Jean Piaget:

psicologo svizzero (Neuchâtel 1896-Ginevra 1980).

Studiò scienze naturali all'Università di Neuchâtel, laureandosi nel 1918. Si dedicò in
seguito, sotto la guida di E. Claparède, a studi di psicologia dell'infanzia,
perfezionandosi a Ginevra e a Parigi.  Nel 1922 divenne professore di
psicologia dell'età evolutiva dell'Istituto J.-J. Rousseau fondato a
Ginevra da Claparède e nel 1940 ne fu nominato direttore. Nel 1955
creò, sempre a Ginevra, il Centro Internazionale d'Epistemologia
Genetica. Le ricerche di P. si sono rivolte soprattutto alla psicologia
dell'età evolutiva, e in particolare allo sviluppo dell'intelligenza, descritta
nelle sue varie operazioni nell'intero arco dello sviluppo intellettuale, dalla
nascita all'adolescenza. Egli critica sia le impostazioni di tipo
associazionista (che definisce “genesi senza struttura”), sia quelle di tipo
gestaltista (“struttura senza genesi”). Secondo P., il bambino attraversa
una serie di fasi evolutive e ogni fase ha una sua strutturazione che la
rende qualitativamente, e non solo quantitativamente, diversa da quella 
precedente. La prima fase (divisa a sua volta in vari altri periodi) è quella
senso-motoria. L'intelligenza, infatti, si sviluppa secondo P. su una base
“pratica”, attraverso l'azione. All'inizio il bambino ha a disposizione solo
un corredo innato di riflessi, le sue percezioni non sono né coordinate
tra di loro, né coordinate alle azioni. Progressivamente si formano le
prime abitudini, le prime coordinazioni tra percezione e azione. Hanno in
questo grande importanza le cosiddette reazioni circolari, processi
particolari che fanno sì che il bambino compia delle azioni per il solo
piacere di compierle, e che quindi conducono a ripetere e perfezionare
certi schemi d'azione. Gli schemi d'azione progressivamente acquisiti
vengono perfezionati e interiorizzati, nella ricerca naturale da parte del
bambino di un adattamento all'ambiente, adattamento inteso in termini di
equilibrio attivo e che si compone di due processi in stretta
interdipendenza tra di loro: l'assimilazione (l'incorporazione, cioè, nei
propri schemi mentali delle offerte dell'ambiente) e l'accomodamento (la
modificazione, cioè, del comportamento sulla base delle richieste
ambientali). Gli schemi d'azione interiorizzati sono ancora irreversibili: il
bambino, cioè, è incapace di formare nozioni complesse utilizzando il
pensiero simultaneo di due o più fasi di un evento o di due o più fasi
dell'esplorazione percettiva di un oggetto. Il possesso di schemi d'azione
interiorizzati reversibili segna l'ingresso nella fase dell'intelligenza
operatoria concreta dalla fase dell'intuizione: intelligenza operatoria in
quanto gli schemi d'azione reversibili, strutturati in relazioni logiche dette
raggruppamenti, costituiscono per P. le operazioni mentali. Si parla di
operazioni concrete perché il punto di partenza è sempre costituito dalla
realtà su cui direttamente si opera. A questa fase, che va da 6 a 11 anni
ca., segue quella delle operazioni astratte, che si ha con l'acquisizione
delle operazioni della logica. Estremamente importanti gli studi di P.
relativi alla nuova disciplina da lui chiamata epistemologia genetica, che
consiste nello studio del significato che hanno concetti quali spazio,
tempo, velocità, causalità, ecc., attraverso la loro acquisizione. Ancora
ricerche fondamentali sono state condotte da P. sulla rappresentazione,
sull'acquisizione del senso morale, sulla percezione, sui rapporti tra
logica e psicologia, sull'animismo e sul linguaggio infantili. La sua
influenza sugli studi di psicologia dell'età evolutiva è stata ed è tuttora
molto importante; le sue opere, inoltre, hanno dato un rilevante apporto
alla formazione del neo-behaviorismo (v. behaviorismo). Fra le sue
opere: Le langage et la pensée chez l'enfant (1923), La représentation
du monde chez l'enfant (1926), La naissance de l'intelligence chez l'enfant
(1936), Introduction à l'épistémologie génétique (1950), La genèse
des structures logiques élémentaires (1960), Sagesse et illusions de
la philosophie (1965), Où va l'éducation (1973).
 

Bibliografia
N. Filograsso, L'evoluzione del pensiero logico di Jean Piaget, Urbino, 1967;
J. Flavell, La mente dalla nascita all'adolescenza nel pensiero di Jean
Piaget, Roma, 1971; D. Elkind, J. Flavell, Jean Piaget e lo
sviluppo cognitivo, Roma, 1972;
R. Droz, M. Rahmy, Guida alla lettura
di Piaget, Firenze, 1974; D. G. Boyle, Guida a Piaget, Firenze, 1975;
S. Borella, Il mentale tra eredità e cultura, Milano, 1991.
  

LO STRUTTURALISMO DIALETTICO DI J. PIAGET

Una ricostruzione dell’affermarsi della prospettiva strutturale in ogni settore del sapere tra gli anni Cinquanta e Sessanta si ha in un libro di Jean Piaget del 1968, Lo strutturalismo. Piaget mostra la progressiva penetrazione  dell’idea di struttura in ambito linguistico, psicologico, matematico, nelle scienze umane e sociali, e fissa i caratteri di innovazione portata dallo strutturalismo in filosofia. Tali caratteri sono riducibile a tre:

a)    il rilievo dell’idea di totalità (lo strutturalismo si oppone all’ <atomismo> della prospettiva analitica ed empiristica, alla visione del lavoro teorico come scomposizione in- e composizione di- elementi isolati, siano essi proposizioni o “dati” empirici);

b)    l’idea di una dinamica oggettiva delle configurazioni teoriche (le strutture sono entità che si sviluppano e mutano, pur mantenendosi nei propri confini: le strutture sociali, per esempio, sono totalità dinamiche);

c)     l’idea di autoregolazione (le strutture mutano in base a principi propri, non richiedono l’intervento  di una forza o di un elemento esterni).

Va subito ricordato che dal punto di vista degli strutturalisti più conseguenti – tanto in Levi-Strauss, quanto in Piaget – la struttura non è un ordine oggettivo, qualcosa di positivamente riscontrabile nella realtà, ma piuttosto il modo in cui guardiamo, studiamo, osserviamo la realtà. E’ cioè un a priori, la condizione per rilevare nelle cose regolarità e discontinuità, connessioni e differenze. Tuttavia, come si vede valutando i “tre principi” di Piaget, “l’oggetto filosofico”  scelto dalla prospettiva strutturale è piuttosto simile al concetto hegeliano, cioè una forma-in-movimento, caratterizzata da un interno principio propulsore. Se la novità dello storicismo e del neokantismo rispetto alla filosofia trascendentale Kantiana era l’apertura del trascendentale alle dimensioni della storia e della cultura, la novità dello strutturalismo è in certo modo un’interpretazione liberalizzata, “matematica”, della dialettica idealistica [il legame tra strutturalismo e hegelismo appare chiaro nell’ultimo sviluppo dello strutturalismo matematico, la teoria delle categorie di F. William Lawvere, che apertamente si richiama alla dialettica hegeliana] , che finisce per includere in tale liberalizzazione non soltanto le scienze esatte, ma anche le scienze della natura (il punto di vista di Piaget si forma nello studio dei fondamenti della biologia) e le scienze dello spirito.

L’accostamento di hegelismo e strutturalismo sulla base delle equazioni <concetto = struttura>, <dialettica = dinamica strutturale>, è un’idea ben fondata ma che si deve soprattutto a Piaget.

  [F.D’Agostini – “Breve storia della filosofia del Novecento”- Einaudi  ed. 1999, pp.229/30 – (Il corsivo è nostro)]

JEAN PIAGET

A cura di Mario Trombino

 

“L'evoluzione interna dell’individuo fornisce soltanto un numero piú o meno grande, a seconda delle attitudini ai ciascuno, di abbozzi suscettibili di essere sviluppati, distrutti o lasciati ad uno stadio incompleto. Ma non sono che degli abbozzi, e soltanto le interazioni sociali e educative li trasformeranno in condotte efficaci oppure li distruggeranno per sempre. Il diritto all’educazione è dunque, né piú né meno, il diritto dell’individuo a svilupparsi normalmente, in funzione delle possibilità di cui dispone, e l’obbligo, per la società, di trasformare queste possibilità in realizzazioni effettive e utili”. (J. Piaget, Dove va l’educazione?)

 

 

 

 

VITA E OPERE

Jean PIAGETPiaget nacque il 9 agosto 1896, a Neuchâtel, Svizzera. Suo padre, uno storico dedito alla letteratura medievale, è descritto da Piaget come "un uomo con una mente molto coscenziosa e critica, che disdegna fortemente le generalizzazioni improvvisate e che non teme di dare avvio a una battaglia quando scopre che una verità storica è rigirata per adattarsi a tradizioni rispettabili" [Piaget 1952, 237]. Piaget ricorda sua madre come una persona intelligente, energica e dolce, ma con un temperamento nevrotico che lo ha portato sia a imitare il padre, sia a rifugiarsi in quello che Piaget ha chiamato un "mondo privato e non fittizio", un mondo di lavoro serio. Piaget riconosce che la situazione turbolenta della sua famiglia ha creato in lui l'interesse per la teoria psicoanalitica. Sarebbe più facile elencare ciò che non interessava Piaget da bambino piuttosto che ciò che lo interessava. Un campìone dei suoi interessi comprendeva la meccanica, le conchiglie di mare, gli uccelli e i fossili. Uno dei suoi primi scritti è stato un opuscolo (scritto in matita, perché non gli era ancora permesso di scrivere con l'inchiostro) in cui descriveva un "autovap", un'interessante unione fra un carro e una locomotiva. La prima pubblicazione di Piaget fu un articolo di una pagina, su un passero albino che egli aveva osservato nel parco. Questo risultato fu raggiunto all'età di 10 anni, molto prima che venisse a conoscenza del detto "pubblica o muori! ". L'interesse di Piaget per le raccolte esibite al museo di storia naturale locale, gli valsero l'invito del direttore ad assisterlo nella sua collezione di molluschi di mare. Così Piaget entrò nel campo della malacologia, lo studio dei molluschi, che catturò la sua attenzione per anni. Le pubblicazioni di Piaget sui molluschi attrassero in qualche misura l'attenzione degli studiosi di storia naturale. Senza che fosse conosciuto di persona, gli fu offerta la cura della sezione mulluschi al museo di storia naturale di Ginevra. Egli dovette però declinare l'offerta in quanto non aveva ancora completato la scuola secondaria! Piaget non si sottrasse alle crisi sociali e filosofiche tipiche dell'adolescenza. I conflitti fra l'insegnamento religioso e quello scientifico lo stimolarono a leggere avidamente Bergson, Kant, Spencer, Comte, Durkheim e William James, fra gli altri. Questa inquietudine filosofica viene espressa in un romanzo filosofico, pubblicato nel 1917. Che questo romanzo non divenne un best-seller lo si può capire leggendo frasi come queste: "Ora non ci può essere consapevolezza alcuna di queste qualità, perciò queste qualità non possono esistere, se non c'è relazione fra di esse, se cioè non sono mescolate in una qualità globale che le contiene pur mantenendole distinte", e "una teoria positiva della qualità che prenda in considerazione solo le relazioni di equilibrio e disequilibrio fra le nostre qualità" [Piaget 1952, 241]. Piaget osservò che "nessuno parlò di quello scrhto, ad eccezione di due filosofi indignati" [ibidem, 243]. Piaget continuò a scrivere intorno a una quantità di questioni .filosofiche. Egli annota: "Scrissi anche se lo facevo solo per me stesso, poiché non potevo pensare senza scrivere, ma doveva essere fatto in modo sistematico, come se si trattasse di un articolo da pubblicare" [ibidem, 241]. In questi scritti si possono ritrovare temi che sono fondamentali nei successivi scritti di Piaget, quali l'organizzazione logica delle azioni e la relazione fra le parti e il tutto. Piaget completò i suoi studi formali in scienze naturali e prese la laurea con una tesi sui molluschi all'Università di Neuchâtel, nel 1918 all'età di 21 anni. Nonostante fino a quel momento egli avesse già pubblicato più di venti lavori, egli non era per niente ansioso di dedicare la sua vita alla malacologia. Dopo aver visitato i laboratori di psicologia a Zurigo e aver brevemente esplorato la teoria psicoanalitica, Piaget passò due anni alla Sorbonne. Lì studiò psicologia e filosofia. Fortunatamente (per la psicologia dello sviluppo), Piaget incontrò Théodore Simon, un pioniere nello sviluppo dei test di intelligenza. Simon, che aveva a disposizione il laboratorio di Alfred Binet in una scuola di Parigi, suggerì a Piaget di standardizzare i test di ragionamento di Binet sui bambini di Parigi. Piaget cominciò il lavoro con scarso entusiasmo, ma il suo interesse aumentò quando comincio a chiedere ai bambini le giustificazioni alle risposte corrette e scorrette da loro date. Cominciò ad essere affascinato dai processi di pensiero che apparivano guidare le risposte. In queste "conversazioni" egli faceva uso di tecniche psichiatriche che aveva appreso quando intervistava malati mentali per il corso che seguiva alla Sorbonne. All'insaputa di Simon, Piaget continuò questo studio per due anni. La successiva pubblicazione di tre articoli basati sulla ricerca condotta nel laboratorio di Binet gli procurò nel 1921 l'offerta di diventare direttore degli studi all'Istituto J. J. Rousseau a Ginevra. Piaget progettava di passare solo cinque anni a studiare la psicologia del bambino (un piano che, fortunatamente, non riuscì). La libertà e le facilitazioni per la ricerca che Piaget ha avuto in questa posizione nutrirono le sue tendenze produttive e lo condussero a pubblicare cinque libri: Il linguaggio e il pensiero del fanciullo (1923), Giudizio e ragionamento nel bambino (1924), La rappresentazione del mondo nel fanciullo (1926), La causalità fisica nel bambino (1927), Il giudizio morale nel fanciullo (1932). Con sua grande sorpresa, i libri vennero letti e discussi diffusamente. Egli divenne noto come psicologo dello sviluppo, anche se non aveva la laurea in psicologia. Era molto richiesto per conferenze e in Europa la sua fama crebbe rapidamente. Questa attenzione del pubblico in qualche modo disturbava Piaget, anche perché pensava che le idee espresse nei suoi libri fossero preliminari e poco solide, piuttosto che affermazioni definitive come molta gente riteneva. Negli anni immediatamente seguenti, Piaget continuò le sue ricerche all'Istituto, insegnò filosofia all'Università di Neuchâtel, imparò la teoria della Gestalt, osservò i suoi figli e persino condusse qualche ricerca sui molluschi nel suo tempo libero! Dal 1929 al 1945, egli occupò diverse posizioni accademiche e amministrative all'Università di Ginevra, come pure posti internazionali, come la presidenza della commissione svizzera dell'Unesco. Intrattenne collaborazioni produttive con Mina Szeminska, Barbei Inhelder e Marcel Lambercier su temi come la manipolazione di oggetti, le nozioni di numero, di quantità fisica, di spazio e lo sviluppo della percezione. Venuto a conoscenza del lavoro di Piaget, Albert Einstein lo incoraggiò ad occuparsi dei concetti di tempo, velocità e movimento. In seguito a questo suggerimento, Piaget scrisse due libri stimolanti: Le développement de la notion du temps chez l'enfant (1946) e Les notions du mouvement et de la vitesse chez l'enfant (1946). Gli anni Quaranta e Cinquanta furono segnati da ricerche su una straordinaria varietà di temi: vari aspetti dello sviluppo mentale, filosofia della conoscenza (la sua vecchia passione), educazione, storia del pensiero e logica. Fra i suoi titoli c'era quello di Professore di Psicologia all'Università' di Ginevra e della Sorbonne, Direttore dell'Istituto di Scienze dell'Educazione e Direttore dell'Ufficio Internazionale dell'Educazione. Inoltre, fondò il Centro di Epistemologia Genetica, un punto d'incontro per filosofi e per psicologi. Nel 1969, la American Association assegnò a Piaget il Distinguished Scientific Contribution Award "per la sua prospettiva rivoluzionaria sulla natura della conoscenza dell'uomo e dell'intelligenza biologica" [Evans 1973, 143]. Fu il primo europeo a ricevere tale riconoscimento. Piaget continuò a studiare il pensiero del bambino fino alla sua morte che avvenne il 16 settembre 1980, all'età dì 84 anni. Anche durante i suoi ultimi anni, libri e articoli continuarono a uscire dalla sua casa, il Centro di Epistemologia Genetica. I suoi ondeggianti capelli bianchi, la pipa, il berretto e la bicicletta erano una vista familiare a Ginevra. Abbiamo la seguente descrizione di Piaget a 70 anni: "Si muove in modo deliberato, ma i suoi occhi azzurri brillano di giovinezza, buon umore ed entusiasmo. Era benevolo ma non così pesante da assomigliare a Babbo Natale; piuttosto, richiamava vagamente delle immagini di Franz Liszt che fossero scese fra di noi" [Tuddenham 1966, 208]. Non si può fare a meno di essere colpiti dalla straordinaria produttività di Piaget. Una stima conservativa dei suoi scritti parla di un numero di libri superiore a quaranta e più di 100 articoli solo di psicologia del bambino. Se si aggiungono le pubblicazioni di filosofia e di educazione, le cifre si gonfiano ancora di più.

 

IL PENSIERO

Lo studioso che ha maggiormente contribuito a modificare l'immagine del fanciullo e dell'educazione nel XX secolo è Jean Piaget, benché non sia un pedagogista, ma uno psicologo. Il suo apporto alla psicologia dell'età evolutiva consiste nell'aver dato una consistenza concreta e scientifica all'idea della pedagogia moderna (da Rousseau all'attivismo) circa la specificità della natura infantile che nei suoi modi di pensare, agire, amare, fare, parlare è profondamente diversa da quella dell'adulto. Per quanto attiene alla pedagogia, Piaget ha sempre sostenuto la necessità di un suo passaggio ad una fase scientifica con precisi punti di riferimento nella psicologia sperimentale, nella sociologia e nei raccordi interdisciplinari, anche se non la concepisce come una disciplina puramente applicativa. L'educatore, infatti, deve avere una preparazione psicologica e deve conoscere quanto gli viene offerto dalla psicologia, ma tocca poi a lui vedere come potrà utilizzare questo bagaglio conoscitivo ideando un insieme di tecniche da sperimentare e adattare personalmente. Certo Piaget ritiene che i tempi e la successione delle fasi di sviluppo psicologico siano immodificabili, togliendo in tal modo rilevanza ed efficacia all'intervento dell'adulto che non può né cambiare né accelerare questi aspetti. L'educazione dunque può solo preparare l'ambiente alla loro comparsa o al loro rinforzo. Poiché il motore dell'intelligenza è la sua azione, l'educatore deve predisporre le condizioni idonee all'esercizio di questo fare, adeguando le sue richieste al livello di sviluppo dell'allievo e costruendo situazioni perché questo adeguamento si produca. Questa centralità del fare (che si traduce in un "far fare") costituisce il punto di vicinanza di Piaget con l'attivismo. Perciò lo scienziato svizzero, se ha sempre insistito sulla necessità di un adeguamento della scuola alle scoperte della psicologia, ha caldeggiato anche un nuovo profilo professionale degli insegnanti che conciliasse la padronanza dei contenuti disciplinari con una solida preparazione psicologica e un'adeguata capacità di gestione dei metodi e della scuola secondo valenze interdisciplinari. In questo senso la didattica deve essere psicologica e l'insegnante un ricercatore in grado di trovare le condizioni migliori per l'apprendimento e le sottostanti dinamiche psicologiche. Si spiega così anche lo sforzo di Piaget di indagare e chiarire le strutture logiche, linguistiche metodologiche delle discipline in quanto, insieme con la delineazione dei momenti di costruzione, formazione e mutamento delle strutture logiche, psicologiche, cognitive, linguistiche, etiche ecc. dovrebbe essere così possibile dare un'impostazione nuova e funzionale ai metodi, ai curricoli e alla programmazione scolastica. In un contesto storico contrassegnato da profondi cambiamenti sociali, economici e tecnologici, Piaget reca in tal modo il suo contributo ad un adeguamento della scuola e dell'educazione nel delicato momento del passaggio da una scuola d'élite a una scuola di massa e a una formazione permanente.

Piaget, Funzioni invarianti e strutture variabili dello sviluppo mentale

Jean Piaget (1896-1980) in una delle opere divulgative piú conosciute (Lo sviluppo mentale del bambino, 1964) espone con chiarezza la sua teoria sullo sviluppo mentale e delinea le principali fasi dell’evoluzione dell’intelligenza, ognuna delle quali costituisce un diversa e specifica modalità di conoscere e di agire da parte del bambino. Nelle pagine iniziali qui riportate vengono definiti i concetti fondamentali che Piaget utilizza per la sua spiegazione unitaria dello sviluppo, che sottolinea la continuità esistente fra la vita biologica e la vita mentale: nello scambio fra l’organismo e l’ambiente è sempre la ricerca dell’equilibrio che spiega lo sviluppo (piú statico quello raggiunto dalla crescita organica, piú mobile quello a cui tende l’intelligenza) e si ritrovano sempre gli stessi meccanismi di funzionamento (funzioni invarianti) in base ai quali il soggetto riadatta la propria condotta, ristrutturando i propri schemi in funzione di un cambiamento nell’ambiente che ha provocato uno squilibrio (un bisogno, un problema). L’equilibrio (o adattamento) è infatti il risultato dei due processi complementari dell’assimilazione e dell’accomodamento. Attraverso questa dinamica si producono forme o stadi successivi di equilibrio sempre piú avanzate (le strutture variabili). Questo “costruttivismo” di Piaget sottolinea il ruolo fondamentale delle continue interazioni fra il soggetto e l’ambiente nella costruzione dell’intelligenza e allo stesso tempo individua come principali fattori che spiegano l’evolversi delle strutture processi spontanei e naturali dovuti a necessità interne di “equilibrazione”.

 

J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino

 

Lo sviluppo psichico, che comincia con la nascita e termina con l’età adulta, è paragonabile alla crescita organica: come quest’ultima, consiste essenzialmente in un cammino verso l’equilibrio. Infatti, cosí come il corpo è in evoluzione sino ad un livello relativamente stabile, caratterizzato dal compimento della crescita e la maturità degli organi, analogamente possiamo concepire la vita mentale come evolventesi in direzione di una forma di equilibrio finale rappresentata dalla mente adulta. Lo sviluppo è quindi, in un certo senso, un progressivo equilibrarsi, un passaggio continuo da uno stato di minor equilibrio ad uno di equilibrio superiore: per quanto riguarda l’intelligenza, è facile contrapporre l’instabilità e l’incoerenza relative delle idee infantili alla sistematizzazione della ragione adulta; nella sfera della vita affettiva, si è spesso notato come l’equilibrio dei sentimenti si accresca con l’età; i rapporti sociali infine obbediscono alla stessa legge di stabilizzazione graduale.

Dobbiamo tuttavia sottolineare sin dall’inizio una differenza essenziale fra la vita del corpo e quella della psiche, se vogliamo rispettare il dinamismo inerente alla realtà psichica: la forma finale di equilibrio raggiunta dalla crescita organica è piú statica di quella verso cui tende lo sviluppo mentale, e soprattutto piú instabile, tanto che, non appena si compie l’evoluzione ascendente, ha automaticamente inizio un’evoluzione regressiva che porta alla vecchiaia. Esistono alcune funzioni psichiche, strettamente dipendenti dallo stato degli organi, che seguono una curva analoga: l'acutezza visiva, ad esempio, raggiunge un punto massimo verso la fine dell’infanzia, per diminuire in seguito, e molte relazioni percettive sono rette dalla stessa legge. Le funzioni superiori dell’intelligenza e dell’affettività tendono al contrario verso un “equilibrio mobile”, tanto piú stabile, quanto piú è mobile, di modo che, per le menti sane, la fine della crescita non segna affatto l’inizio della decadenza, bensí apre la via ad un progresso spirituale che nulla ha di contraddittorio con l’equilibrio interno.

È in termini di equilibrio, quindi, che cercheremo di descrivere l’evoluzione del bambino e dell’adolescente. Da questo punto di vista lo sviluppo mentale è una costruzione continua, paragonabile a quella di un vasto edificio che ad ogni aggiunta divenga piú solido, o piuttosto alla messa a punto di un delicato meccanismo, le cui fasi graduali di montaggio portino ad un’elasticità e mobilità degli elementi tanto maggiore, quanto piú stabile divenga il loro equilibrio. A questo punto, dobbiamo però introdurre un’importante distinzione fra due aspetti complementari di questo processo di costituzione dell’equilibrio: è opportuno scindere sin dall’inizio le strutture variabili, che definiscono le forme o stati successivi dell’equilibrio, ed un certo funzionamento costante, che permette il passaggio da uno stato qualsiasi al livello successivo.

Effettivamente, quando si paragona il fanciullo all’adulto si è talvolta colpiti dall’identità delle reazioni – si parla allora di “piccola personalità”, per dire che il bambino sa bene quello che desidera ed agisce, come noi, in funzione d’interessi precisi; talvolta si scopre invece una quantità di differenze – nel gioco, per esempio, o nel modo di ragionare, e si dice allora che “il bambino non è un piccolo adulto”. Volta a volta, le due impressioni sono esatte: da un punto di vista funzionale, cioè considerando i moventi della condotta e del pensiero, esistono funzionamenti costanti, comuni a tutte le età: ad ogni livello l’azione suppone sempre un interesse che la provochi, si tratti di un bisogno fisiologico, affettivo o intellettuale (in quest’ultimo caso il bisogno si presenta sotto forma di un interrogativo o problema); ad ogni livello, l'intelligenza cerca di comprendere o di spiegare, ecc. ecc. Ma se le funzioni dell’interesse della spiegazione ecc. sono dunque comuni a tutti gli stadi, cioè “invarianti” in quanto funzioni, è altrettanto vero che gli “interessi” (contrapposti all’“interesse”) variano considerevolmente da un livello mentale all’altro, e le spiegazioni particolari (contrapposte alla funzioni dello spiegare) sono forme molto diverse a seconda del grado di sviluppo intellettuale. Accanto alle funzioni costanti si devono quindi distinguere le strutture variabili: ed è precisamente l’analisi di queste strutture progressive, o forme successive, di equilibrio, che permette di determinare le differenze od opposizioni da un livello all’altro della condotta, dai comportamenti elementari del neonato sino all’adolescenza.

Le strutture variabili saranno dunque le forme di organizzazione dell’attività mentale, considerata nel suo duplice aspetto motorio e intellettuale da un lato, e affettivo dall’altro, e nelle sue dimensioni individuale e sociale (interindividuale). Per maggiore chiarezza distingueremo sei stadi o periodi di sviluppo che indicano l’apparizione di queste strutture costruite in successione: 1) Lo stadio dei riflessi o meccanismi ereditari, delle prime tendenze istintive (alimentari) e delle prime emozioni. 2) Lo stadio delle prime abitudini motorie e delle prime percezioni organizzate, cosí come dei primi sentimenti differenziati. 3) Lo stadio dell’intelligenza sensomotoria o pratica (anteriore al linguaggio), delle organizzazioni affettive elementari e delle prime fissazioni esterne dell’affettività. Questi tre primi stadi costituiscono insieme il periodo della prima infanzia (sino a circa un anno e mezzo-due anni, cioè prima degli sviluppi del linguaggio e del pensiero propriamente detto). 4) Lo stadio dell’intelligenza intuitiva, dei sentimenti interindividuali spontanei, e dei rapporti sociali di subordinazione all’adulto (dai due ai sette anni), o seconda fase dell’infanzia propriamente detta). 5) Lo stadio delle operazioni intellettuali concrete (inizio della logica) e dei sentimenti morali e sociali di cooperazione (dai sette agli undici-dodici anni). 6) Lo stadio delle operazioni intellettuali astratte, della formazione della personalità e dell’inserimento affettivo ed intellettuale nel mondo degli adulti (adolescenti).

Ognuno di questi stadi è caratterizzato dunque dall’apparizione di strutture originali, la cui costruzione lo distingue dagli stadi anteriori. I caratteri essenziali di queste successive costruzioni persistono nel corso degli stadi anteriori, come sottostrutture sulle quali vengono edificandosi i nuovi caratteri: ne consegue che nell’adulto ogni stadio precedente corrisponde ad un livello piú o meno elementare o elevato della gerarchia delle condotte. Ma ad ogni stadio corrispondono anche caratteri contingenti e secondari, che vengono modificati dallo sviluppo ulteriore in funzione dei bisogni di una migliore organizzazione. Ogni stadio costituisce dunque, attraverso le strutture che lo definiscono, una forma specifica di equilibrio, e l’evoluzione mentale si realizza nella direzione di un equilibrarsi sempre piú avanzato.

Possiamo allora definire quali sono i meccanismi funzionali comuni ad ogni stadio. In modo del tutto generale possiamo dire (non solo confrontando ogni stadio al successivo, ma ogni condotta all’interno di un qualsiasi stadio alla condotta successiva) che ogni azione – cioè ogni movimento, ogni pensiero od ogni sentimento – risponde ad un bisogno. Il bambino, come l’adulto, non esegue alcuna azione, esterna o anche totalmente interiore, se non è spinto da un movente, e tale movente si presenta sempre sotto forma di un bisogno (un bisogno elementare, un interesse, un interrogativo, ecc.). Ma, come ha ben dimostrato Claparède, un bisogno è sempre la manifestazione di uno squilibrio: si ha bisogno quando qualche cosa al di fuori di noi o dentro di noi, nella nostra struttura fisica o mentale, si è modificato, e quando si tratta di riadattare la condotta in funzione di questo cambiamento. La fame o la stanchezza, per esempio, determineranno la ricerca del nutrimento o del riposo; l’incontro con un oggetto esterno provocherà il bisogno di giocare, la sua utilizzazione a fini pratici o susciterà un interrogativo, un problema teorico; una parola altrui ecciterà il bisogno di imitare, di simpatizzare, oppure susciterà la riserva o l’opposizione, poiché entra in conflitto con una nostra qualsiasi tendenza. Inversamente, l’azione si conclude quando si fa soddisfazione dei bisogni, cioè quando si è ristabilito l’equilibrio tra il fatto nuovo che ha provocato il bisogno, e la nostra organizzazione mentale quale si presentava anteriormente ad esso. Mangiare o dormire, giocare o raggiungere i propri scopi, rispondere ad un interrogativo o risolvere un problema, riuscire in una buona imitazione, stabilire un legame affettivo, mantenere il proprio punto di vista, sono altrettante soddisfazioni che, negli esempi precedenti, porranno termine alla condotta specifica suscitata dal bisogno. Si potrebbe cosí dire che ad ogni istante l’azione viene squilibrata dalle trasformazioni che si manifestano nel mondo, esterno od interno, e ogni nuova condotta consiste non soltanto nel ristabilire l’equilibrio, ma anche nel tendere verso un equilibrio piú stabile di quello dello stato anteriore a questa perturbazione.

L’azione umana consiste appunto in questo continuo e perpetuo meccanismo di riadattamento o riequilibrio, e proprio per tale ragione nelle prime fasi di costruzione le strutture mentali successive, determinate dallo sviluppo, possono venir considerate come altrettante forme di equilibrio, ognuna delle quali è un progresso rispetto alle precedenti. Occorre però comprendere anche che questo meccanismo funzionale, per quanto generale sia, non spiega il contenuto o la struttura dei diversi bisogni, poiché ognuno di essi è relativo all’organizzazione del livello considerato; la vista di uno stesso oggetto, per esempio, provocherà domande molto diverse in un bambino piccolo, ancora incapace di classificazione, e in un grande, con idee piú ampie e sistematiche. Gli interessi di un bambino dipendono quindi in ogni momento dall’insieme delle nozioni acquisite e delle disposizioni affettive, in quanto tendono a completarle nella direzione di un migliore equilibrio.

Prima di esaminare in modo particolareggiato lo sviluppo, occorre precisare la forma generale dei bisogni e degli interessi comuni a tutte le età. Possiamo dire, a questo proposito, che ogni bisogno tende 1) ad incorporare le cose e le persone all’attività propria del soggetto, quindi ad “assimilare” il mondo esterno alle strutture già costruite, e 2) a riadattare queste in funzione della trasformazioni subite, quindi “accomodarle” agli oggetti esterni. Da questo punto di vista, tutta la vita mentale, come del resto la stessa vita organica, tende ad assimilare progressivamente l’ambiente circostante, realizzando questa incorporazione per mezzo di strutture, o organi psichici, il cui raggio d’azione diviene sempre piú ampio: la percezione e i movimenti elementari (prensione, ecc.) permettono dapprima il possesso degli oggetti vicini e nel loro stato presente, piú tardi la memoria e l’intelligenza pratica permettono sia di ricostituire il loro stato immediatamente anteriore, sia di anticipare le loro trasformazioni imminenti; il pensiero intuitivo rafforza poi questi due poteri; l’intelligenza logica, prima nella forma delle operazioni concrete, poi della deduzione astratta, compie quest’evoluzione, rendendo il soggetto padrone degli avvenimenti piú lontani nello spazio e nel tempo. In ognuno di questi livelli la mente assolve quindi alla medesima funzione, che è quella d’incorporare a sé l’universo, ma la struttura di tale assimilazione varia, variano cioè le forme successive di incorporazione, dalla percezione e dal movimento sino alle operazioni superiori.

Cosí, assimilando gli oggetti, l’azione ed il pensiero sono costretti ad aggiustarsi ad essi, cioè a ridimensionarsi in seguito ad ogni variazione esterna. Possiamo chiamare “adattamento” l’equilibrio di assimilazioni ed accomodamenti; questa è la forma generale dell'equilibrio psichico; lo sviluppo mentale consisterebbe quindi nella sua progressiva organizzazione, in un adattamento sempre piú preciso alla realtà. Studieremo ora concretamente le tappe di questo adattamento.

J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino, 1967)

Piaget, Il diritto all’educazione

Queste considerazioni di Jean Piaget sul diritto all’educazione nel mondo attuale fanno parte del suo commento all’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che gli fu richiesto dall’UNESCO e fu pubblicato in lingua francese nel 1972 nel Rapporto sulle strategie dell’educazione. Piaget affronta qui il problema di come debba essere inteso oggi il diritto all’educazione. Egli parte dalla constatazione che nell’essere umano l’interazione sociale ed educativa è una condizione indispensabile dello sviluppo. Il significato da dare all’educazione viene individuato in rapporto alla formazione intellettuale e morale del giovane. Dai dati sperimentali che emergono dalle ricerche di psicologia evolutiva, il pensiero e la logica – cosí come le regole e i sentimenti morali – non sono da considerare caratteristiche innate, ma si formano gradualmente nell’individuo e hanno bisogno di un determinato ambiente sociale che favorisca la loro elaborazione attiva da parte del soggetto e non si limiti a una semplice trasmissione e imposizione di regole e di conoscenze precostituite. Il diritto all’educazione significa quindi garantire a ciascun bambino il diritto alla costruzione delle proprie strutture mentali e dei propri princípi morali, nella interazione con un ambiente sociale di formazione (la scuola) in cui siano organizzati metodi e tecniche adeguati alle leggi del suo sviluppo mentale.

 

J. Piaget, Dove va l’educazione?

 

Lo sviluppo dell’essere umano è in funzione di due gruppi di fattori: i fattori ereditari e di adattamento biologico, da cui dipende l’evoluzione del sistema nervoso e dei meccanismi psichici elementari, e i fattori di trasmissione o d’interazione sociale, che intervengono fin dalla nascita ed hanno una funzione sempre piú importante, nel corso della crescita, nel costituirsi delle condotte e della vita mentale. Parlare di un diritto all’educazione significa dunque anzitutto constatare la funzione indispensabile dei fattori sociali nella formazione stessa dell’individuo.

Solo alcune società animali di tipo inferiore sono interamente regolate dal gioco degli istinti, vale a dire da dispositivi ereditari che restano interni agli individui stessi. Già negli animali superiori, il completamento di certe condotte, solo in apparenza esclusivamente istintive o innate, richiede l’intervento di trasmissioni sociali esterne, sotto forma di imitazioni, di addestramento, in breve, di un’educazione dei piccoli da parte della madre o del padre. Uno psicologo cinese ha dimostrato, ad esempio, che l’istinto di caccia dei gattini si sviluppa meno bene quando questi vengono separati dalla madre che non quando la medesima condotta viene rinforzata dalle stimolazioni e dall’esempio materno. Ma, nell’animale, la vita di famiglia è breve e gli inizi di educazione che essa comporta restano assai limitati; nelle piú dotate fra le scimmie antropoidi, gli scimpanzé, i rapporti fra genitori e figli cessano dopo qualche settimana e, dopo il primo anno, il piccolo è riconosciuto dalla madre soltanto in un caso su cinque.

La differenza essenziale fra le società umane e le società animali consiste invece nel fatto che le più importanti fra le condizioni sociali dell’uomo – i mezzi tecnici di produzione il linguaggio con l’insieme delle nozioni di cui permette la costruzione, le usanze e regole di vario tipo – non sono piú determinate dall’interno attraverso meccanismi ereditari già pronti per essere attivati al contatto delle cose e degli altri esseri; queste condotte vengono acquisite per trasmissione dall’esterno, di generazione in generazione, vale a dire attraverso l’educazione, e si sviluppano soltanto in funzione d’interazioni sociali molteplici e differenziate. Da quando gli uomini parlano, ad esempio, nessun idioma si è fissato ereditariamente, ed è sempre attraverso una azione educativa esterna dell'ambiente familiare sul bambino piccolo che questo impara la propria lingua, chiamata, infatti “materna”. Indubbiamente, le potenzialità del sistema nervoso umano permettono un’acquisizione di questo genere, negata agli antropoidi, ed il possesso di una certa “funzione simbolica” fa parte di queste disposizioni interne che la società non crea, ma utilizza; tuttavia, senza una trasmissione sociale esterna (va e a dire, innanzitutto, educativa), la continuità del linguaggio collettivo rimarrebbe praticamente impossibile, Un fatto di questo genere indica, fin dall’inizio, la funzione di questa condizione formatrice, non sufficiente da sola, ma rigorosamente necessaria a quello sviluppo mentale che è l’educazione.

Ora, quel che è vero per il linguaggio – mezzo d’espressione dei valori collettivi – lo è altrettanto per questi valori stessi, come pure per le norme che li ordinano, a cominciare dai due sistemi di valori e di norme piú importanti per l’adattamento ulteriore dell’individuo al suo ambiente: la logica e la morale.

Si è creduto per molto tempo che la logica fosse innata nell’individuo e che appartenesse, di fatto e di diritto, a quella “natura umana” che il senso comune considera come anteriore alla vita sociale: di cui l’idea corrente, ancora nel XVII e XVIII secolo, (e di cui l’opinione pubblica è rimasta tributaria), che le “facoltà logiche” ecc., siano naturali, e perfino le sole caratteristiche “naturali” in contrapposizione ai prodotti artificiali della vita collettiva. Cosí Descartes considerava il “buon senso”, vale a dire la capacità di ragionare logicamente, come la cosa piú diffusa nel mondo, e Rousseau fondava tutto un sistema pedagogico sull'opposizione fra le perfezioni congenite dell’individuo e le deviazioni ulteriori dovute alla vita sociale. Sono queste le nozioni che hanno ispirato le dottrine della scuola tradizionale: l'uomo preformato nel bambino e lo sviluppo individuale consistente solo in una attualizzazione di facoltà virtuali, la funzione dell’educazione si riduce allora ad una semplice istruzione; si tratta soltanto di arricchire o di alimentare delle facoltà già formate, e non di formarle; in definitiva, è sufficiente accumulare delle conoscenze nella memoria, invece di intendere la scuola come un centro di attività reali (e sperimentali) svolte in comune, tale che l’intelligenza logica vi si elabori in funzione della azione e degli scambi sociali.

Ora, la logica non è innata nel bambino. Il risultato piú evidente di un insieme di ricerche, che riguardano non soltanto il pensiero verbale dei piccoli, ma anche la loro intelligenza pratica e le operazioni concrete per mezzo delle quali essi costruiscono le loro classificazioni, le loro nozioni di numero e di spazio, di ordine e di quantità, di movimento, di tempo e di velocità ecc., ha permesso di mettere in evidenza il fatto che certi ragionamenti, considerati logicamente necessari a partire da un certo livello mentale, sono estranei alle strutture intellettuali anteriori.

Per fissare le idee con un esempio concreto, qualsiasi bambino normale di 7-8 anni ammetterà che, se due bicchieri di forma diversa, A e B, contengono la stessa quantità d’acqua, e se i due bicchieri B e C contengono anch’essi la stessa quantità d’acqua, allora le quantità contenute in A e in C sono uguali, anche quando i due bicchieri A e C sono di forma piú dissimile che non A e B o B e C. Invece, per i piccoli di 4-5 anni, non vi è alcun motivo di ammettere che le quantità A e C siano uguali, quando sono state constatate le uguaglianze A = B e B = C, e non vi è neppure un motivo valido perché l’acqua si conservi cambiando di recipiente. Quanto ai bambini da 7 a 10 o 11 anni, se trovano evidente il ragionamento A = B, B = C, dunque A = C quando si tratta di una piccola quantità d’acqua, lo mettono in dubbio quando si tratta di nozioni piú complesse (per esempio, di pesi), ed a maggior ragione nel caso di ragionamenti semplicemente verbali (vale a dire senza manipolazione di oggetti). La logica formale, nel significato corrente e adulto del termine (intendo con questo, è evidente, la capacità di ragionare secondo una tale logica, come M. Jourdain che faceva della prosa senza saperlo, e non la conoscenza di questa disciplina), si costruisce realmente soltanto a partire da 11-12 anni, e occorre l’età di 14-15 anni perché si completi.

Questi dati di fatto ci sembrano tali da modificare profondamente i termini classici del problema pedagogico e, di conseguenza, il significato di diritto all’educazione: se la logica stessa si costruisce invece di essere innata, ne consegue che il primo compito dell’educazione è di formare la ragione. La proposizione “Ogni persona ha diritto all’educazione”, come viene solennemente affermato all’inizio del nostro articolo 26, significa dunque in primo luogo: “Ogni essere umano ha diritto di stare, durante la propria formazione, in un ambiente scolastico tale da permettergli di elaborare fino al loro completamento, quegli strumenti indispensabili di adattamento che sono le operazioni della logica”. Ora, questa formazione è piú complessa di quel che non sembri, e non occorre una particolare perspicacia per accorgersi, esaminando gli individui adulti normali, rappresentativi della media degli uomini, che le personalità veramente logiche e padrone del proprio ragionamento sono rare quanto gli uomini veramente morali che esercitano la loro coscienza in tutto il suo potere.

Quel che abbiamo detto circa gli strumenti del ragionamento verrà ammesso anche piú facilmente per quel che riguarda la formazione morale, in teoria almeno. Tutti ammetteranno che, se certe disposizioni innate permettono all’essere umano di costruire le leggi e i sentimenti morali, questa elaborazione presuppone l’intervento di un insieme di rapporti sociali determinati, familiari dapprima, poi piú generali. Tutti riconosceranno dunque, fino ad un certo punto, la funzione formatrice dell’educazione morale in contrapposizione alle tendenze semplicemente ereditarie. Ma anche in questo caso, e secondo un parallelismo, che l’analisi rende sempre piú evidente, fra la formazione morale e la formazione intellettuale dell’individuo, si pone il problema di sapere se l’apporto esteriore che ci si aspetta dall’educazione per completare e plasmare le disposizioni individuali, possa limitarsi ad una semplice trasmissione di regole e di conoscenze già pronte: si tratta dunque di imporre certi compiti e una certa obbedienza, in analogia con l’obbligo intellettuale di ricordare e di ripetere certe “lezioni”, oppure il diritto alla formazione del ragionamento, un diritto a costruire realmente, o almeno a partecipare alla elaborazione della disciplina che sarà impegnativa per coloro stessi che avranno collaborato alla sua costruzione?

Si pone dunque, per l’educazione morale, un problema di autodisciplina, parallelo a quello dell’auto-formazione della ragione in seno ad una collettività di ricerca. Dobbiamo ad ogni modo sottolineare subito che il diritto all’educazione intellettuale e morale implica piú che un diritto ad acquisire delle conoscenze o ad ascoltare, e piú che un obbligo ad obbedire: si tratta di un diritto a costruire certi strumenti spirituali, preziosi fra tutti, e la cui costruzione richiede un ambiente sociale specifico, non fatto esclusivamente di sottomissione.

L’educazione è quindi non soltanto una formazione, ma una condizione formatrice necessaria allo sviluppo naturale stesso. Dire che tutti gli esseri umani hanno diritto all’educazione, non significa dunque suggerire unicamente, come lo presuppone la psicologia individualista tributaria del senso comune, che qualsiasi individuo, destinato dalla propria natura psicobiologica a raggiungere sicuramente un livello già elevato di sviluppo, possiede in piú il diritto a ricevere dalla società l’iniziazione alle tradizioni culturali e morali; significa al contrario, approfondendo la questione, affermare che l’individuo non è in grado di acquisire le proprie strutture mentali fondamentali senza un apporto esterno che esige un determinato ambiente sociale di formazione, e che, a tutti i livelli (a partire dai piú elementari fino ai piú elevati) il fattore sociale o educativo costituisce una condizione dello sviluppo. Indubbiamente, prima dei 3-4 anni o 6-7 anni, secondo i paesi, non è la scuola ma la famiglia che ha la funzione di educare. Forse mi si risponderà che, anche ad ammettere questa funzione costruttiva delle interazioni sociali iniziali, il diritto all’educazione riguarda innanzitutto il bambino già formato dall’ambiente familiare e pronto a ricevere un insegnamento scolastico; non si tratterebbe piú allora di formazione vera e propria, ma soltanto di istruzione. Tuttavia, dissociando cosí il processo educativo in due periodi, o secondo due sfere di influenza, di cui la prima soltanto sarebbe formatrice e la seconda si limiterebbe alla trasmissione di conoscenze particolari, si impoverisce di nuovo il significato di diritto all’educazione. Non soltanto si limita la portata costruttiva di quest’ultima, ma si separa inoltre la scuola dalla vita; ora, il problema essenziale è di fare della scuola l’ambiente formatore che la famiglia tende a realizzare senza riuscirvi sempre sufficientemente e che costituisce la condizione sine qua non di uno sviluppo intellettuale e affettivo completo.

Affermare il diritto della persona umana alla educazione significa dunque assumersi una responsabilità molto piú gravosa che non assicurare a ciascuno l’acquisizione della lettura, della scrittura o del calcolo; significa veramente garantire a ciascun bambino l’intero sviluppo delle sue funzioni mentali e l’acquisizione delle conoscenze, come pure dei valori morali che corrispondono all’esercizio di queste funzioni, fino all’adattamento alla vita sociale attuale. Di conseguenza, significa soprattutto assumersi l’impegno – tenendo conto della costituzione e delle attitudini che distinguono ciascun individuo – di non distruggere o sciupare nessuna delle possibilità che egli parta in sé e di cui la società è chiamata ad avvantaggiarsi per prima, invece di lasciarne perdere importanti aliquote, e di soffocarne altre.

Per questo la proclamazione di un diritto alla educazione implica, se si ha la volontà di attribuirgli un significato che superi il livello delle dichiarazioni verbali, l’utilizzazione delle conoscenze psicologiche e sociologiche che possediamo circa le leggi dello sviluppo mentale, e l’elaborazione di metodi e di tecniche adeguate agli innumerevoli dati che questi studi forniscono all’educatore. Si tratterà allora di determinare secondo quali modalità quell’ambiente sociale che è la scuola arriverà ai migliori procedimenti di formazione, e se questa formazione consiste in una semplice trasmissione di conoscenze e di regole, o se invece presuppone, come abbiamo già intravisto, delle relazioni piú complesse fra l’insegnante e l’alunno e fra gli alunni stessi. Vi ritorneremo a proposito del “pieno sviluppo della personalità umana”, postulato dal nostro testo.

Limitiamoci, per il momento, a formulare il principio ed a cercare quel che ne consegue dal punto di vista degli obblighi della società verso il bambino. Questo principio è dunque che l’educazione non è un semplice apporto che si aggiunge ai risultati di uno sviluppo individuale regolato in maniera innata o che si effettua con l’aiuto della sola famiglia: dalla nascita alla fine dell’adolescenza l’educazione è unica e costituisce uno dei fattori fondamentali necessari alla formazione intellettuale e morale; di conseguenza, la scuola ha una parte non trascurabile di responsabilità quanto al successo finale o all’insuccesso dell’individuo nella realizzazione delle proprie possibilità e nel suo adattamento alla vita sociale.

In una parola, l'evoluzione interna dell’individuo fornisce soltanto un numero piú o meno grande, a seconda delle attitudini ai ciascuno, di abbozzi suscettibili di essere sviluppati, distrutti o lasciati ad uno stadio incompleto. Ma non sono che degli abbozzi, e soltanto le interazioni sociali e educative li trasformeranno in condotte efficaci oppure li distruggeranno per sempre. Il diritto all’educazione è dunque, né piú né meno, il diritto dell’individuo a svilupparsi normalmente, in funzione delle possibilità di cui dispone, e l’obbligo, per la società, di trasformare queste possibilità in realizzazioni effettive e utili.

(F. Ravaglioli, Educazione occidentale, Armando, Roma, 1988, vol. III, pagg. 354-359)

Piaget, La psicologia del bambino

Jean Piaget (1896-1980) in queste pagine tratte da Le scienze dell’uomo (1970) considera il ruolo fondamentale che ha avuto lo studio della psicologia del bambino secondo un approccio genetico per comprendere come lo sviluppo consista sempre in una costruzione di strutture le quali evolvono secondo stadi “la cui successione può essere accelerata ma non soppressa”. Esaminando le posizioni espresse dai diversi studiosi sui fattori che possono spiegare lo sviluppo del bambino – quali la maturazione, l’interazione con l’adulto, l’esperienza sociale – Piaget sottolinea la necessità di considerare il ruolo svolto dal fattore di “equilibrazione” (cioè dalla compensazione attiva da parte del soggetto nei confronti delle modificazioni esterne) che permette di spiegare la successione degli stadi secondo un ordine fisso. In relazione, infine, alla teoria dell’intelligenza, Piaget sottolinea il contributo dato dallo strutturalismo che riconosce l’esistenza di “strutture operatorie” e prende le distanze sia dalle concezioni associazionistiche sia da quelle della Gestalt (le quali riconoscono l’esistenza delle strutture, ma le riducono tutte a un unico tipo, quello della percezione). La specifica caratteristica delle strutture intellettuali è stata individuata grazie all’analisi psicogenetica (cioè alla ricostruzione del loro processo di formazione): esse non sono innate né acquisite, ma sono il risultato di una costruzione graduale da parte del soggetto. Tale concezione dello sviluppo dell’intelligenza è definito anche “costruttivismo”.

 

J. Piaget, Le scienze dell’uomo

 

Il grande futuro della psicologia è senza dubbio legato ai metodi comparativo e psico-genetico, poiché solo seguendo il processo di formazione dei comportamenti e dei loro meccanismi, nell’animale e nel bambino (nella prospettiva di studiare anche le pre-percezioni e i movimenti nei vegetali), se ne può comprendere la natura e il funzionamento nell’adulto. Il motivo per cui è stato necessario un tempo considerevole per comprendere quanto rappresenta ormai una tendenza largamente diffusa, è che si è a lungo considerato il bambino come il protagonista passivo di un processo di apprendimento limitato a “registrare” ciò che nel mondo dell’esteriorità già organizzata è inscritto in anticipo, e soprattutto ciò che l’adulto gli insegna. Ebbene, due grandi lezioni ci vengono da una migliore conoscenza del bambino: l'universo non è, in realtà, organizzato che alla condizione di avere reinventato poco a poco tale organizzazione, strutturando gli oggetti, lo spazio, il tempo e la causalità e costituendoli in complesso logico; mai nulla si apprende dai maestri se non ricostruendo, allo stesso modo, il loro pensiero: senza questa organica appropriazione, esso non potrebbe mai fissarsi nell’intelligenza e nemmeno nella memoria (cosa che si constata direttamente). In una parola, la psicologia del bambino ci insegna che lo sviluppo è una costruzione reale, al di là di innatismo ed empirismo, e che non si risolve in un’accumulazione additiva di acquisizioni isolate, ma è una costruzione di strutture.

 

A. Ad una prima considerazione della linea evolutiva dell’etologia, o psicologia animale, sorprende constatare come essa abbia conosciuto fasi parallele a quelle della psicologia dell’infanzia, senza che sia intervenuta nessun’altra influenza diretta nell’uno o nell’altro senso, giacché l’etologia è soprattutto opera di zoologi. Dopo una fase di osservazioni isolate, la psicologia animale si è fatta in laboratorio secondo rigorosi canoni di ispirazione associazionista (teorie dell’apprendimento). In seguito, è venuta la scuola detta “obiettivista”, il cui assunto ha significato ricollocare la ricerca nell’ambito della natura stessa, cioè nel complesso indissociabile organismo + ambiente, conducendo tuttavia l’analisi in modo sistematico: di qui la riscoperta dell’istinto, ma col sostegno di una larga abbondanza di fatti nuovi, che ne attestano la complessa realtà. Infine, alla generazione che ha fondato questa etologia in natura, è seguita una seconda generazione di studiosi, diffidenti nei confronti di un puro innatismo e perciò orientati a cercare la spiegazione in un complesso di inneità e di esercizio, e che insistono sulla costruzione delle strutture piuttosto che sull’idea di preformazione semplice.

Ebbene, la psicologia dell’infanzia è passata attraverso fasi abbastanza corrispondenti. Dopo un primo stadio di osservazioni isolate e, per cosí dire, soprattutto “biografiche”, si è sottoposto il bambino ad ogni sorta di test standardizzati, concludendo con delle indicazioni quantitative piú che con idee sui meccanismi propri dello sviluppo. Questa fase è stata seguita da studi soprattutto clinici, nei quali il bambino è stato considerato nel suo contesto di vita e di attività, e a questo punto l’accento è stato posto, in modo analogo, soprattutto sui fattori di mutazione interna del sistema nervoso (Gesell e Wallon), dando spazio naturalmente al fattore sociale generale, ignoto all’animale nella forma di trasmissioni educative prolungate. Finalmente, l'attenzione si è incentrata sulla costruzione stessa delle strutture, superando nello stesso tempo i presupposti a lungo resistenti dei fattori organici e dell’azione dell’adulto.

[...]

B. È lo studio della psicogenesi nel bambino che rende agibile l’analisi di questa costruzione delle strutture. Studi di questo genere vengono intrapresi con sempre maggiore intensità in numerosi paesi, secondo molteplici tendenze di cui segnaleremo le piú importanti.

Agli inizi, Gesell e Wallon hanno insistito sul ruolo della maturazione nervosa, fattore indiscutibile e i cui effetti sono constatabili ai livelli sensorio-motori iniziali (per esempio, nella mielinizzazione del fascio piramidale che rende possibile il coordinamento della visione e della prensione). Tuttavia, nella misura in cui lo sviluppo procede, la maturazione nervosa (che dura fino intorno ai 15-16 anni almeno) si limita sempre piú a offrire delle possibilità senza intervenire con la necessità di una programmazione già fissata, né, del resto, le possibilità danno luogo ad attuazioni multiple, se non nella misura in cui intervengono altri fattori. Wallon, in particolare, ha insistito sul ruolo della maturazione del sistema posturale che, pur essendo strettamente legato al gioco delle emozioni, da lui considerato un fattore positivo, prefigura già gli aspetti figurativi del pensiero (immagini, ecc.).

Un altro fattore fondamentale, sul quale i medesimi autori si basano, accettando piú o meno esplicitamente l’idea che la vita mentale si risolve in un intreccio di fattori organici e sociali, è il ruolo giocato dalla società ambiente: Wallon, la vecchia Scuola di Vienna (Ch. Bühler) e, attualmente, soprattutto gli psicologi sovietici, nel solco della tradizione di Vygotskij, hanno contribuito a mettere in evidenza un gran numero di fattori importanti a questo proposito. Anche da questo settore di studi, tuttavia, emergono due punti egualmente significativi. Il primo è che la disponibilità del bambino alle influenze adulte esiste, nella misura in cui riesce ad assimilarle. J.S. Bruner ha certo sostenuto che, in principio, si può insegnare al bambino qualsiasi cosa a qualsiasi età, ma un contraddittore, nel corso di un dibattito su questo tema, chiedeva quanto tempo sarebbe necessario per insegnare la teoria della relatività al proprio vicino che non fosse né un fisico né un matematico: alla risposta “tre o quattro anni”, lo stesso ha aggiunto: “d’accordo, ma se si incominciasse al livello del neonato, ne occorreranno forse uno o due di piú, e anche se ciò non fosse, tre o quattro anni ci riportano alla questione degli stadi” la cui successione può essere accelerata, non però soppressa.

In secondo luogo, è da considerare che, oltre al rapporto di socializzazione che si istituisce tra adulti e bambini, esistono le relazioni sociali dei bambini fra loro stessi, e queste si sviluppano solo gradualmente. Se le ricerche eseguite in passato sull’egocentrismo del linguaggio infantile non hanno conciliato tutte le opinioni, rimane acquisita però l’idea di una necessaria decentrazione del pensiero, controllabile cosí sul piano dei rapporti sociali (azioni in comune, giochi collettivi, ecc.) come su quello delle strutture del pensiero.

Il terzo fattore comunemente invocato è il peso dell'esperienza sullo sviluppo dell’intelligenza: il suo è un ruolo indispensabile e come tale riconosciuto da tutti gli studiosi. È necessario, tuttavia, fare una precisazione importante. Esiste, in effetti, un’esperienza che potremmo dire, in senso lato, fisica: quella cioè che consiste nell’agire sugli oggetti per derivarne delle conoscenze, attraverso un processo di astrazione che opera direttamente sull’oggetto stesso (colori, peso, ecc.). È il tipo di esperienza al quale ci si riferisce comunemente, e che costituisce l’oggetto specifico dell’empirismo. Ma esiste ancora, d’altra parte, un’esperienza che può chiamarsi logico-matematica e che gioca un ruolo assai importante nel periodo che precede l’apparizione delle operazioni deduttive: anche questo tipo di esperienza si esercita sugli oggetti, ricavando però le sue conoscenze non dall’oggetto in quanto tale, bensí dalle azioni per mezzo delle quali opera su esso; è, per esempio, il tipo di esperienza che interviene allorché il bambino verifica la commutatività, cambiando l'ordine degli oggetti e contandoli di nuovo; poiché l’ordine e la numerazione sono in questo caso dovuti esclusivamente all’azione stessa. Si è voluto contestare tale distinzione, sostenendo, per esempio, che l’ordine e il numero sono, in questo caso, negli oggetti in quanto tali: ma resta da spiegare allora chi ve li abbia messi: l’azione del soggetto o la loro natura fisica di per sé?

Sia questa distinzione, sia lo studio dell’intelligenza senso-motoria che si costituisce prima del linguaggio e dunque indipendentemente da esso, inducono allora ad ammettere che le operazioni intellettuali, quelle logico-matematiche in special modo, sono nate dall’azione (quella del riunire, per esempio) e consistono in azioni interiorizzate (l'addizione), il cui specifico carattere è la reversibilità (all’addizione corrisponde il suo inverso, o sottrazione), esprimendo esse le coordinazioni piú generali (la relazione consistente nella riunione non si applica agli oggetti, ma a quasi tutte le coordinazioni di azioni). Ma lo studio delle operazioni dimostra, soprattutto, che esse non compaiono mai allo stato isolato e sono solidali fra loro in sistemi d’insieme le cui manifestazioni sono, per esempio, una classificazione, una seriazione, la successione dei numeri, delle corrispondenze uno a uno o uno a molti, delle matrici, ecc. Dal punto di vista logico, queste totalità dipendono da note strutture di “gruppi”, “reticoli”, “corpi”, “anelli”, ecc., e l’analisi psicologica prova che tali strutture sono, in effetti, “naturali”, vale a dire che si costituiscono spontaneamente con le operazioni stesse, partendo d’altronde da strutture piú elementari di “raggruppamenti” vari.

È dunque indispensabile, oltre ai fattori comunemente assunti a spiegazione dello sviluppo, quelli cioè di maturazione, vita sociale o esperienza, considerare un fattore di coordinazione delle azioni, non innato, la cui presenza e funzione sono tuttavia indissociabilmente legate allo stesso processo di svolgimento funzionale delle azioni, e che si può definire come fattore di equilibrazione. Non si tratta di una bilancia di forze nel senso gestaltista, quanto proprio di un’autoregolazione, nel senso della biologia e della cibernetica, di un fattore cioè che dimostra il rapporto di natura “essenziale” che lega l’intelligenza a tutto quanto si viene scoprendo intorno alle molteplici omeostasie proprie della vita organica. L’equilibrazione, concepita in questi termini, deve inoltre basarsi sulle compensazioni attive del soggetto nei confronti delle modificazioni esteriori, e in tal modo rende agibile una spiegazione causale della reversibilità, altrimenti riducibile nei limiti di un carattere propriamente logico delle operazioni.

Ancora, tale fattore di equilibrazione non solo spiega il carattere sequenziale degli stadi individuati nel processo di costruzione delle strutture, ma è capace di fornire, nello stesso tempo, un’interpretazione probabilista della loro successione: un qualunque stadio S non si pone come il piú probabile all’inizio dello sviluppo, ma diviene il piú probabile, una volta che l’equilibrio sia stato raggiunto allo stadio S – 1, intanto perché le acquisizioni in S - 1 sono necessarie alle costruzioni in S, e d’altra parte perché un equilibrio già conseguito non concerne che un settore limitato, dunque parziale, incompleto, ed è perciò la condizione di nuovi squilibri ai quali appunto andrà la responsabilità del passaggio da S– 1 a S.

 

C. Nell’ambito della teoria dell’intelligenza, l’insieme di queste constatazioni sembra allora autorizzare alcune conclusioni, che è difficile non scorgere. La prima è che l’intelligenza è assai piú ricca e complessa degli aspetti di cui il soggetto prende coscienza, poiché quest’ultima non approda che ai risultati esteriori di essa, tranne nel caso in cui, in forza di un impegno riflessivo sistematico e retroattivo, la logica e la matematica giungano a formalizzare, senza tuttavia occuparsi in generale del problema delle loro origini, delle strutture le cui radici naturali si trovino già nell’intelligenza in atto. Quanto al soggetto medio, egli non conosce l’intelligenza se non nelle sue prestazioni, le strutture operatorie gli sfuggono allo stesso modo del resto di tutti, quasi, i meccanismi propri dei suoi comportamenti e, ancora di piú, del suo organismo. Le strutture esistono, dunque, ma tocca all’osservatore rivelarle e analizzarle: il soggetto le ignora, infatti, nella loro qualità di strutture, e di esse è capace di individuare solo le operazioni particolari da lui utilizzate (e nemmeno tutte: utilizza continuamente l’“associatività” e la “distributività”, senza sospettarlo, ed è spesso cosí anche per la commutatività).

Non appare dunque sorprendente che lo strutturalismo abbia impiegato tanto tempo per imporsi, seppure a titolo di tendenza i cui esiti possibili sono lontani dall’essere tutti raggiunti. [...] La psicologia della Gestalt ha scoperto delle strutture, ma ha voluto però tutte ridurle ad un unico tipo, facendone il carattere specifico della percezione e delle funzioni conoscitive inferiori ed escludendone l’applicazione all’intelligenza. Sono stati necessari la psicogenetica e l’individuazione dei diversi stadi preoperatori per rivendicare la specificità delle strutture intellettuali.

L’analisi psicogenetica, tuttavia, non vanta solo il merito di questo strutturalismo. Un altro servizio ch’essa rende è altrettanto essenziale, e si risolve nel costruttivismo. Le strutture operatorie dell’intelligenza non sono innate, si sviluppano anzi nel corso di un processo laborioso, che abbraccia i primi quindici anni dell’esistenza, nelle condizioni sociali piú favorevoli. E se si è negato che esse “giacciano” preformate nel sistema nervoso, nemmeno è da credere appartengano a priori al mondo fisico, nel quale non resterebbe che scoprirle. Le strutture, dunque, sono il risultato di una reale costruzione, che procede per gradi, su ciascuno dei quali è necessaria una preliminare ricostruzione dei risultati ottenuti al grado precedente, prima di ampliare il proprio ambito e di promuovere una nuova costruzione: le strutture nervose servono quale strumento all’intelligenza senso-motoria, ma questa è in grado di costruire una serie di nuove strutture (oggetto permanente, gruppo degli spostamenti, schematismo dell’intelligenza pratica, ecc.); le operazioni del pensiero, a loro volta, assumono a proprio fondamento l’azione sensorio-motrice dalla quale prendono origine, ma esse ricostruiscono ciò che era acquisito a livello pratico, elaborandolo in forma di rappresentazioni e concetti, prima di ampliare considerevolmente la gamma delle strutture iniziali; il pensiero riflessivo o astratto, finalmente, ristruttura le iniziali operazioni mentali, situando il dominio concreto in quello dell’ipotesi e della deduzione proposizionale o formale. Nell’adulto che crea, tale movimento di costruzioni incessanti si prolunga indefinitamente, e le forme di pensiero tecnico e scientifico ne sono l’indiscutibile testimonianza.

(L. Mecacci, Introduzione alla psicologia, Laterza, Bari, 1994,  pagg. 160-162; 164-169)