GENERAZIONE SIBERIANA (Educazione e rivoluzione) di Stefano d'Errico

 La maleducazione è connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, in tutte le sue varianti. La “buona educazione”, spesso giudicata una pratica conformista e quindi rifiutata soprattutto in campo giovanile, non potrebbe essere invece una parte significativa della nostra etica e del nostro progetto rivoluzionario, contro il Potere?

Il film di Salvatores sulla miglior ‘scoperta’ letteraria di Saviano (Nicolai Lilin, Educazione siberiana, 2008) stimola molte riflessioni. Innanzitutto di stampo etico e sociologico rispetto alle trasformazioni intervenute con la globalizzazione (e non solo) nel mondo ‘marginale’. È evidente il significato indicato dai valori vissuti e trasmessi nella collettività siberiana degli ‘esclusi’: una comunità di fatto multietnica (ed una morale) aventi come base quel Mir solidarista che studiarono Kropotkin e Marx, ‘ristrutturata’ d’autorità in più di settanta anni di repressione sovietica verso una ‘devianza’ non certo solo ‘criminale’. Ma, come mostra bene il film, anche quei valori sono oggi in via di estinzione (in particolare a causa di eroina e cocaina) con la mutazione genetica di una Russia passata molto in fretta dal capitalismo tecnoburocratico di stato al liberismo mafioso (finanza virtuale e speculativa, privatizzazioni e conflitti d’interesse, tratta delle bianche, traffico di stupefacenti), liberismo peraltro già ben incardinato in ‘nuce monopolistica’ nel sistema ‘comunista’, ove la dittatura ed il ladrocinio dei gruppi dirigenti il partito unico (casta rossa) e la mafia di stato (che gestiva l’URSS in proprio, anche se in nome di ‘tutti’) erano la norma. Un liberismo peraltro oggi nudo, scoperto e arrembante, assolutamente ‘all’occidentale’.

Ma i parallelismi con l’Italia vanno ricondotti a molti decenni fa. Da noi, il processo di ‘standardizzazione’ della ‘delinquenza’ è assai più datato, e va ricondotto agli anni ’70, all’esplosione della rivolta giovanile, studentesca, proletaria e sottoproletaria: all’emergere di ciò che venne definito il ‘fenomeno’ delle ‘due società’. La diffusione delle droghe pesanti (parallela alla criminalizzazione di quelle leggere), fu il primo e principale veicolo usato dal dominio per fiaccare i movimenti ed inquinare in profondità, proprio sotto il profilo connettivo e culturale, le periferie urbane e metropolitane, fin nei più sperduti paesi di provincia. Già il tessuto di cittadinanza non era certo irresistibile, così come le remore quasi solo rigidamente ideologiche contrapposte a mo' di ‘baluardo’ da una certa ‘sinistra’, capace solo di moralismo di maniera che 'predicava' bene ma 'razzolava' male.

La tragedia umana e politica di Pasolini dimostra come fosse effimera e drammatica l’illusione di quanti credettero alla (r)esistenza di una ‘cultura proletaria’ (contraddizione in termini), ‘vera anima’ della ‘classe’ (e del ‘partito’), per di più incarnata nei ‘lumpen’ in stile Accattone. Quegli stessi che, via via, incassato l’assistenzialismo do ut des della politica, ottenuta una casa (e magari ‘sanatala’ più tardi grazie a Berlusconi), sarebbero diventati, se non proprio il Pelosi, sottoproletario direttamente strumentalizzato dai fascisti e dagli apparati dello stato ‘deviati’ coinvolti nella morte violenta del poeta, i tanti piccoli ‘Califano’ di borgata (culturalmente e politicamente schierato a destra). Ovvio: il minculpop marginale è sempre stato profondamente intriso di odio per i diversi, in un effetto ‘a specchio’ – allontanamento virtuale da sé del ‘marchio d’infamia’ indotto dalla povertà tramite la colpevolizzazione dell’elemento terzo appunto, secondo le prevalenti subculture (totalitarie) catto-fascista e catto-comunista – che fino ad oggi non verrà mai meno fra noi.

Nella zona più debole del Paese, e segnatamente a Sud, abbiamo così assistito innanzitutto alla ripresa di una lenta ma inesorabile fusione fra ‘identità locale’ ed identità mafiosa, ove però ogni pseudo-meridionalismo è stato sostituito dall’unico grande mito del denaro e della ‘furbizia’criminale. Una nuova ‘identità’ (arcaica, come il vecchio substrato delle baronie, ma anche moderna come il business richiede), che ha definitivamente schiacciato su se stesso il Mezzogiorno, serbatoio di manovalanza a basso costo non più solo per le imprese del Nord o, in senso elettorale, per la casta nazionale al potere, bensì anche una malavita agganciata a politica e finanza che fattura una massa di denaro equivalente alla metà del Pil italiano. Da ciò la ripresa camorrista ed andranghetosa degli anni ‘70, oggettivamente favorite dai poteri dello stato con una vera e propria strategia sociale della tensione (parallela a quella stragista). Basti ricordare alcuni fra i principali avvenimenti di quegli anni: la gestione del dopo-terremoto in Irpinia; i fatti del sequestro Cirillo (notabile mafioso-democristo per il quale, contrariamente che per Moro, lo stato trattò); la persecuzione della ‘nuova camorra organizzata’ non solo in quanto criminale, ma anche perché rispondente a nuovi ‘padrini’ ed invisa a Gava & Soci (con Cutolo che è praticamente un ‘casus’ in galera, depositario di segreti inenarrabili sulle responsabilità e gli intrecci di quegli anni, banda della Magliana compresa).

L’imposizione di un vero e proprio ‘Terzo Mondo’ interno (precedente all’immigrazione extracomunitaria), tramite una sorta di ‘autogestione della miseria’, con il ritrarsi dell’apparato statale, ben garantito dall’auto-riproduzione endogena dei meccanismi del dominio. Ecco come avviene la creazione di quella matassa parallela che troppi (‘giustizialisti’ e sprovveduti) chiamano ‘antistato’ (con tutto il rispetto per quanti, da dentro lo stato, ma più che ‘abbandonati’ dallo stesso, hanno combattuto eroicamente le associazioni criminali e sono morti): il ‘welfare’ mafioso precede e fa strada al liberismo ed alla successiva, conclamata, privatizzazione (prima di fatto, poi anche di 'nome'). Parliamo della scomparsa graduale dell’assistenza e della presenza pubblica, della quale le mafie inizialmente s’appropriano in sinergia con il ceto politico prevalente, in un legame stategico e strutturale. Era già successo negli USA, innanzitutto col proibizionismo sugli alcolici, poi con quello sulla droga, e proprio grazie alla cosiddetta (iperliberista) ‘tolleranza zero’.

Esiste però anche una versione ‘politicamente corretta’ e di ‘sinistra’ che si sovrappone all’immagine della piccola malavita: quella del minculpop ‘antagonista’. Ciò che (con molta enfasi e pari esagerazione) veniva definito ‘proletariato giovanile’ venne profondamente assimilato alla causa della marginalità. Ha assunto abiti e maschere indotti, ha acquisito uno stile di vita specificamente (e volutamente) ‘altro’, in omaggio ai diktat di parametri ‘ideologici’ inquinati a tal punto da risultare palesemente innocui per gli equilibri di potere. Veri e propri cavalli di Troia ‘spacciati’ nei ‘quartieri’ insieme a droga, ottusità, violenza ed intolleranza (anche politica), e fra questi il mito della maleducazione.

Indisciplina etica per definizione, la maleducazione è connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, in tutte le sue varianti. A partire dalla diseducazione politica, che insegna a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore (quella del ‘tanto peggio – tanto meglio’), per arrivare fatalmente alla più generica diseducazione sociale ed individuale. Viene ‘sdoganata’ così la condanna del mondo valoriale in quanto tale, semplicisticamente ridotto alla stregua di vieto 'moralismo', nonché del rispetto stesso (e del confronto), ridotti a ‘debolezza’. Il tutto tramite la parificazione della solidarietà a mera dinamica di gruppo …o branco, ma a ‘patrocinio’ individuale. In una confusione più unica che rara, le regole non scritte del socialmente ‘deviante’ (tout court) assurgono al rango di comportamento ‘rivoluzionario’ ed ‘anti-sistema’: un infingimento davvero micidiale proprio nella fase del maggior assorbimento della ‘devianza’ stessa ai sub-valori del consumismo dominante. Non è per nulla ‘sovversivo’, infatti, tagliare con l’accetta i giudizi politici. Ciò succede quando, ad esempio, vediamo la critica allo stato di Israele diventare implacabilmente antisemitismo ‘di sinistra’ – ‘il socialismo degli imbecilli’, diceva Bebel – e parallela acriticità assoluta rispetto all’operato delle fazioni palestinesi o, peggio, di quelle dell’integralismo islamico. Oppure quando nelle nuove generazioni l’alcool si sostituisce alla droga pesante, nella medesima operazione volta a ricondizionare gli individui in un autismo di fatto (solo apparentemente ‘edonistico’), nell’egoismo spicciolo del mors tua –vita mea, dello ‘sfangare la giornata’ (un tempo la dose) senza riguardo per nulla e per nessuno, senza progetti, senza impegno, senza solidarietà e sensibilità sociale e sindacale organizzata, a mo’ d’anestetico a ‘lenire’ il mercato del non lavoro ed il precariato strutturale (accettato di fatto quasi senza colpo ferire).

Che dire poi della ‘zona grigia’ di certi patetici residui di una generazione che fu giovane per definizione, oggi alle prese ancora con una marginalità ostentata a mo’ di divisa? Si chiama regressione permanente, perché chi c'è cresciuto tende a 'ricaderci': camminando all'indietro pensa di tornare giovane, al prezzo di annullare il suo percorso di crescita e l'autonomia critica maturata (persino quella che aveva all'epoca). Anche qui l’alcool ha spesso preso il posto della droga e (di sovente) i 'mi piace' di facebook (con i suoi post ed improperi, frizzi e lazzi rigidamente anti-qualcosa – Berlusconi, ad esempio – e molto meno di progetto) quello dell’impegno sociale e politico diretto. Con loro, proprio quelli che se ne portano ancora appresso i ‘segni’ (elementi emblematici), ebbe via libera il ‘processo mutante’ di un movimento progressista assimilato alle forme (prima artigianali e poi 'industriali') del conformismo 'politicamente corretto', epigoni ‘estremisti’ (ma prevalentemente solo di maniera) di quella stessa ‘sinistra’ che ha stravolto ogni principio etico in omaggio al machiavellismo più becero e che proprio per questo (assenza di valori: ‘il fine giustifica i mezzi’) ha divorato se stessa ovunque nel mondo abbia avuto modo di esprimersi. Il conformismo, per definizione, nega qualsiasi rivoluzione radicale e umanitaria.

L’educazione è parte integrante (basilare) di qualsiasi processo etico, perché in sua assenza non si sarebbe data alcuna forma di convivenza. Il corto circuito in quella ‘sinistra’, deriva, fra gli altri, dalla volgarizzazione del dogma leninista secondo il quale ‘la libertà’ sarebbe un ‘concetto borghese’. Quindi lo diventano automaticamente anche le sue forme, in primis il rispetto: del pensiero divergente, quindi, tout court, dell’altro da sé (se soggetto ‘estraneo’ rispetto al ‘branco’ ed alla sua ‘tenuta disciplinare’ e conformistica). Miriadi di piccolo-borghesi hanno funto da apripista ad un processo di adeguamento che avrebbe fatto inorridire Pasolini: la mimesi sull’immagine (peraltro becera e standardizzata) del sottoproletariato urbano. Emblematico, ad esempio, il linguaggio di quanti, magari figli di medici o professionisti, credevano di ‘arringare’ gli operai fuori dalle fabbriche della capitale con espressioni in romanesco per sembrare dell’ 'ambiente' (e come se l’espressione linguistica avesse una collocazione ideologica).

La contraddizione con Educazione Siberiana salta immediatamente agli occhi. Se nella periferia dell’impero sovietico emergeva il tentativo di far crescere valori contrapposti a quelli (dominanti) del fascismo rosso, nelle periferie occidentali segnate dall’egemonia di una certa ‘sinistra’, si faceva esattamente il contrario: i miti del ‘comunismo’ da caserma venivano presi a modello (in particolare quella che Camillo Berneri definì 'operaiolatria' ...ma con qualche riserva opportunistica verso lo stakanovismo), con tutto il relativo corollario folkloristico per un ennesimo risultato di omologazione. Omologazione, per omologazione, non poteva vincere altro che la ‘moda’ (prima quella del conformismo ‘casareccio’ dei gruppi dei ‘pari’, poi quella ‘ufficiale’). Proprio l’edulcorazione della cultura ‘marginale’ (se non la sua stessa invenzione) è invece un aspetto di quella ‘cetomedizzazione’ della società italiana di cui ha recentemente parlato De Rita (5.6.2013) nel rapporto Censis sulla ‘Società impersonale’, nella quale si rileva ormai che le cose che dovrebbero creare ‘appartenenza’ (ideali sociali e religiosi, legame di classe, generazionali e di genere) non impegnano ormai che (tutti insieme) il 5% della popolazione.  E non è affatto un paradosso: la riduzione della politica a ‘burletta’ e conformismo è l’anticamera della sua sparizione. D’altra parte è infatti spazzatura d’origine ‘borghese’ (il termine s'intenda in senso molto 'lato') quella del consumo ‘marginale’ ed ebete della vita, così come la prima diffusione della morfina avvenne nell’Ottocento nelle case dei ricchi europei, mentre negli USA la si sperimentò a livello di massa per ‘sedare’ i reduci della guerra di secessione (ed evitare che si ribellassero), fino a quando la multinazionale svizzera Baier (più nota per l’aspirina), non inventò (sintetizzò) l’eroina. Hanno infatti imposto al Quarto Stato, e persino alla Corte dei Miracoli, abiti contemporaneamente funzionali al consumismo ed all’accettazione di uno status imbelle (sottratto al suo essere aggregativo in senso vero e ‘contro-culturale’, ed in tal guisa reso addirittura ‘attraente’).

Ritorniamo al punto iniziale: il jeans bucato non è più il prodotto estemporaneo d’una caduta dalla moto, bensì il segno distintivo di un’antitesi alla cravatta (molto ‘fascista’ e/o molto ‘borghese’), anche se oggi i pantaloni con gli strappi vengono venduti a peso d’oro pur dalle grandi griffes. Trasandato, e poi 'confuso' ed 'instabile' (e con licenza d'imbecillità e deresponsabilizzazione): così si 'battezza' il ‘bello’ in regime conformista. Così diventa ciò che viene ritenuto 'attraente'. 

Avere (oggi) la fortuna di un lavoro garantito non spinge costoro ('vecchi' che fanno i 'giovani' e giovani che copiano quei 'vecchi') alla sindacalizzazione ed alla lotta per opporsi alle privatizzazioni e ai danni che complessivamente vengono fatti alla società civile, quanto all’ideologia del ‘lavorare stanca’, al minimo dell’ingaggio diretto, alla teorizzazione dell’ ‘arrubbare lo stipendio’ (ed anche qualcosa d'altro), pur se si tratta di un impiego pubblico. Diventa ‘rivoluzionario’ persino farsi pignorare lo stipendio perché non si paga il condominio. La stessa vita quotidiana riflette lo stereotipo: ‘rivoluzionario’ sarà quindi ciondolare perla strada, magari ‘alticci’ dalla mattina, come se quel lavoro ‘non esistesse’, con un bicchiere o una bottiglia in mano. ‘Rivoluzionaria’ sarà anche l’adesione femminile ad un lessico sguaiato e l’assorbimento dei valori maschilisti della rozzezza e della violenza (ché non c'è solo quella diretta, peraltro mai disdegnata): tutto ciò fa il paio con la necessità di una ‘coppia’ riconosciuta (e ben riconoscibile) dal branco. Non esiste estetica senza senso etico ed il branco ha un' 'estetica' unicamente 'antitetica'. La sfera privata non può sfuggire: anch'essa s'adatta al dominio dell'ipocrisia 'tattica', dato centrale di un supposto impegno sociale ridotto ad immagine. Un agire naturalmente privo di strategia 'fine': solo in tal guisa il 'personale' diventa 'politico' e l'autonomia del politico (negazione d'ogni priorità etica) diviene dittatura del soggettivismo. Tipico della società impersonale sviluppatasi ad occidente è un'omologazione costruita sollecitando l'individualismo (l'egoismo, l'esteriorità ed il narcisismo), ma per abbattere l'individualità. Altrettanto vero è ciò che spesso succede con i social network: per quanto attiene al sociale, si scambia il mondo onnivoro e generalista di origine televisiva, il mondo del 'totalmente opinabile', dell'eliminazione delle differenze e dell'abbattimento dei valori, la gestione da talk-show dell'opinione pubblica, per 'intelligenza collettiva' (cosa ben diversa, che implica necessariamente una comunità reale e non virtuale). 

Naturalmente esiste persino un 'amore' politicamente corretto: così la diseducazione dell’intimo fa credere ‘normale’ l’instabilità come 'sale’ dei rapporti. La vediamo come nota autodistruttiva, ad esempio nella reiterazione quotidiana del ‘farsi del male per potersi ... perdonare’ (cantata mestamente da Dalla). L’alternanza fra noia, 'consumo' dell'altro, ‘sballo’, evasione e chiusura autistica, divengono normali ‘contraddizioni del vivere’. I rapporti un trastullo surreale agito come mera proiezione a 'specchio' per ingannare il sentimento di inadeguatezza e le difficoltà indotte dalla miseria di un quotidiano dove non ci si mette mai in gioco, in superficie molto 'colorato' ma di fatto privo di carne ed ossa ed, in fondo, anche di appeal.

Il (malinteso) mito della ‘spontanetà' (parificata all’assenza di ragionamento, quindi al comportamento istintivo ed autistico), diviene semplicismo e superficialità, e con sé porta quello della diseducazione. Così si passa la vita come uno scontro con la quotidianeità (e non certo con il potere). La violenza propriamente detta, se non verbale e figurata, assurge a regolatrice di controversie: il codice ‘deviante’ è lo stesso dalla malavita, ma in questi ambienti s’ammanta di un’aura ‘progressista’. La durezza viene preferita all’educazione perché sarebbe più ‘spontanea’ e ‘diretta’: così, soprattutto, è l’orizzonte della problematicità ad essere espunto dalla vita sociale come dalla sfera interiore. 

L'orizzonte dei 'supercafoni' musicali, televisivi e digitali è oggi anche quello dei 'bamboccioni'. Ma la colpa non è solo di ragazzi sempre dipendenti e 'mammoni', quanto di genitori eterni bambini, che si pongono quali 'figli fra i figli', cresciuti essi stessi senza l'educazione data dal ruolo dei riferimenti etici, formatisi nell'assenza del senso del limite, tipico delle fasi estreme della contestazione giovanile del post-'68, così che oggi, come scrive Massimo Recalcati, s'è passati dal complesso d'Edipo al complesso di Telemaco, senza soluzione di continuità. 

L'esperienza (corretta) dell'autogestione è divenuta mito dell' 'autogenerazione': l'auspicato abbattimento del padre-padrone ha portato ben oltre, sino all'eliminazione 'manu militari' della figura genitoriale in sé, interiorizzata come 'inappropriata', alla quale padri e madri dovrebbero quindi sfuggire. Il taglio netto del legame con i valori del passato è diventato assenza totale di verifica dei modelli e della stessa funzione della trasmissione, appropriazione e ristrutturazione dell'esperienza pregressa. 

Ciò rende quindi impossibile quella 'conquista dell'eredità' di cui scrive Freud nel suo Compendio di psicanalisi. I figli divengono così idoli-Narcisi come i loro stessi padri, del tutto individualmente e socialmente deresponsabilizzati: semmai bimbi-tiranni destinati a conservare a vita un egocentrismo senza freni. In tutto ciò, col calo della natalità, la società s'invecchia ma non matura. La vera eredità sociale diviene l'instabilità: quella precarietà (non solo economico-lavorativa) determinata in assenza del confronto (ed anche del conflitto) genitori-figli, poiché non esistono più né gli uni, né gli altri. Occorre quindi approfondire un minimo il discorso sulla libertà, che non è mai assoluta, perché deve contemperare il rispetto di precisi doveri verso gli altri. Perciò la libertà stessa ha una funzione sociale ed a tal fine la collettività esprime una sua autorità che è altra cosa rispetto all’autoritarismo. Sarà utile citare Camillo Berneri: “All'autorità formale del grado e del titolo anteponiamo l'autorità reale del valore e della preparazione individuali. Questo senza cadere in una dialettica fusione, o confusione, dei contrari. La libertà non è nulla, se non finalizzata, e non è possibile un’eguaglianza generale fra gli esseri umani raggiunta per diktat ideologico. Occorre partire da una comune acquisizione della necessità di un impegno sui valori (condivisi) e dell’impiego degli stessi come metro comune. Per questo il valore individuale va riconosciuto: “L'autorità è libertà quando l'autorità sia mezzo di liberazione, ma lo sforzo anti-autoritario è necessario come processo di autonomia. Autorità e libertà sono termini di un rapporto antitetico che si risolve in sintesi, tanto più la antitesi è sentita e voluta”. È l’autorevolezza che sta nelle cose, presente in natura, ad esempio, nelle regole non scritte che soprassiedono allo scambio di esperienze fra esseri umani e ai meccanismi dell’apprendimento, o al rapporto con i figli: “Ed è, d’altra parte, l’eteronomia dell’autorità, quando non mi ha soffocato od offuscato lo spirito, che ha permesso la mia autonomia, cioè la mia libertà”. Quella del lodigiano è una concezione dinamica, pragmatica e affatto demagogica, per una nuova pedagogia sociale rivoluzionaria: “L'anarchia mi pare risulti dall’approssimarsi, identificarsi mai, ché sarebbe la stasi, della libertà e dell'autorità. Come principi. Come fatti, libertà e autorità stanno tra loro come verità ed errore; come enti che differenziano e si identificano, nel divenire storico” (C. Berneri, Libertà ed autorità, in Fede!, Roma 22.6.1924).

La diseducazione, nutrita del suo proprio 'mito', diviene quindi l'ennesima incarnazione e mutazione dello stereotipo romantico. Diseducazione innanzitutto come esistenza virtuale, aliena dal reale, mito dell'artista quale essere 'altro', baciato quindi 'gratis' dall'ispirazione, eroe e 'semi-dio' mosso solo dalla 'fulminazione' del suo 'genio', estraneo al lavoro, all'impegno, allo studio. Questo è il mito-archetipo romantico dell'arte, quando invece per gli antichi greci l'arte era soprattutto impegno, ingaggio artistico costante, essere capaci di produrre 'per l'occasione' (come nel caso di praticamente tutte le tragedie), e non certo solo in via 'estemporanea'. Ma era così anche per Baudelaire (il quale, contrariamente a quanto 'vulgata' pretenderebbe, infatti non può venire annoverato fra i romantici), che scrisse: 'L'ispirazione è sorella del lavoro giornaliero' ... 'Un uomo in buona salute può stare anche due giorni senza mangiare, un artista non può stare neanche un giorno lontano dalla sua opera'. Posizione poi ripresa, con citazione letterale, da Ravel.

L'individuo diverrebbe quindi 'compiuto', per i moderni epigoni del cibernetico neo-romantic, solo perché 'stravagante ...bastian contrario' senza nessi con il reale, perché così poi somiglierebbe all' 'artista'. Per costoro l'imperativo è 'distinguersi' per forza, e 'distinguersi' dal reale. Ma questa è solo minimalismo (e grassa ignoranza). Se l'arte è prima di tutto sensibilità (ed anche imprescindibile tecnica) maturata quotidianamente, confrontata ed applicata al reale (vissuto o trasfigurato che sia ...ché qui non tesseremo certo l'elogio del 'realismo socialista'), quest'individualismo povero, narciso, esibizionista (a 'buon mercato') e 'minchione' è solo fuga dal reale, sia dall'impegno e dall'imprescindibile relazionalità che dall'interiorità dell'arte. Una variante dell'individualità all'ammasso con la pretesa d'avvicinarsi all'arte, ma un' 'arte' vissuta invece proprio come negazione dell'educazione artistica. Mero simulacro di una 'unicità' artefatta, non è che mero artificio. E non v'è neppure nulla di originale. Al massimo la pretesa dell'altrettanto conformistico 'nuovismo', ingrediente povero e massificato, ma fondamentale, del consumismo. Un nuovo romanzo d’appendice ad uso e consumo dei reduci della ‘nuova sinistra’, ma che, si badi bene, impegni solo esteticamente l’individuo. Come scrisse ancora Berneri: “Il romantico ama i tempi remoti perché può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa paura. Così il romantico ama gli eroi, perché può idealizzarli a suo piacimento”. Tutto torna con la formazione ‘comunista’; il romanticismo è storicista: “Il romanticismo è la statuaria della letteratura, della storiografia e della filosofia della storia. Il romanticismo confonde facilmente la grandezza con la fama, l’eroismo con il successo. E' storicista”. Peccato che il segno tradizionale, istintivo e distintivo del romanticismo “classico” inclini (appunto) pericolosamente a destra e non abbia nulla di ‘popolare’: “E il romanticismo reazionario accettò il prete ed elogiò il boia: perché riconducevano il popolaccio dietro le quinte della storia. Il popolo fa troppo fracasso e mette in subbuglio lo spirito. (...) Il romanticismo era contemplazione più che azione, mollezza più che volontà, egoismo più che generosità. E il suo sogno fu quello reazionario” (C. Berneri, Il Carlyle. Oggi in S. d’Errico, Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica all’anarchismo del Ventesimo Secolo, il “programma minimo” dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis Edizioni, Milano, 2007.).

Un mondo autoreferenziale di cloni e marionette che devono per forza somigliarsi (somigliare all’archetipo) per darsi ed ottenere 'legittimità' e 'piacersi'. Lo status simbol, privo della 'solidità' e della ricchezza dei ceti abbienti, s'incardina su prodotti al dettaglio proposti (e raggiungibili) a livello di massa, e soprattutto sull'immagine, su codici 'd'appartenenza' indicati dai 'comportamenti': cose sufficientemente appariscenti, ma molto meno costose sotto il profilo economico (eppure altrettanto deleterie sotto quello relazionale ed infra-pscichico). L’omologazione s’avvale di valanghe di giustificazioni sociologiche coniate nei salotti-bene dei radical chic: 'Un tempo era drogato fradicio; ora, anche se fa così, bisogna riconoscere che è molto migliorato…'. Come se all’epoca ‘farsi’ d’eroina (e poi essere mantenuti dallo stato a metadone) fosse meritorio ed obbligatorio, lo avesse ‘prescritto il medico’, senza alternative, senza una ‘seconda chance’. Come se non si potesse che vivere così, contro un intero movimento, non solo a matrice politica (quanto invece esistenziale) che, al contrario, indicava quella delle droghe pesanti (e dell’uso disinvolto e ‘fregnone’ anche di quelle leggere) per la trappola più scema (ma più pericolosa) indotta ad arte dagli stessi che avevano messo le bombe a piazza Fontana. Basta scorrere il libro La strage di stato per notare le precise connivenze fra gli organi coinvolti e la strategia dell’eroina, anche nella repressione dei movimenti 'controculturali' e del (benché raro) uso risocializzante e creativo – non necessariamente ‘a perdere’ – dello ‘spinello’, interno ad un ben diverso stile di vita a stampo comunitario. Strategia oggi ben nota, nome in codice compreso: 'Blue Moon' (messa in atto dai servizi Nato, come ci conferma pubblicamente persino Minoli).

La diseducazione politica e i tanti sociologismi ‘di maniera’ portano a credere che la responsabilità personale non esista, che tutto il male del mondo sia sempre cosa ‘esterna e lontana’ che tutto giustifica e non ‘implica’. Come se la sola esistenza del dominio non consenta che scelte obbligate e senza meta, senza soluzione di continuità, nella coscienza, nell’azione e nella responsabilità dell’individuo (anche nei rapporti più stretti).

Così si costruisce la cultura marginale, si ‘rinforzano’ i ruoli: mutatis mutandis si mantiene tutto come è sempre stato. Con la differenza che gli stessi che persistono in queste dinamiche, pur credendosi I dannati della terra di Frantz Fanon (o i ‘nuovi poveri’), vista l’età, ormai sono ‘garantiti’, sfoggiano cellulari stellari per connettersi ad internet dalla strada e dal lavoro, hanno alle spalle famiglie sfasciate ma casa di proprietà. Questo non è 'il sonno degli ultimi’: è il sonno della ragione, e come tale produce mostri. Non sono ‘sottoproletari’ bensì il risultato di un’ormai lontana immigrazione contadina 'chiusa' con un padre, factotum o impiegato che fosse, che - bighellonando affatto - ha comunque consentito loro di studiare e fornito una casa dove sono comodamente rimasti e rimaste almeno sino alla maggiore età. Se non sono andati all’Università, quella famosa responsabilità sociale sempre invocata risulta equamente spartita fra loro ed il ‘sistema’ (ché oggi, invece, ai giovani quegli spazi vengono sempre più preclusi). Così come quella di aver indossato i panni della marginalità indotta, in politica e nella vita, per disimpegno e mero narcisismo ma ostentando, a mo’ di distinzione, il drammatico paradigma della disperazione. Esattamente come suggerivano da dietro le quinte i vituperati ‘padroni del vapore’ (e dei media, che si prendono ‘cura’ di noi sin dalla nascita). Il ruolo di costoro, ‘icone della diversità parificata’ e ‘politicamente corretta’, non è irrilevante, dal momento che garantiscono la ‘continuità’, a mo’ d’esempio, per quella parte delle nuove generazioni che cercherebbe di staccarsi dalla marginalità diffusa, perché al loro seguito ricadono in quella ‘laterale’, ripetitiva di archetipi oggi ancor più privi di significato. Archetipi che contagiano, fanno proseliti in taluni ‘centri sociali’ dove il diseredato vero (extracomunitario) magari si becca la quotidiana pacca sulla spalla dall’uomo-radar (settemila euro al mese) ‘compagno’ palocchino annoiato che si bea nell’assistere alla trasmissione del testimone: ciò che garantisce che quella ‘sinistra’ rimanga sempre uguale e divenga sempre più marginale. Lo stesso avviene con gli incendi rituali dei cassonetti nelle manifestazioni di piazza.

A me, che vivo da solo (e senza rete) facendo politica da quando avevo 15 anni (1968), che ho dormito ovunque per anni, sotto ponti ed autostrade e girato l’Italia e l’Europa in autostop, che ho abitato dappertutto, persino al borghetto Prenestino (quando i baraccati erano ‘veri’) e condiviso sul serio i lavori più pesanti con i sottoproletari (dell’epoca), dallo scaricare cassette ai mercati generali di Roma alle quattro del mattino al facchinaggio d’ogni tipo e che, per essermene andato di casa, mi sono diplomato a 29 anni lavorando in quel periodo da cameriere, paiono solo ridicolaggini. Come a tutti coloro insieme ai quali si lavorava con i tossicodipendenti di ‘prima mano’ per sottrarli alle droghe pesanti, quando mettemmo in piedi la Cooperativa Bravetta ’80. Perciò non m’impressiona certo il ‘comportamento’ in sé, foss'anche il più ‘maleducato’. Solo mi evoca fastidio e pena per chi crede (ancora) di aver trovato la ‘Mecca’ in una forma di conformismo sinistrese domestico, costruito in proprio sempre da quei piccolo borghesi - come direbbe ancora Pasolini - che si travestono da borgatari (peraltro già sostituiti di fatto dagli extracomunitari) e credono pure di essere degli esempi ‘vitali’.

Perché la marginalità stacca dalla gente comune, contrappone ai valori dotati di senso e serietà, ed induce i movimenti su strade sbagliate, rassicurando assolutamente il potere. La marginalità ostentata ed esibita (quindi accettata) è il maggior risultato del (vero) ‘relativismo etico’: legittima in politica il mito dell’estraneità a tutti i costi (‘esistiamo solo noi’), e lo fa anche rispetto alla sfera personale (‘esisto solo io’). Siccome la cultura ‘pesa’, allora l’abito mentale dell’ ‘estraniato’ si realizzerà nel rifiuto del confronto rispetto alle ragioni altrui, qualsivoglia esse siano. Nel vedere la dialettica come mero artifizio retorico che non porterebbe in nessun luogo. In termini molto italioti: ‘Ho ascoltato il tale, ho sentito talaltro, sembra che tutti abbiano ragione …però io non do retta a nessuno perché sono solo parole e non mi va di misurarmici, tanto meno di verificare se siano giuste o sbagliate’ . Molto simile è la variante ‘estremista’ del ‘mitico’ e molto più prosaico (invero ignorantesco e demenziale) ‘sono tutti uguali’, arcano maggiore del qualunquismo nostrano. Solo che a mettere in atto un simile processo mentale non è più l’analfabeta (che già non era giustificato a suo tempo, perché prima della rivoluzione del 1917, pur lavorando mediamente dodici ore, il contadino e l’operaio ne usavano almeno altre due per cercare d’accolturarsi, anche in carcere, magari dopo essere stati arrestati per uno sciopero, e praticamente senza istruzione obbligatoria), bensì laureati e quasi tali, perché innamorati del mito della ‘marginalità’ (porto franco per il nulla) e (soprattutto) per sfuggire la loro stessa ragione (e, negli scambi interpersonali, l'eventuale ‘sofferenza’ di aver torto).

La ragione ‘pesa’, compromette, impegna! Ma qui parliamo di altro. Una pericolosa forma di autismo intellettuale che marca la differenza fra chi pensa davvero e chi finge solo di farlo: in psicanalisi segna lo iato fra l’individuo narcisistico (appunto), che, pena l'horror vacui, non può per definizione mai attribuirsi responsabilità alcuna e la mente dotata di spirito critico e (quindi) autocritico (…ma non da Cina ‘comunista’). Fra l’omologazione ed il pensiero divergente. Fra chi vive e chi finge solo di farlo, infischiandosene di quel che produce in se stesso e negli altri (ma anche di ciò che è e sarà). In questo calderone di cibo esistenziale ed ideologico edulcorato, scomponendo gli ‘addendi’, si può ben analizzare come costoro siano passati dall’operaiolatria (di stampo marxiano) alla sottoproletariolatria (che non è neanche marxista)…

Eppure in ciò non v’è assolutamente nulla di ‘libertario’. Anche se nel novero si possono scorgere alcuni 'anarcoidi', i classici del socialismo non hanno mai indicato questo tipo di ‘soggettività’, né ridicole teorizzazioni sessantottarde come nel caso del cosiddetto ‘operaio sociale’ partorito da Antonio Negri detto Toni. Tale diseducazione politica segna semmai i tempi della 'società dello spettacolo' (divenuta oggi, appunto, ‘società’ del tutto virtuale).Trattasi solo di miti e, come tali, sono artefatti (ovvero costruiti nel laboratorio subliminale del ‘mercato delle idee’): non indicano qualcosa di esistente, bensì la sua parodia. A ben vedere, anche gli epigoni anarcoidi sottoposti a tale ‘giurisdizione’ ideologica sono cresciuti sotto ben altra egemonia, nutrendosi di un qualche ‘guevarismo’ da operetta (e di riflesso), confondendo l’iconografia dei ‘barbudos’ (apparentemente tanto ‘schietta’ e certamente ‘molto romantica’) con l’idea surreale di una Cuba ‘umana’ e partecipata, anche se vi si pratica da sempre l’elettroshock per gli omosessuali. Sulla rivoluzione spagnola del ’36 –’39, invece, ignoranza assoluta! Meglio farebbero tutti costoro, almeno, a leggersi Berneri (gli uni) e Gramsci (tutti gli altri) per ripassare qualche serio discorso sulla cultura (cosa che vale soprattutto per i rapporti umani e non solo per i 'libri'). Non è, e non è mai stato (neppure negli anni ’70), questo il ‘nuovo’ orizzonte della ‘rivoluzione’, bensì un colossale infingimento funzionale all’immodificabilità del reale.

Tale fenomeno, e non altri, che si riproduce anche a tutti i livelli sociali veicolando ad altre ‘latitudini’ esattamente gli stessi messaggi, spiega uno dei quid dello status imbelle della ‘sinistra’ (e dice molto del suo mancato ‘rinnovamento’), in particolare in questo Paese, ove catto-comunismo e catto-fascismo continuano ad essere culturalmente e subliminalmente egemoni. Dal microcosmo della marginalità, alle alte sfere di ‘strateghi’ incapaci di mantenere il minimo contatto con i veri problemi della gente ‘reale’, assorbita nel gioco al massacro condotto da media che ne accarezzano professionalmente il più vieto ‘senso comune’. Quello dell’irresponsabilità personale, della 'fine' dei valori e delle ‘ideologie’. Perché lo sforzo maggiore del neoliberismo imperante sta tutto nell’impedire che la storia (la cui 'fine' non verrà mai) giunga a 'maturazione', che la gente capisca che se quelle ideologie erano fallimentari (ma non tutte), le si può abbandonare o modificare, mentre i valori primari sono sempre gli stessi. Però si può intervenire solo a patto di rendersi interiormente modificabili, di esser capaci di pensiero divergente, sempre e comunque, in qualsiasi situazione, gruppo sociale o movimento politico: un pregio raro, specifico dell’umanità, che qualsiasi conformismo ingloba ed annichilisce. È l’attitudine profonda, interiore, all’indipendenza ed alla libertà ciò che conta davvero: “Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa” (C. Berneri - 1936). Essere diventati 'comunisti' solo perché lo erano 'tutti' equivaleva a non esserlo, e ciò spiega molto dei trasformismi che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.

L’establishment che governa la globalizzazione cerca naturalmente di negare l’evidenza: se si ragiona finalmente sul dato ormai indiscusso che la libertà non si può costruire con la dittatura, nondimeno l’equità resta necessaria, e libertà ed eguaglianza non sono in contrapposizione. Come ha sempre sostenuto il movimento libertario, trattasi semmai di sinonimi: se manca l’una non ci può essere l’altra. Il gioco è tutto nel tentativo di evitare che si capisca l’alterità perversa di uno stato che nulla ha in comune con la società civile. Non può esistere la bestemmia di uno ‘stato proletario’: quello che, per prima cosa, come successo in tutti gli esperimenti del ‘socialismo reale’, vieta (ad esempio) il diritto di sciopero (ed altrettanto vale per l’impossibilità di uno ‘stato libertario’). D’altra parte, se la democrazia è certamente migliore della dittatura, l’idea di uno stato ‘democratico’ è una contraddizione in termini, come quello di una caserma (che produce e riproduce le disparità di classe) intesa come ‘educativa’. Al tempo stesso non esistono ceti ‘eletti’, quasi in senso etnico, destinati per principio 'divino' a ‘cambiare il mondo’, tanto meno se sono marginali.

La rivoluzione o sarà umanista (e contro tutti i conformismi) o non sarà, e l’educazione è stata e sempre sarà alla base dell’umanesimo.

Stefano d'Errico