Nemmeno la guerra conosce i se e i ma
Se esiste la guerra, non esiste qualcosa che la limiti. È essa stessa male assoluto
 
di Carlo Garbagnati*

Un’inchiesta televisiva denuncia l’impiego, durante l’assedio a Falluja, di «fosforo bianco» come arma.
I militari Usa prima negano, poi ammettono e, come a giustificarsi, restringono il campo dei destinatari di questo trattamento ai soli «terroristi».
Londra a sua volta, ammette: non importa esattamente che cosa, perché allinearsi sempre e comunque con gli attuali “soci d’impresa” in Iraq è un’inclinazione invincibile per le truppe di Sua Maestà Britannica.
Né gli uni né gli altri si applicano a spiegare come i terroristi si distinguano dalla popolazione civile, quando si bombarda una città. Non s’impegnano in questa spiegazione perché, semplicemente, è impossibile la spiegazione così come è insostenibile l’affermazione da spiegare.

L’indignazione espressa in numerose manifestazioni e dichiarazioni dice che qualche sensibilità è viva e diffusa. Lo ribadisce, indirettamente, l’imbarazzo balbettante degli apologeti professionali di questi reati.
Ma se questa indignazione vuole approdare a pensieri, oltre le emozioni, deve interrogarsi su sé stessa, porre in questione le dubitabili evidenze e certezze dei presupposti, dei “punti di partenza”.
 
 
Primo: Davvero, se avesse senso e fosse credibile, la limitazione ai nemici che si combattono e che combattono costituirebbe un’attenuante? Contro chi commette crimini è forse lecito commettere crimini?
Più in generale: la morte di un combattente è un po’ meno la morte di un essere umano?
Quando si sottolinea come le vittime della guerra siano ormai soprattutto civili, si chiariscono alcuni caratteri della guerra contemporanea, la sua incontrollabile distruttività. Non si vuole certo dire che la morte di un combattente, con o senza divisa, sia una tragedia umana di inferiore portata e drammaticità.

Secondo: La distinzione tra armi consentite e non consentite; convenzionali e non convenzionali non è senza contenuto. È significativa sotto il profilo quantitativo: quanto estesamente le armi colpiscano. È significativa sotto il profilo qualitativo: quante e quali sofferenze producano.
Ma applicarsi a queste specificazioni (descrittive, non valutative) diventa spesso un modo per eludere la domanda principale: se pensare e ammettere che l’uccidere può essere un’azione dotata di motivazioni valide non sia già oltre il limite estremo dell’impensabile e dell’inammissibile.
Nessuna distinzione tra armi consentite o vietate, convenzionali e no, sospende il giudizio sulla assurdità delle armi di qualsiasi genere.
 
 
Terzo: Come si spiega, infine, la sistematica violazione delle norme che vietano certe armi, certi comportamenti durante la guerra, la sistematica violazione del «diritto umanitario»?
Queste norme, questo diritto non riescono a disciplinare i comportamenti, a limitare l’impiego dei mezzi.
Dopo ogni conflitto, si scopre che il «diritto umanitario» è stato violato da tutti, vincitori e vinti, anche se, di norma, solo i vinti sono (a volte) chiamati a risponderne.
Il «diritto umanitario» (come l’elenco delle armi vietate) si configurerebbe dunque esclusivamente come criterio di punizione o di vendetta, ma non di comportamento.
Non è sorprendente questa constatazione; meno che mai è provocatoria. Ha in sé una logica cui non si sfugge. La lotta per la vita o la morte ‑ e la guerra è lotta per la vita o la morte ‑ pone tutto in gioco. E per questo non esclude nessun mezzo, non sottostà a nessuna regola.
 
 
Se esiste la guerra, non esiste qualcosa che la limiti o la moderi.
La guerra non è una premessa di alcuni mali. È essa stessa assolutamente male, male assoluto.
 
 
 *Carlo Garbagnati è il vicepresidente di Emergency, associazione umanitaria per la cura e la riabilitazione delle vittime di guerra