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			QUANDO 
			A 18 anni fondò 
			la sua prima rivista di cultura politica  | 
		
Aveva 
	ragione Enzo Mauro a scrivere sul "Corriere della Sera" nel 1995 che "oggi 
	tutti si dichiarano liberali, per lo più senza arrossire" e che "il 
	confronto teorico e ideale fra i conservatori e la sinistra comunista si è 
	svolto finora nell'occultamento dei testi di quei protagonisti, come 
	Gobetti, Amendola, Rosselli e Salvemini, la cui colpa è quella di offrire 
	del liberalismo una visione non arretrata". E, quando i testi non sono più 
	occultati, si scatenano l'incomprensione e persino la denigrazione. 
	
	Di fronte alla nuova pubblicazione de "La Rivoluzione Liberale" - Saggio 
	sulla lotta politica in Italia, edito per la prima volta nel 1924 e nel 1994 
	da Einaudi, Lucio Colletti aveva dichiarato "Quel libro serve solo a 
	D'Alema" e Domenico Settembrini, alla domanda "che senso ha proporre Gobetti 
	oggi?", ha lapidariamente risposto "Nessuno". Anche Dino Cofrancesco limita 
	la lettura di Gobetti all'errore di aver ritenuto i bolscevichi i liberali 
	del XX secolo: la ragione del suo successo fra gli intellettuali starebbe 
	nel "carattere radicalmente trasversale" del suo pensiero, che avrebbe 
	compensato liberalismo e comunismo. Ci sembra che la lettura di Gobetti sia 
	molto più complessa e, nonostante certi errori di valutazione sulla politica 
	del suo tempo, molto più utile proprio oggi, quando, di fronte al dialogare 
	di troppi liberalismi, ci si deve chiedere qual è e quale deve essere il 
	vero liberalismo.
	
	Scriveva ancora Enzo Mauro: "Son guai infatti per le classi dirigenti se i 
	giovani apprendono che il liberalismo può essere altro dalla solita lettura 
	moderata, che purtroppo anche settant'anni fa c'erano i liberali a 
	chiacchiere, disposti a barattare l'anima e la legalità per i propri 
	interessi". 
	In questo senso, la rilettura del libro di Gobetti può essere utile non 
	tanto a D'Alema ma a chiunque si ponga il problema dell'essenza e dello 
	scopo della sinistra odierna. Piero Gobetti è intanto una personalità 
	affascinante. 
	
	Nato nel 1901, a diciott'anni fonda "Energie nuove", rivista 
	quindicinale sulla scia dell' "Unità" di Gaetano Salvemini e, dopo una breve 
	infatuazione per i liberisti come Einaudi, matura la sua concezione della 
	politica come forma di educazione e della cultura come coscienza storica.
	Dopo un anno, nel 1920 la rivista finisce le pubblicazioni; nel '22 
	Gobetti fonda il settimanale "La Rivoluzione liberale", con 
	molti collaboratori della cessata "Unità salveminiana" affiancata da 
	una rivista letteraria, "il Baretti" e da una piccola casa editrice. 
	A 23 anni, nel 1924, raccoglie, elaborandoli, molti articoli apparsi sulla 
	rivista e, con lo stesso titolo, Rivoluzione Liberale, pubblica il 
	Saggio sulla lotta politica in Italia. Era il mese d'aprile: nel giugno 
	viene ucciso Matteotti e il 3 gennaio 1925 Mussolini trasforma il suo 
	governo in regime. Per tutto l'anno si susseguono i sequestri della rivista, 
	finchè il 1° novembre Gobetti deve pubblicare la diffida del prefetto di 
	Torino contro il periodico, accusato di mirare "alla menomazione delle 
	istituzioni monarchiche, della Chiesa, dei poteri dello Stato, danneggiando 
	il prestigio nazionale". 
	
	Una settimana dopo, esce l'ultimo numero della rivista, che segue il destino 
	de "Il Caffè" pubblicato a Milano da Riccardo Bauer, con Parri, 
	Gallarati Scotti, Arpesani, Borsa e Sacchi (chiuso in maggio), del 
	fiorentino "Non Mollare" di Salvemini, Ernesto Rossi e dei fratelli 
	Rosselli (finito in ottobre), e di tante altre voci libere invise al nuovo 
	regime dittatoriale. 
	Bastonato da una squadraccia fascista, Gobetti ripara con la moglie a 
	Parigi, dove morirà nel 1926.
	
	Riletto oggi, il libro di Gobetti sorprende per le molte notazioni originali 
	sul Risorgimento e sulla lotta politica del tempo. Per esempio, la 
	considerazione di Cavour come autore di una grande rivoluzione liberale 
	rimasta incompiuta, e dello stesso Risorgimento come incompiuto e non come 
	"rivoluzione mancata"; la rivalutazione del Piemonte settecentesco e 
	ottocentesco come di un paese contraddistinto dall'assenteismo 
	dell'aristocrazia, dallo spezzettamento della grande proprietà agraria e 
	dalla diffusione degli affittuari, dalla laicità dello Stato e dalla 
	presenza di una singolare cultura moderna "in questo vecchio Stato nemico 
	della cultura". 
	A differenza di tanti intellettuali di trenta o quarant'anni dopo, Gobetti 
	riconosce il valore della fabbrica che "educa al senso della dipendenza e 
	della coordinazione sociale, ma non spegne le forze di ribellione, anzi le 
	cementa in una volontà organica di libertà" e riconosce altresì il valore 
	positivo della città moderna, "organismo sorto per lo sforzo autonomo di 
	migliaia d'individui". In Gobetti appare per la prima volta il concetto di 
	fascismo come "autobiografia della nazione". "Né Mussolini né Vittorio 
	Emanuele hanno virtù da padroni, ma gli italiani hanno bene animo di 
	schiavi".
	
	E fin dalla prima pagina del libro fa una dichiarazione fulminante e 
	valida più che mai oggi: "Il contrasto vero dei tempi nuovi come delle 
	vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e 
	unanimità". 
	
	La confusione politica del 1919-24 ha molti punti di contatto con gli anni 
	novanta: dissolti o molto sminuiti i partiti tradizionali del centro-destra, 
	si sono affermati nuovi partiti, allora il popolare e il fascista, oggi 
	Forza Italia, Alleanza Nazionale e la Lega. Sia allora che oggi, le sinistre 
	sembrano sbandate e alla ricerca di un nuovo ubi consistam. 
	
	Le analogie sono fortissime e messe in luce con forza dalla prefazione di 
	Paolo Flores D'Arcais. Ci sono, in Gobetti, anche curiosità che fanno 
	pensare: 
	
	"La sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l'amore 
	per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione 
	dell'enfasi…..L'ordinaria amministrazione con la sua monotonia è un altro 
	fiero nemico del presidente; se egli non avesse un piacevole divertimento 
	nelle trovate sportive che gli riconciliano la popolarità, il compito 
	quotidiano sarebbe snervante e senza risorse".
	
	Di chi parla? Di Mussolini certamente, allora. E oggi? Ma ci sono 
	soprattutto analisi acute e ancora valide della storia e del carattere 
	italiani e molti concetti innovatori. Nel capitolo su "Liberali e 
	democratici", premesso che la più grave deficienza del liberalismo 
	italiano si potrebbe cercare "nella lunga mancanza di un partito politico 
	francamente conservatore", Gobetti scrive: "insomma la parola 
	d'ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: "tutti 
	liberali". La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, 
	negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo 
	con la lotta per la conquista della libertà, e con l'azione storica dei ceti 
	che vi sono interessati". Posto che i veri liberali sono una minoranza, 
	"Bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, 
	liberali i nazionalisti e i siderurgici, interessati al parassitismo dei 
	padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né 
	gli agricoltori latifondisti che vogliono il dazio sui grani per speculare 
	su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la 
	libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro 
	cooperative". 
	
	Gobetti vede il carattere arretrato e illiberale della borghesia italiana, 
	che chiede favori e una politica protezionista, una non-borghesia se 
	confrontata con i ceti dirigenti conservatori di altri paesi. Riconosce che 
	in Italia ci sono due borghesie, ma quella weberiana (come la chiama Flores 
	D'Arcais) resta in minoranza, mentre domina il "ceto dirigente 
	contento di sé". Gobetti riconosce la necessità storica e i valori 
	della civiltà capitalistica, ma vede i suoi limiti nelle nazioni più povere, 
	la Russia e l'Italia. Nel nostro Paese, allora come oggi, si contrappongono 
	l'individualismo regolato dalle leggi e una tradizione "istintivamente 
	individualista" che ha prodotto un popolo "in perenne 
	atteggiamento anarchico". Per Gobetti, "il liberalismo ha elaborato 
	un concetto della politica come disinteresse dell'uomo di governo di fronte 
	al popolo interessato… Solo attraverso la lotta di classe il liberalismo può 
	dimostrare le sue ricchezze…Essa è lo strumento infallibile per la 
	formazione di nuove élites, la vera leva, sempre operante, del rinnovamento 
	popolare". Certo, l'errore di Gobetti è stato di vedere in Gramsci e nei 
	consigli di fabbrica, promossi da "Ordine nuovo", aspetti e valori liberali; 
	da qui, la sua illogica simpatia per Lenin, benchè riconosca il carattere 
	"accentratore, autoritario, monopolistico della rivoluzione russa".
	
	Ciò non toglie che egli si era reso conto, sulle orme di Salvemini, 
	degli errori della sinistra, in particolare del riformismo e del 
	"parassitismo cooperativistico". Ancora più importante, e decisivo per la 
	valutazione di Gobetti, è il riconoscimento del fatto che il primato 
	dell'uguaglianza rispetto alla libertà è la causa delle degenerazioni del 
	movimento operaio. A questo proposito, commenta Flores D'Arcais: "Pure, la 
	convinzione gobettiana che se l'ossessione dell'eguaglianza sociale governa 
	e comanda la politica operaia, umiliando le libertà a strumento tattico 
	nella lotta per il potere, sono a repentaglio gli stessi interessi dei 
	lavoratori - interessi nel senso più pieno e materiale del termine". E 
	infatti Gobetti aveva sostenuto con grande chiarezza: "Il problema del 
	movimento operaio è un problema di libertà e non di uguaglianza sociale". 
	Qui merita citare ancora Flores D'Arcais: contro la "disponibilità 
	''moderata'' di massa al tradimento del liberalismo"…
	"Contro questo rischio di populismo, perciò sempre più irrinunciabile si 
	dimostra l'intuizione di Gobetti, che ai lavoratori dipendenti e alle forze 
	politiche che li rappresentavano vada innanzi tutto affidata la difesa, la 
	cura e il radicamento del liberalismo. Sono gli unici, infatti, ad avere un 
	interesse intrattabile ad una convivenza civile fondata sul governo delle 
	regole e non sulle regole di chi governa". In Destra e sinistra, Norberto 
	Bobbio ha scritto che il valore "eguaglianza" è quello che contraddistingue 
	la sinistra.
	
	Ma un conto è constatare che nella storia del movimento operaio 
	l'eguaglianza sia sempre stato il valore dominante; altro è riconoscere con 
	Gobetti che la sottovalutazione della libertà è stato un errore. Oggi, la 
	sinistra è alla ricerca di una funzione, di un ideale, di un concetto 
	informatore. Rileggendo Gobetti, non è utopistico pensare che la bandiera 
	della minoranza intellettuale antifascista, rappresentata dal partito 
	d'azione, possa diventare adesso la connotazione di una sinistra popolare, 
	non socialdemocratica né limitatamente migliorista. Giustizia e libertà: 
	eguaglianza come mito, come direttrice per una società migliore, e libertà 
	nella pratica di ogni giorno, nelle istituzioni, nelle regole del vivere 
	civile e politico, Libertà significa anche eguaglianza di fronte alle leggi, 
	negazione di ogni favore e privilegio, negazione del familismo in tutti i 
	suoi aspetti, fino alla connivenza camorristica e mafiosa, e quindi è 
	educazione a un costume di convivenza civile e tollerante (proprio il 
	contrario dell'aggressività dilagante oggi a tutti i livelli). 
	
	Senza l'appoggio e la convinzione di un grande movimento politico popolare, 
	l'educazione alla libertà non può divenire patrimonio comune. E, come aveva 
	intuito Gobetti, i lavoratori a reddito fisso e gli imprenditori non 
	speculatori e non protezionisti hanno interesse comuni: l'equità fiscale, 
	innanzi tutto, che è un problema di eguaglianza e anche un aspetto del 
	libero mercato, se si volesse tentare di farlo esistere almeno in parte; e 
	la lotta alla corruzione e alle clientele politico-affaristiche, che è un 
	problema di giustizia. 
	La stessa giustizia "giusta", della quale Mani pulite ha dato un esempio, 
	ahimè troppo breve, la giustizia non asservita ai potenti e gli affaristi, è 
	contemporaneamente un'attuazione dell'eguaglianza e della libertà dei 
	cittadini, Nessuno di questi grandi obiettivi potrà essere raggiunto se la 
	libertà sarà ancora vista come "formale" o "borghese", oppure come una 
	condizione già raggiunta. La libertà va realizzata nelle coscienze, 
	nell'educazione, nelle regole della vita civile e politica, essa è la 
	condizione per ogni sforzo di eguaglianza. La rivoluzione liberale, mai 
	realmente attuata in Italia, dev'essere una rivoluzione di giustizia, che 
	necessita sia di una profonda educazione etica, sia di un'azione politica di 
	grandi orizzonti. 
di GIAN LUIGI FALABRINO
Ringrazio per 
	l'articolo FRANCO GIANOLA
	direttore di 
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da Cronologia (www.cronologia.it)
Gobetti: la straordinaria vicenda di un liberale 
	rivoluzionario 
	
	Da domani le celebrazioni per il centenario
	
	di Lucio Villari 
	
	
	Di Piero Gobetti, di appena sette anni di una giovinezza incantata da idee 
	innovatrici e dall’ansia di capire e criticare il passato e il presente 
	dell'Italia, di questa meteora intellettuale, si possono dire più cose che 
	di una vita lungamente vissuta. È certo, comunque, che l'inquietudine di 
	Gobetti è cresciuta insieme con l'angoscia dell'Italia in guerra, con la 
	crisi di Caporetto nel 1917, con la cruenta rivolta popolare e «proletaria» 
	di quell'anno a Torino, e anche con la speranza che la fine del conflitto 
	fosse l'inizio di una Italia nuova, meno retorica, più aperta a istituti di 
	libertà progressiva e di democrazia. Così, nell'anno cruciale 1918 appare, 
	come un momento di verità della prima generazione del '900, il giornale 
	Energie nove che Gobetti fonda a 17 anni e che entra immediatamente e con 
	autorità culturale nel vivo del dibattito politico e sociale del dopoguerra. 
	Nel fondarlo guarda all'esperienza delle mitiche riviste dei primi del 
	secolo, La Voce, Lacerba, che Prezzolini e Paini avevano gettato con impeto 
	nella polemica sulle insufficienze di una classe dirigente borghese in 
	Italia e sui limiti del liberalismo oligarchico delle nostre classi 
	dirigenti. Ma con Energie nove Gobetti voleva anche confrontarsi con gli 
	intellettuali socialisti della Torino operaia, con il loro giornale appena 
	fondato, Ordine nuovo, con le insospettabili risorse modernizzatrici della 
	classe operaia e dell'industria meccanica taylorizzata.
	L'aggettivo «nuovo» era usato da Gobetti e da Gramsci per dare un senso 
	preciso alle loro intenzioni. Ma forse le novità cui pensavano i due erano 
	in quel momento non proprio simili. L'Ordine nuovo era drogato dalla 
	rivoluzione russa dell'ottobre 1917 e dalla leggenda di Lenin; Gobetti, di 
	dieci anni più giovane di Gramsci, vedeva invece, quasi con saggezza 
	profetica, i valori del cambiamento avvenuto nella Russia vecchia e 
	autoritaria, ma anche i pericoli della degenerazione velleitaria e 
	burocratica di quella rivoluzione. L'interesse vero di Gobetti era 
	concentrato sulla possibilità di provocare in Italia una rivoluzione di 
	altro genere, una «rivoluzione liberale» che portasse a compimento il 
	processo di unità nazionale del Risorgimento, dando allo Stato una base di 
	consenso più ampia e stabilità democratica alle istituzioni grazie anche 
	all'apporto di un proletariato consapevole e moderno. Per quanto possa 
	sembrare strano, questo disegno culturale e politico di Gobetti apparve agli 
	intellettuali socialisti non come era in realtà, la base sicura di una 
	autentica politica riformatrice, quanto piuttosto il segno di supponenza di 
	un giovane troppo sicuro di sé. E spettò a Palmiro Togliatti, in un articolo 
	su Ordine nuovo del maggio 1919, chiamare Gobetti «un parassita della 
	cultura». Giudizio che Gramsci confermò un mese dopo a proposito dell'ardita 
	definizione gobettiana degli atti di una seria politica di riforma come 
	piccoli «colpi di Stato».
	Aveva ragione Gobetti, naturalmente, che interpretava così, in previsione di 
	colpi di Stato ben più gravi della destra conservatrice italiana, la 
	necessità di un programma riformatore audace e realmente innovatore che 
	coinvolgesse il meglio del liberalismo e del socialismo italiani. Il suo 
	nuovo giornale, Risorgimento liberale, apparso nel 1921, e la sua febbrile 
	attività di scrittore, giornalista, editore, animatore culturale, fecero in 
	breve di Gobetti una figura straordinaria e unica. Gobetti non si occupava 
	soltanto di politica immediata ma coglieva tutti i segni del mutamento 
	sociale culturale ovunque baluginassero: nel teatro di Pirandello, negli 
	Ossi di seppia di Montale (che apparve nelle edizioni gobettiane), nei saggi 
	di Einaudi, di Prezzolini, di Croce, di Salvatorelli, nella testimonianza 
	filosofica di Gentile, al cui vitalismo stimolatore di energie rese un 
	omaggio incondizionato, nel diffondersi dell'industria e della tecnologia. 
	In questa disponibilità al mutamento e nel saper guardare dall'alto, con 
	assoluta precisione, sia le melmose profondità di una Italia che si apriva 
	al fascismo incalzante, sia le risorse potenziali di una nazione e di una 
	borghesia che pensasse, come egli diceva, alla «dignità degli italiani prima 
	che alla loro genialità». Una posizione coraggiosa, questa, minoritaria e 
	orgogliosa di esserlo, in un paese che aveva solo conosciuto il servilismo, 
	la dissimulazione, la Controriforma; una posizione che faceva scrivere a 
	Gobetti una frase fiammeggiante: «La nostra Riforma fu Niccolò Machiavelli, 
	un isolato». Parole allusive, quante altre mai, al dramma della cultura 
	italiana.
	A questo punto forse Gramsci comprese di avere sbagliato giudizio su Gobetti 
	e cercò di coinvolgerlo, come critico teatrale, nell'Ordine nuovo. Era una 
	indiretta autocritica, che probabilmente danneggiò Gobetti facendolo 
	identificare presso la destra con i «bolscevichi» italiani, da abbattere 
	senza pietà. Ma Gobetti non aveva paura di nulla e collaborò con quel 
	settimanale che, in ogni caso, rappresentava la punta di diamante della 
	«città futura». Per questo, all'avvento del fascismo e soprattutto negli 
	anni drammatici della crisi Matteotti (1924) e del consolidarsi della 
	dittatura (1925) Gobetti sperò che l'antifascismo italiano si attestasse su 
	basi più forti che non l'aventinismo di Giovanni Amendola. Il quale lo 
	ricambiò giudicandolo, erroneamente, il vero «oppositore delle opposizioni». 
	E Mussolini vigilava, ordinando al prefetto di Torino di «rendere la vita 
	impossibile all'insulso Gobetti». Era il segnale che i teppisti attendevano 
	per colpire, nel 1925, con bene assestati colpi di manganello al torace e al 
	volto il giovane ed esile Gobetti. A quei colpi sopravvisse soltanto pochi 
	mesi in una Parigi inutilmente ospitale. Gramsci, capì subito la vera 
	grandezza di Gobetti e il senso della sua perdita dedicandogli pagine 
	bellissime in una relazione ai comunisti a Lione e nelle Note sulla 
	quistione meridionale: era il 1926 e Gobetti riposava ormai al Père Lachaise.
	
	La Repubblica
	22 febbraio 2001