnocida della macchina la sua propensione ad incaizare tutte le 
	popolazioni conquistate: non solo costringendole a pagare tributi ai nuovi 
	padroni, ma soprattutto imponendo di celebrare prioritariamente il culto dei 
	conquistatori: il culto del sole, cioè il culto dell'Inca stesso, che del 
	sole era la forma vivente. Pure qui ci troviamo davanti a una religione 
	imposta con la forza dallo stato, se necessario a detrimento dei culti 
	locali, anche se la pressione esercitata dagli apparati incaici in tale 
	direzione non raggiungerà mai la follia maniacale, la violenza tremenda 
	degli spagnoli e degli altri cristiani per sradicare l'idolatria. Abili 
	diplomatici, gli incas sapevano, a tempo debito, l'opportunità dell'impiego 
	della forza, reagendo con la più spietata brutalità, come ogni struttura 
	statale là dove e quando il dominio è messo in discussione. Frequenti le 
	rivolte contro l'autorità di Cuzco, tutte erano spietatamente represse, 
	seguiva poi il castigo: deportazioni in massa dei vinti in territori 
	lontanissimi da quelli di origine, perché ivi erano luoghi di culto come 
	templi, grotte, sorgenti e fiumi sacri e quindi segnali di resistenza. 
	Sradicamento, deterritorializzazione, etnocidio....
	In quanto negazione della differenza, la violenza etnocida è l'essenza dello 
	stato, tanto negli imperi barbarici che nelle incivilite culture 
	occidentali: tutte le compagini statali sono etnocide, l'etnocidio è il 
	normale modo d'essere dello Stato. Siamo dunque in presenza di una 
	universalità dell'etnocidio, in quanto ben presente non solo nell'universo 
	della cultura dei bianchi, ma forza attiva in tutte le culture che si 
	reggono su una socialità statalista. La riflessione sull'etnocidio indica la 
	necessità di una analisi dell'istituzione stato, ma nel contempo si può 
	concludere che l'etnocidio è lo stato all'opera, e che uno stato vale 
	l'altro? Non sarebbe ancora ricadere in quell'indifferenziato generico, in 
	quell'errore di eccessiva astrazione e allontanamento dal caldo degli 
	eventi, che abbiamo in precedenza rimproverato agli studiosi dell'etnocidio?
	Se esiste, dove possiamo collocare la differenza che ci impedisce di 
	allineare su uno stesso piano, facendo di tutto un mucchio, gli stati 
	barbari: inca, faraoni, despotismo orientale... e gli stati inciviliti: 
	mondo occidentale?
	Colpisce innanzitutto la differente volontà di esercitare l'etnocidio, 
	mentre la capacità può essere circa stimata pari. Negli stati barbarici si 
	pratica l'etnocidio: abolizione della differenza, quando i popoli 
	assoggettati si ribellano; tornati sottomessi, si concede loro la pratica 
	delle tradizioni. E questa ci sembra più una prova di forza che di 
	debolezza. Gli inca, per esempio, tolleravano una relativa autonomia locale, 
	tra le comunità che riconoscevano l'autorità politico-religiosa 
	dell'imperatore. Nulla di tutto questo in occidente. Qui la determinazione 
	etnocida degli stati è senza limiti: sfrenata. Ecco perché può condurre al 
	genocidio, e possiamo ritenere il mondo dell'occidente come la cultura che 
	pratica il genocidio assoluto. Che cosa rende la cultura occidentale così 
	totalitariamente genocida? È il suo sistema di produzione economico, 
	spazio dell'illimitato, perché i suoi confini tendono sempre a spostarsi 
	altrove: spazio quindi di una infinita e permanente fuga in avanti. Il 
	tratto peculiare che fa diverso, individua e distingue l'occidente è il 
	capitalismo: impossibilità di rimanere in un proprio in sé specifico, 
	necessità di procedere sempre oltre. E accade nel capitalismo legato alla 
	proprietà privata e alla libera iniziativa imprenditoriale; come nel 
	capitalismo di stato dei paesi dell'area marxista: modelli di pianificazione 
	statale. La società industriale: la più formidabile macchina di produzione, 
	è però a un tempo anche la più pericolosa e terrificante macchina di 
	distruzione. Razza società individuo, spazio natura mare foreste sottosuolo: 
	tutto è sfruttato: tutto deve essere sfruttato, in un disegno di 
	produttività spinta fino ai limiti estremi, alla intensità massima.
produrre o morire
Ecco spiegato perché non può essere data tregua a società che abbandonano 
	il mondo alla sua tranquilla improduttività originaria; perché faceva 
	scandalo che immani risorse giacessero non sfruttate. Il fatto era 
	intollerabile agli occhi dell'occidente; che pose alle altre culture il 
	seguente dilemma: o incamminarsi sulla strada della produttività o sparire. 
	Detto altrimenti, o l'etnocidio o il genocidio. Alla fine dell'ottocento 
	furono completamente sterminati gli indios della pampa Argentina per 
	permettere l'allevamento estensivo di montoni e vacche: sui quali si fonda 
	ancora oggi la ricchezza del capitalismo argentino. Agli inizi di questo 
	secolo, centinaia di migliaia di indios dell'Amazzonia erano sterminati dai 
	cercatori di caucciù. Oggi, in tutto il sud America gli ultimi popoli liberi 
	soccombono sotto la immane spinta del crescente sviluppo economico, 
	soprattutto brasiliano. Le autostrade transcontinentali sono dei veri assi 
	di penetrazione coloniale: sventurato l'indios che incontra la strada 
	asfaltata. Che cosa possono contare, quanto può pesare moralmente qualche 
	migliaio di selvaggi improduttivi davanti a miraggi di oro, pietre preziose, 
	piantagioni di caffè e allevamenti di bestiame, e pozzi petroliferi.... 
	Produrre o morire, ecco l'aut aut occidentale. Lo impararono a loro spese 
	gli indiani del nord America, sterminati quasi fino all'ultimo individuo 
	perché così esigeva la produzione. Un loro persecutore, il generale Sherman 
	ce lo racconta candidamente, nel passo di una lettera che scrisse al celebre 
	asssassino Buffalo-Bill:
	"A mio giudizio c'erano nel 1862 almeno 9.500.000 bisonti che si 
	aggiravano nelle pianure tra il Missouri e le Montagne Rocciose. Uccisi per 
	sfruttarne la pelle, le ossa, la carne, ormai sono tutti scomparsi.... Circa 
	in quegli anni, negli stessi territori si aggiravano un 165.000 indiani, 
	divisi tra le tribù Pawnees Sioux Cheyennes Kiowas Apaches, la cui 
	alimentazione dipendeva dal bisonte. Anch'essi sono scomparsi; li ha 
	sostituiti un numero almeno doppio, se non triplo di uomini e donne di razza 
	bianca, che hanno fatto di questa terra un giardino: gente che può essere 
	censita, tassata e governata secondo le leggi della natura e della civiltà. 
	Cambiamento salutare, e che sarà condotto fino in fondo".
	In R. Thévenin, P. Coze, Moeurs et Histoire des Indiens Peaux-Rouges, 
	Payot, Paris 1952.
	Aveva proprio ragione il buon generale. Il cambiamento andrà avanti: fino 
	alla fine.
Pierre Clastres