Ivan il provocatore
di Francesco Codello

da Rivista Anarchica on line

 

Con la scomparsa del grande pedagogo viene a mancare una mente acuta e una voce fuori dal coro.

 

Lunedì 2 dicembre, Ivan Illich (Vienna, 1926) “a prolongé sa sieste au point de rejoindre l’éternitè”. Così, dolcemente, quasi come fosse la cosa più naturale del mondo, scrive Thierry Paquot, amico e editore di Ivan Illich (“Le Monde Diplomatique”, Paris, gennaio 2003). Muore all’età di settantasei anni a Brema, città dove insegnava all’Università. Da molti anni egli divideva il suo tempo tra la Germania, l’università della Pennsylvania e il suo domicilio a Cuernavaca (Messico).
Altrettanto dolcemente mi parlò di Paul Goodman quando, nel lontano 1980, a Rimini, in occasione di un convegno sulle “Tecnologie conviviali” (autocostruzioni e architettura alternativa), riuscii ad intervistarlo per questa stessa rivista (a. X n. 3, aprile 1980).
Ricordo anche con quanto entusiasmo parlai di lui, forse per primo in una rivista anarchica italiana, in un articolo su “Volontà” (a. XXXI n. 4, luglio-agosto 1977). Certo allora non capivo quanto la mancanza di una prospettiva politica non fosse una lacuna ma una forza straordinaria del suo pensiero.
Di un pensiero originale, difficile da classificare, ad immagine del suo autore che non si trova mai là dove ti aspetteresti di incontrarlo. Un argomentare erudito e profondo, frutto di una formazione cosmopolita (parlava oltre dieci lingue) e di radici mitteleuropee meticcizzatesi con pensieri e suggestioni latino-americane, lo hanno portato ad esplorare diverse e varie questioni relative all’uomo e alle istituzioni da esso create.
Un pensatore che ha profondamente segnato la mia generazione e che spero continui a “sconvolgere” anche quella attuale e le future con il suo ragionare straordinariamente eclettico e aperto.
Fin dai primi lavori a noi giunti, Descolarizzare la società (1972), Distruggere la scuola (s.d.), Rovesciare le istituzioni (1973), La convivialità (1974) Nemesi medica (1977), questo strano intellettuale, prete cattolico e vice-rettore dell’Università di Porto Rico nel 1956, all’età di trent’anni, poi spretato in opposizione alle gerarchie ecclesiastiche, riesce a “turbare” a fondo la cultura dominante ma anche quella progressista con le sue tesi e le sue convinzioni.
Dopo aver percorso a piedi e in bus l’intera America Latina (nei primi anni sessanta) e aver contestato duramente il modello di sviluppo nordamericano e capitalista, si insedia a Cuernavaca dove fonda, nel 1966, il CIDOC (Centro Internazionale di Documentazione Culturale, che durerà dieci anni) attorno al quale passano numerosi intellettuali e ricercatori di varie parti del mondo.
Questo Centro diventa una fucina di studi ed elaborazioni alternative che scaturiscono da riflessioni e ricerche in vari campi, come nella scuola e nell’educazione, nelle istituzioni e sul modello di sviluppo dominante.
Le sue tesi ruotano attorno alla convinzione che “gli utensili”, o meglio le istituzioni, dopo un certo tempo diventano improduttive e dannose per la libertà dell’uomo e per gli stessi scopi per i quali erano state create. Così Chiesa, Scuola, Ospedale, Trasporti, ecc., diventano paradossalmente un ostacolo per le funzioni che avevano determinato la loro fondazione. Più un sistema tecnico progredisce, più la parte di autonomia in ogni individuo diminuisce, lasciandolo sempre più dipendente nei confronti di ciò che non può più dominare e controllare.
Senza semplificare, come talvolta è stato fatto, in slogan del tipo “la scuola descolarizza”, “l’ospedale rende malati”, “la macchina intralcia la circolazione”, troviamo nel pensiero di Illich una complessa ma chiara critica all’idea di progresso e soprattutto a ciò che lo legittima: la necessità di soddisfare dei presunti “bisogni”. In un’opera molto suggestiva e puntuale (Per una storia dei bisogni, 1981) egli sostiene che l’età contemporanea crea falsi bisogni e trascura in realtà i veri problemi che ci affliggono, producendo una élite di nuovi professionisti la cui funzione consiste proprio nell’inculcare alla gente bisogni fasulli.
Ciò determina la convinzione che la crescita industriale, lo sviluppo, non aumenta la ricchezza ma, di fatto, si limita a modernizzare la povertà.
Ivan Illich contesta dunque l’approccio che al problema dello sviluppo conferisce il Club di Roma, che nel 1972 invitava i governanti del mondo a ridurre la crescita al fine di ritardare la penuria di materie prime. Egli denuncia piuttosto lo spiegamento inconsiderato delle tecniche così come l’intera economia politica dello sviluppo, che autori come Serge Latouche hanno poi ripreso e approfondito.

Sterminata produzione
 

Tutti questi libri di Illich sono da leggere come un insieme unico tanto che hanno come scopo comune quello di liberare l’uomo nella sua singolarità, quale siano la sua cultura, i suoi sogni, ecc.
Il suo approccio critico alla tecnologia lo manifesterà lungo tutta la sua vita rifiutando di parlare in Tv o alla Radio, o anche semplicemente davanti ad un registratore o ad un microfono, considerando indispensabile per una comunicazione vera la sua forma diretta, “vis à vis”, senza mediazioni, così come ricordo fece in quel convegno riminese del quale sono stato testimone.
La liberazione del soggetto dipende dunque dalla padronanza che l’uomo ha del suo corpo e dei suoi bisogni indipendentemente dalle tecniche disponibili in modo che questi non siano determinati, confiscati, calcolati da qualcun altro, chiunque o qualunque cosa sia.
Questa ricerca sull’invenzione dei bisogni lo occupa alcuni anni e lo spinge ad indagare sull’origine e sullo sviluppo di altri concetti e sulla loro origine storica nella cultura occidentale. Eccolo allora interrogarsi, ad esempio, su parole come “genere”, “sesso” (Il genere e il sesso, 1984) e attirarsi critiche da lettori troppo superficiali o volenterosi di piegare alle proprie convinzioni di parte un autore troppo originale e inclassificabile.
Sarebbe per me impossibile rendere conto adesso della sterminata produzione di questo intellettuale paragonato, a mio avviso efficacemente, da Jacques Dufresne a una sorta di “Socrate del villaggio globale” (Mort d’Ivan Illich, L’Encyclopédie de l’Agora, 2002). Ma ritengo sia giusto dare conto a chi non lo conosce che egli si è occupato di capire in quali circostanze e per quali conseguenze il lavoro sia diventato il principale tempo vissuto dell’esistenza individuale e collettiva (Le Chomage créateur, 1977; Le travail fantôme, 1981). Il linguaggio viene interpretato come una sorta di “principale radicamento di ciascuno, così come la sessualizzazione della società come discriminazione tra i generi e la credenza errata dell’homo aeconomicus come modello di comportamento” (Thierry Paquot, cit.).
Le strade aperte dalle ricerche di Illich nei vari spazi dello scibile umano e della conoscenza sono state intraprese e saranno sicuramente ampliate, ma egli resta un pensatore unico ed eccezionale. Gli ultimi anni della sua vita li ha dedicati allo studio della storia medioevale, scrutando ed esplorando i modi di immaginare, percepire, pensare e fantasticare tipici della metà del XII secolo, scavando alle radici dei luoghi comuni della modernità per riesaminarli in una prospettiva storica perché “solo nello specchio del passato risulta possibile riconoscere la radicale alterità della topologia mentale del ventesimo secolo e divenire consapevoli dei suoi assiomi generativi, che normalmente rimangono oltre l’orizzonte dell’attenzione dei contemporanei” (Nello specchio del passato, 1992).
Altri lavori si sono succeduti e hanno animato curiosità e ricerche di più persone, altre provocazioni Ivan Illich ha spalmato sul grigiore e sul provincialismo delle culture occidentali dominanti e talvolta anche su quelle sedicenti progressiste. La sua anormalità, il suo essere fuori dagli schemi interpretativi lo hanno però sempre messo ai margini dei media e della cultura ufficiale. La sua stessa morte è passata pressoché inosservata e pochissimi se ne sono accorti.
Molto intelligentemente le nostre edizioni Elèuthera hanno editato nel 1994 un pregevole lavoro che resta forse la sua ultima testimonianza completa (David Cayley, Conversazioni con Ivan Illich) e recentemente la rivista “Libertaria” ha pubblicato un dossier a cura di Franco La Cecla e Mauro Suttora (a. 3 n. 4, ottobre-dicembre 2001).
Confesso che da poco avevo trovato il suo indirizzo e contavo di contattarlo per chiedergli la disponibilità ad una serie di colloqui da promuovere qui in Italia.
Non ce n’è stato il tempo perché la sua morte me lo ha impedito. Ivan Illich, “un profeta contro la modernità” ci lascia comunque molto su cui riflettere in tempi in cui forse non è più di moda.

 Francesco Codello