Il Kibbuz tradito
di Camillo Levi

da Rivista Anarchica on line

 

Nella seconda metà dello scorso secolo sorse e cominciò ad organizzarsi su scala internazionale il movimento sionista, tendente alla creazione di uno stato nazionale ebraico in Palestina. Nel 1897 a Basilea, sotto la presidenza di Theodor Herzl, si tenne il primo congresso sionista che segnò ufficialmente la fondazione del movimento sionista. La piattaforma programmatica del movimento fu brevemente riassunta come segue: "Il sionismo lotta per creare in Palestina una patria al popolo ebraico, garantita dal diritto pubblico: per ottenere questo risultato il Congresso propone i seguenti mezzi:
1) Promozione, secondo piani adeguati, della colonizzazione della Palestina da parte dei lavoratori agricoli ed industriali ebrei.
2) Inquadramento di tutti gli ebrei del mondo in organizzazioni appropriate, locali ed internazionali, in armonia con le leggi in vigore nei paesi ove esse vengono fondate.
3) Rafforzamento della coscienza nazionale ebraica.
4) Elaborazione delle pratiche necessarie per raggiungere il fine del "sionismo".
In pratica vennero formulati due progetti per la colonizzazione della Palestina, allora abitata da poche migliaia di ebrei ormai da secoli integrati nella popolazione palestinese. Un primo progetto "di massima" fu formulato nel 1904 dallo stesso Herzl e si rifaceva alla famosa frase biblica "dal Nilo all'Eufrate". Un secondo progetto "di massima", fu fatto circolare dalla delegazione sionista alla conferenza per la pace di Parigi nel 1919 e "riguardava l'occupazione di un territorio comprendente la Giordania, la striscia di Gaza, il sud Libano e il Sud-Ovest della Siria". I fautori della causa sionista, sostenevano lo storico diritto degli Ebrei a tornare a vivere uniti su quelle terre palestinesi dalle quali erano stati scacciati fin dalla distruzione del secondo Tempio ad opera degli invasori romani (70 d.C.).
La proposta sionista ebbe notevole rispondenza fra i milioni di Ebrei sparsi su tutta la terra, che mantenevano ancora una forte coscienza unitaria nazionale, non avendo per lo più voluto o potuto integrarsi nelle comunità in cui vivevano. L'esigenza di una riunificazione territoriale degli Ebrei nasceva anche dalla necessità di molte comunità ebraiche di sfuggire alle violente persecuzioni anti-semite, che periodicamente trovavano profonda condiscendenza da parte delle popolazioni locali, cui si voleva far credere che la causa di tanti mali economici e politici fosse da ricercarsi fra gli Ebrei, se non addirittura nella loro stessa esistenza. Accanto a valide esigenze di sopravvivenza fisica e "culturale" (nel senso più vasto del termine) vi furono altre motivazioni che spinsero a favorire la colonizzazione ebraica della Palestina. Fra queste è indispensabile sottolineare la difficile posizione in cui si vennero a trovare molti borghesi ebrei alla fine del secolo scorso, soprattutto nell'Europa Orientale, a causa del formarsi e del rapido consolidarsi delle nuove borghesie nazionali. Queste ultime, infatti, non potevano che guardare con profonda ostilità alla borghesia ebraica, che fu costretta a scegliere nei fatti fra lo strozzamento economico o l'espulsione.
L'atavica esigenza della grande maggioranza degli ebrei di ritrovare sicurezza in una loro propria comunità venne quindi ribadita, rafforzata ed infine strumentalizzata dal movimento sionista. Fin dai primi del Novecento fu favorita quella colonizzazione ebraica della Palestina che portò, già prima del 1914, all'insediamento di oltre 110 mila ebrei su un terreno in parte desertico ed in parte popolato da arabi palestinesi, che vennero progressivamente scacciati dalle loro terre con la duplice violenza dei soldi e delle armi.
Lo slogan di Israel Zanwill "Una terra senza popolo per un popolo senza terra", che esprimeva la profonda esigenza di sicurezza di tanti milioni di ebrei sparsi per il mondo, si rivelò un'illusione ed una mistificazione nella misura in cui la Palestina non era solo terra desertica, ma una terra popolata da arabi palestinesi.
Il sionismo mostrò così il suo vero volto nazionalistico e sopraffattore nel non voler prendere atto della presenza di altri uomini, di altri popoli e di altre culture sulle terre che furono oggetto della colonizzazione ebraica. Il problema dell'esistenza di una popolazione araba sul suolo palestinese, già ignorato da Theodor Herzl nel suo libro "Lo stato ebraico", viene risolto dal sionismo nella tipica maniera imperialistica, con l'integrazione forzata o preferibilmente con l'allontanamento degli arabi dalla Palestina.
"Se Dio vuole che noi torniamo nella nostra patria che ci ha dato la storia, noi dovremo agire come rappresentanti della civiltà occidentale, e dovremo portare in questo disgraziato angolo dell'Oriente, pieno di sventure, le nostre usanze saggiamente elaborate in Occidente". Anche questa affermazione, tratta dalle memorie di Theodor Herzl, è indicativa della maniera diretta con cui il sionismo, come ideologia e come movimento politico, sia stato fin dall'inizio servo fedele, seppur parzialmente autonomo, delle esigenze economiche, politiche e culturali di alcune grandi potenze imperialistiche occidentali.
Non è possibile comunque definire in blocco imperialista la colonizzazione ebraica della Palestina. Imperialista è infatti l'ideologia sionista che servì da copertura a buona parte dell'immigrazione ebraica, imperialista è stato il comportamento di molte comunità ebraiche nei confronti degli arabi palestinesi scacciati brutalmente dalle terre in cui vivevano, imperialista è naturalmente lo stato di Israele, che ha ufficializzato la colonizzazione ebraica e ne ha cancellato ogni aspetto positivo. Il nostro rifiuto di considerare negativamente tutta la presenza ebraica in Palestina nasce dalla coscienza che in molte collettività ebraiche (i famosi "kibbuzim") fu chiara fin dall'inizio la prospettiva socialista ed internazionalista in cui si sarebbe dovuto porre l'intero popolo ebraico per non diventare a sua volta da oppresso oppressore, da perseguitato persecutore. Per i rivoluzionari ebrei russi, e di altri paesi dell'Europa orientale, giunti in Palestina nel secondo e terzo decennio del nostro secolo, per esempio, le collettività autogestite create nel deserto, o nelle poche zone fertili vicino a Gerusalemme, nella valle del Giordano e presso il lago di Tiberiade, erano precisi strumenti di costruzione rivoluzionaria libertaria, e per loro non può certo valere il medesimo discorso e la medesima critica negativa che facciamo dell'intero movimento sionista.
Il fatto che l'autogestione libertaria in molti kibbuzim sia stata svisata e successivamente sconfitta, e che il nazionalismo abbia pesantemente schiacciato e tuttora schiacci qualsiasi concreto discorso internazionalista all'interno di Israele, non può indurci a tralasciare di seguire con la massima attenzione la nascita ed il difficile sviluppo di autentiche istanze libertarie ed internazionaliste tra le minoranze politiche ed etniche in campo israeliano. Così come il fatto che oggi i kibbuzim altro non siano diventati che avamposti militari e punti di sostegno dell'imperialismo sionista in Medio Oriente non può esimerci, anzi deve spingerci allo studio di quell'esperienza collettivistica ed autogestita che resta una pagina positiva incancellabile nella storia del popolo ebraico.
Non dunque pura erudizione o vana speranza di resurrezione dell'esperienza stessa, ma la chiara coscienza che solo la pur lontana prospettiva di una società antistatale formata da libere comunità autogestite, in cui vivano e lottino uniti palestinesi arabi ed ebrei, può realizzare quella dimensione umana, e perciò stessa anarchica, del problema palestinese. Su questo terreno l'auspicata collaborazione fra rivoluzionari israeliani e palestinesi è a nostro avviso indispensabile fin da oggi, per battere sul nascere qualsiasi proposta politica che fondi la propria legittimità sul principio nazionale: contro ogni prospettiva sionista o panaraba, per la rivoluzione libertaria in Medio Oriente.

Camillo Levi