La cinghia di trasmissione
di Andrea Papi

 

Il sindacalismo, supporto di massa dei partiti, è morto. Resta ancora in piedi la mastodontica macchina sindacale puntello del sistema.

 

Le ultime lotte selvagge degli autoferrotranvieri, condotte con grande determinazione fuori e contro le regole del sistema di potere imperante, hanno riportato in auge le problematiche da sempre irrisolte delle lotte sindacali, imbavagliate da troppo tempo in un recinto conservatore che vuole ridurre qualsiasi struttura rappresentativa delle basi sociali a meri strumenti, garanti di perpetuazione del sistema stesso. La loro forza d’impatto è diventata immediatamente un’occasione irripetibile per riflettere a fondo sulle questioni sindacali.
Considerando anche un’altra questione, senz’altro meno dirompente e soprattutto continuamente elusa, ma molto più importante per il senso profondo che contiene, penso che sia possibile discutere e riflettere con serenità del senso, della qualità e dei compiti inerenti la lotta sindacale. Fortunatamente, infatti, sembra decaduto in modo definitivo il luogo comune diffuso in ambito sinistrese che la classe operaia, in quanto tale, sia una classe rivoluzionaria, portatrice in sé, per le condizioni sociali ed economiche che è costretta a subire, di una tensione e di un messaggio forieri di emancipazione e di liberazione. Il che non vuol dire che non continuino ad esistere individui, impegnati sul fronte della “lotta di classe”, come insistono a definirla, che ancora la sostengono. Ma questa è un’altra storia. Sono infatti convinto che dovrà passare ancora diverso tempo prima che ci si liberi definitivamente di questa lettura ideologica sulla realtà, la quale, in quanto appunto mera rappresentazione ideologica, magari inconsciamente, tende ad essere sacralizzata da chi la sostiene, fino al punto da essere vissuta come una cartina di tornasole per giudicare aprioristicamente cosa si deve o non si deve fare.

 L’ermeneutica leninista

Molto accreditato fino a qualche tempo fa, questo luogo comune aveva preso origine da una visione presa in prestito da un’interpretazione specifica della dottrina marxista, il cui principale esponente teorico si può far risalire a Lenin. L’ermeneutica leninista del dettato marxiano, in linea ortodossa con lo storicismo determinista di Marx, afferma che, siccome la storia è una determinazione data dalla lotta tra due classi contrapposte e inconciliabili, con l’avvento del capitalismo tutto ruota intorno allo scontro tra la classe borghese, detentrice del capitale e del potere su questo, e la classe operaia, strutturalmente espropriata della sua forza-lavoro e sfruttata dalla classe capitalista. Il vero rivoluzionario, cosciente di questa determinazione, agisce per far insorgere la classe operaia, fino a portarla all’abbattimento del potere borghese, con lo scopo di prendere a sua volta il potere, che sarà poi costretta a difendere attraverso l’instaurazione di una sua dittatura, la famosa dittatura del proletariato, unico vero interesse, ideologicamente riconosciuto ed ammesso, della classe operaia stessa.
Sempre secondo dottrina, affinché si possa realizzare una simile strategia legata al decorso necessitante della storia, diventa indispensabile che il proletariato, in quanto classe, sia cosciente del proprio ruolo. Secondo Lenin, che nel Che fare?, uno dei suoi scritti più famosi, è estremamente chiaro, la classe da sola non ha questa coscienza né può averla, altrimenti non continuerebbe a permettere alla borghesia di opprimerla e di sfruttarla. Sorretto da questa certezza definisce allora quale sia il ruolo storico del partito rivoluzionario, ovviamente il suo quello bolscevico: il partito è il vero ed unico detentore della coscienza rivoluzionaria che invece manca alla classe. Quindi il partito ha il compito, sempre storico (quasi tutto nella convinzione dottrinale marx-leninista acquista una rilevanza storica), di trasmettere ai proletari quella coscienza che loro non riescono ad avere. Ne consegue che, al di là che lo vogliano o no, che ne siano coscienti o no, il partito deve guidarli e dirigerli, perché appunto lui e non loro sa cosa loro debbano e possano fare. Volendo essere ironici, viene spontaneo pensare che al posto del dogma di dio c’è il dogma di una determinata visione della storia, quindi una chiesa, i dirigenti di partito, che si autolegittimano quali unici interpreti della ortodossia rivoluzionaria.
Con questa chiarezza ideologica, sempre nel Che fare?, Lenin allora definisce quale debba essere il rapporto organizzativo tra il partito e la classe. Siccome il partito è l’unico che ha le idee chiare su ciò che vuole, ma siccome al contempo per realizzare il suo progetto rivoluzionario ha bisogno che le masse operaie lo seguano, ha necessità di esercitare il proprio potere decisionale su di esse. Così identifica nel sindacato l’organizzazione di massa indispensabile per guidarle. Ma perché tutto ciò avvenga, il sindacato dev’essere una struttura dipendente dal volere del partito, cioè guidato dai professionisti della politica partitica. Due sono allora i livelli organizzativi, l’organizzazione specifica, cioè il partito, e l’organizzazione di massa, cioè il sindacato, ma con un’unica dirigenza. E la definizione che ne dà è che il sindacato dev’essere la cinghia di trasmissione tra il partito e le masse, strumento dunque di manovra politica, non di autodeterminazione.

 Fallimento del bolscevismo

E così fu fatto. Il sindacato, che da tempo era comunque già luogo di intromissione delle varie forze politiche di ispirazione socialista e repubblicana per dominarlo, con l’intromissione della grande determinazione di questa teorizzata pratica strumentalizzatrice diventò fino in fondo, purtroppo, una cinghia di trasmissione tra le masse operaie e le dirigenze partitiche. Ne conseguì che oltre il cosiddetto sindacato di classe, tradizionalmente legato alla sinistra storica, si formarono anche sindacati espressione di forze politiche estranee, o addirittura ostili, alla strategia della lotta di classe. Nel suo lungo e travagliato cammino il movimento operaio, che, preso coscienza di sé, per difendersi dallo strapotere padronale e per esercitare la propria solidarietà, in origine aveva cominciato ad organizzarsi autonomamente, con le leghe, i fasci, le cooperative, in modo da non trovarsi alla mercé dei suoi sfruttatori e da poter imporre i propri diritti, con la sindacalizzazione ideologizzata gestita dalle dirigenze partitiche smise di essere lo strumento di se stesso, diventando invece uno strumento privilegiato di lobbies politiche.
Dopo il fallimento della strategia bolscevica, che è stato a tutti evidente con la caduta del muro di Berlino nel 1989, di fatto la cinghia di trasmissione ha smesso di avere senso. Le dirigenze partitiche che ne dovevano usufruire quasi ovunque si sono spaccate e frazionate, cancellando così l’esistenza dei partiti portatori della coscienza di classe, mentre le strutture sindacali, che esistevano per realizzare quella strategia, si sono trovate orfane delle organizzazioni specifiche per le quali avrebbero dovuto svolgere il compito “storico” di cinghia di trasmissione. Se le scelte umane fossero coerenti, logica avrebbe voluto che si sarebbero dovute sciogliere, magari tentando di mettere in piedi autentiche organizzazioni operaie. Ma le poltrone hanno sempre avuto un fascino sinistro. Così, pur essendo decaduto il motivo della loro esistenza, gli apparati sono rimasti in piedi, in alcuni casi più forti di prima, e, non più dediti alla rivoluzione di classe, hanno ora tutto il tempo per dedicarsi ad imbrigliare le grosse fette del movimento operaio di cui continuano ad essere i dirigenti, per rafforzare il proprio potere e la propria influenza di lobbies. Prima lo imbrigliavano all’interno dei loro assiomi ideologici, ora lo imbrigliano per portare avanti i propri interessi di apparato e la propria politica di influenza all’interno del sistema di potere vigente.
Bisogna tener presente che quando si parla di lotta di classe non ci si riferisce, come qualcuno ingenuamente potrebbe intendere ed altri furbescamente far intendere, alla lotta che legittimamente conducono una o più categorie socioeconomiche per il trionfo delle proprie sacrosante istanze, ma alla visione ideologica di stampo marxista-leninista cui sopra accennavo. La lotta di classe è la lotta che s’inserisce nella dinamica dialettica dell’inconciliabilità strutturale tra borghesia e proletariato, secondo cui quest’ultimo, cioè la classe operaia, è considerato la classe per eccellenza, ritenuta in sé rivoluzionaria. Tutto il resto della società vi è visto in second’ordine, parte di una dinamica funzionale solo a far trionfare la classe di riferimento, che ovviamente, secondo dottrina, viene necessariamente diretta dalla dirigenza partitica che deve prendere il potere. Non si tratta perciò di una lotta per la rivoluzione sociale, per la conquista dell’emancipazione di tutta la società, come per esempio sostengono in particolare gli anarchici, ma di una rivoluzione classista, per la presa del potere da parte di una struttura dirigente partitica in nome di un’unica classe sociale, considerata privilegiata nella dinamica storica rispetto a qualsiasi altra categoria socioeconomica.
Gli anarchici sono convinti che la lotta per l’emancipazione non può essere legata ad una visione che privilegia una classe in particolare, considerata destinata, attraverso i suoi dirigenti, ad imporre la sua supremazia al resto della società. Al contrario sostengono che la lotta per l’emancipazione investe l’intera società, comprendente tutte le sue categorie socioeconomiche ed i suoi componenti, e mirano ad eliminare le strutture che mantengono i privilegi, il dominio, le ingiustizie e lo sfruttamento, al fine di realizzare il massimo possibile di uguaglianza e di libertà. Quella a cui aspirano, per cui agiscono e pensano gli anarchici è una rivoluzione sociale, non classista, perché non si riconoscono nella determinazione dialettica della lotta di classe, considerata idealista, mentre sono convinti che ogni trasformazione radicale potrà avvenire solo se gli esseri umani lo vorranno, non certamente perché inscritta in presunte leggi storiche. Così agiscono non per far trionfare una classe in particolare su tutte le altre, ma per il superamento della logica classista in nome della solidarietà sociale e del superamento delle divisioni di classe.

 Parte integrante del sistema

Oggi ci troviamo dunque sia con un sindacalismo del tutto monco, perché apparentemente forte, almeno da un punto di vista quantitativo, ma allo stesso tempo erede di una strategia rivoluzionaria che è stato costretto a rinnegare, sia con un movimento operaio in balia degli eventi e dei pescecani strumentalizzatori, perché da una parte ha perso la funzione storica che era stato indotto a credere di avere e dall’altra continua ad essere espropriato della propria autonomia. Gli apparati delle dirigenze sindacali, forti del potere di controllo acquisito, conducono ormai da tempo una politica fondata sulla concertazione e sull’accordo con i rappresentanti del sistema di potere dominante, funzionale esclusivamente alla conservazione del proprio ruolo. In questo senso sono a tutti gli effetti parte integrante, ormai divenuta componente essenziale, del sistema stesso. È per questo che nei confronti delle masse operaie da loro dirette non possono che svolgere sostanzialmente funzioni di contenimento e d’imbrigliamento.
Appare evidente che una tale situazione non poteva né può proseguire nella tranquillità, dal momento che le dirigenze sindacali tradizionali sono vissute sempre meno come rappresentanti legittime dei lavoratori, sempre di più come megastrutture a sé stanti, cui affidarsi perché mostrano un grande potere di protezione. Al contempo le loro scelte e la loro politica danno continuamente la sensazione di confermare lo status di insoddisfazione generale che sempre di più avviluppa tutti noi dipendenti e sfruttati, quindi di svolgere un ruolo di sostanziale conservazione dello stato di cose presente, che piace sempre meno alla gran massa di chi non conta ed è costretto a fare i conti mese per mese. Non rappresentano più il sol dell’avvenire e nello stesso tempo non offrono nessun altro sogno capace di farci desiderare l’emancipazione. Appaiono soltanto strumenti di mantenimento dello stato attuale, con qualche debole possibilità di miglioramento, ancora ritenuti dalla gran parte dei lavoratori come un argine efficace ad un sempre incombente peggioramento. Troppo poco per organizzazioni che dovrebbero far trionfare le istanze degli sfruttati e dei sottomessi.
Non potevano non sorgere strumenti sindacali alternativi e contrapposti a simili gerontocrazie, per cui da qualche decennio lentamente si sono formati diversi organismi autonomi, che passano sotto il nome di sindacalismo di base e che ultimamente hanno cominciato a far sentire la loro voce ed a mostrare la loro combattività e la loro forza. Rappresentano il bisogno di autonomia compresso che finalmente ha cominciato a trovare la via e le forme per esprimersi. E le recenti lotte improvvise degli autoferrotranvieri sono state una vera piccola deflagrazione, capace di dare un primo significativo scossone destabilizzante all’immobilismo contrattativo e concertativo dei tre dinosauri imbalsamati CGIL, CISL e UIL. Sono stati un vivido esempio rivitalizzante, che hanno spinto a riflettere, se non tutti, un gran parte dei lavoratori su che cosa si possa fare per uscire dall’impasse e dal soffocante senso d’impotenza che come una morsa ci attanaglia tutti da troppi anni. Sono stati un inizio, una goccia di piombo che, perforando con brusca vitalità la superficie melmosa dello stagno conservativo, ha cominciato a produrre la dilatazione a piccole onde in progressione sempre più ampia di cerchi concentrici combattivi e vogliosi di esistere.
Ma attenzione! Se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, non è però affatto vero che qualsiasi cosa poi si farà durante il giorno del buon mattino sarà comunque sempre buona e fulgida come aveva fatto sperare. Tutto poi dipende da ciò che effettivamente verrà fatto. Se i nuovi organismi emergenti ed insorgenti della rinnovata autonomia operaia si faranno prendere la mano, c’è il rischio serio di ripiombare in breve nello stagno conservativo, accompagnato dal pericolo di rimanerci ancora più oppressi di prima dal soffocante senso d’impotenza. Saranno inevitabilmente fottuti, per esempio, se verranno presi dalla voglia e dalla foga di diventare i sindacati sostitutivi di quelli esistenti nel comando delle masse, attivando una spietata concorrenza alla ricerca di adesioni per dimostrare la propria forza e la propria potente capacità di nuovi dirigenti, pensandosi più rappresentativi di quelli tradizionali e più vicini alle istanze ed ai bisogni della base. Se ciò avvenisse si costringerebbero a diventare semplicemente altre nuove sigle poco significanti, semoventi nel magma sempre più inquinato di un sindacalismo inconcludente dal punto di vista di un vero ed efficace cambiamento delle condizioni e della coscienza generalizzate.

 Restituire una vera autonomia

Ciò che dovrebbero volere e riuscire a fare è innanzitutto un’unificazione ecologica, un’unità cioè rispettosa e fiera delle diversità che la comprendono, avulsa da qualsiasi forma di uniformità ideologica, dove le differenze d’impostazione siano considerate e vissute come reale ricchezza capace di dare impulso al pensiero ed alla volontà collettiva e solidale dell’azione. Dovrebbero trovarsi uniti in intenti comuni, da perseguire e tentare di realizzare proprio usufruendo della molteplicità di idee e di visioni che li caratterizza. Uniti nell’intento principe di restituire concretamente e realmente al movimento dei lavoratori una vera autonomia, dove non dovrebbe trovare spazio la volontà di dirigerlo, come invece fino ad ora è stato fatto.
Dovrebbero inoltre abbandonare ogni residuo, anche involontario, della vecchia e superata logica classista che mira a prendere il potere, per riappropriarsi di metodi autogestionari, che cioè rifiutino di essere diretti dall’alto da qualsiasi burocrazia o struttura dirigente. L’azione sindacale dovrebbe essere concepita come un’azione volta a rafforzare la solidarietà, la difesa e l’imposizione dei diritti operai, gestita direttamente in prima persona dagli operai stessi. Attraverso un metodo organizzativo libertario, cioè orizzontale e rispettoso delle differenze di qualsiasi tipo, che mira ad instaurare pratiche di uguaglianza e di reciproco riconoscimento delle diversità, dovrebbe servire al contempo ad esercitarsi, secondo una logica della molteplicità delle sperimentazioni, per rendere operante in vari modi possibili l’alternativa di vivere ed organizzare una concreta società liberata e liberante, che finalmente riesca ad emanciparci da tutte le forme di sfruttamento e di sottomissione.
In definitiva si dovrebbe puntare a far si che il movimento operaio torni ad autogestirsi, rifiutando le politiche conservative degli apparati sindacali imperanti e dei partiti. A sua volta il sindacalismo di base, espressione di rivolta anticonservativa sorta spontaneamente negli ultimi anni, consapevole di questo senso finalistico di lotta al sistema di cose presente, dovrebbe diventare un unico movimento, che si ponga gli obbiettivi di restituire scelte e azione sindacale al movimento operaio e di far decidere i lavoratori direttamente senza intromissione di mediatori di professione, proprio per agire ai fini dell’altra società possibile, dove a decidere insieme dei nostri destini dovremmo essere noi e non loro.

 Andrea Papi