Intervista a Luce Fabbri
a cura di Giampiero Landi

Sono passati 53 anni da quando Luce Fabbri, ventenne, appena laureata con una tesi (inedita) sull'opera geografica di Eliseo Reclus, abbandonò definitivamente l'Italia per raggiungere i suoi genitori in Francia. Suo padre, Luigi, era stato infatti costretto ad espatriare qualche anno prima, per sfuggire alle aggressioni e alle persecuzioni fasciste. In Francia, però, i Fabbri rimasero ancora per poco, perché nel '29 l'espulsione di Luigi dalla Francia li costrinse, dopo una breve sosta in Belgio, ad emigrare oltreoceano a Montevideo, in Uruguay. Qui Luce fissò la sua dimora e qui ancora risiede.
Dopo la morte del padre (1935), Luce continuò la sua attività proseguendo fino al '46 la pubblicazione della rivista Studi Sociali, da lei in massima parte compilata, sostituita poi da una collana di opuscoli. Ha pubblicato inoltre: Gli anarchici e la rivoluzione spagnola, C. Frigerio, Ginevra 1938 (insieme con Diego Abad De Santillan); La libertà nelle crisi rivoluzionarie, Studi Sociali, Montevideo 1947; L'anticomunismo, l'antiimperialismo e la pace, Studi Sociali, Montevideo 1949; La strada, Studi Sociali, Montevideo 1952; Sotto la minaccia totalitaria, RL, Napoli 1955; Problemi d'oggi, RL, Napoli 1958. Ha pubblicato inoltre in lingua spagnola: Camisas Negras, Nervio, Buenos 1934; El totalitarismo entre las dos guerras, Buenos Aires; La libertad entre la historia y la utopia, Rosario De Santa Fe. Luce Fabbri ha collaborato per anni intensamente alla pubblicistica anarchica, in particolare a quelle uruguayana e argentina durante la guerra civile spagnola e a quella italiana (in particolare alla rivista Volontà). Durante la seconda guerra mondiale compilò in italiano Rivoluzione libertaria (5 numeri di un giornale da mandare clandestinamente in Italia) e, subito dopo, la pagina italiana di Socialismo y libertad, un periodico trilingue edito a Montevideo su posizioni socialiste antiautoritarie.
Per molti anni ha insegnato storia alle secondarie uruguayane e letteratura all'Università. D'argomento letterario ha pubblicato La poesia di Leopardi, Montevideo 1972, nonché vari studi più brevi su Dante, Machiavelli e Foscolo, e numerosi articoli di critica letteraria e sui problemi dell'insegnamento.
Da quel lontano 1928, Luce Fabbri è rientrata in Italia solo due volte, per brevi periodi. La prima fu nel '54, la seconda la scorsa estate: nel corso di questa sua recente visita (si è trattenuta in Italia un mese e mezzo) abbiamo avuto modo di incontrarla. Con questa anziana (73 anni) e lucidissima compagna abbiamo a lungo parlato della sua vita, delle sue esperienze e soprattutto del suo pensiero, formatosi alla scuola attenta e rigorosa di suo padre. Ciò che più ci ha colpito in lei è la feconda convivenza di un'eccezionale cultura storica e letteraria e di una massima apertura mentale verso i problemi del presente e del futuro. Certo la situazione politica uruguayana, soprattutto nell'ultimo decennio, ne ha accentuato l'isolamento, non solo rispetto alla situazione italiana e alle vicende del nostro movimento. Ma Luce Fabbri ha continuato la sua opera di studio, di rimeditazione delle vicende storiche e di analisi della realtà contemporanea, attingendo alle più diverse e stimolanti correnti del pensiero "critico".
L'intervista che pubblichiamo in queste pagine - realizzata, come la biografia di Luigi Fabbri, dal compagno Giampiero Landi - conferma, a nostro avviso, l'importanza del contributo che Luce Fabbri ha dato e ancor oggi continua a dare all'anarchismo. Basti ricordare che è stata lei una dei primi a sviluppare in campo anarchico una teoria organica della tecnoburocrazia, a partire dall'analisi comparata del fascismo e del leninismo/stalinismo: ne fa fede anche la citazione datata 1937 che abbiamo tratto da un suo scritto su Studi Sociali (le altre sono tratte invece dal volumetto Sotto la minaccia totalitaria del '55).
Il dato che maggiormente ci preme di sottolineare, in questa intervista, è la profonda tensione morale che l'attraversa e che sottende all'intera concezione anarchica di Luce Fabbri. Le considerazioni di suo padre e sue sulla violenza rivoluzionaria, per esempio, si collocano nel solco profondo e preciso dell'etica anarchica, che nulla deve concedere al violentismo di maniera, al ribellismo esasperato, alla mitizzazione della violenza. Il suo esplicito "desiderio" di arrivare ad una concezione non violenta e le obiezioni che continuamente si fa sono i due termini di una concezione equilibrata della violenza, tutta dentro alla problematica affrontata da Malatesta (ed in particolare dal Malatesta degli ultimi anni). La tensione che deriva da questo contrasto, lungi dal paralizzare l'efficacia dell'anarchismo, ne determina quella tensione etica che ne costituisce la prima ragion d'essere. Da queste pagine Luce Fabbri lancia dunque un messaggio di grande valore umano, sociale, anarchico.
Questo nostro apprezzamento di fondo per la concezione e l'opera anarchica di Luce Fabbri non può significare ovviamente incondizionata adesione al suo pensiero. Vi sono passi dell'intervista che non ci trovano d'accordo. La sua critica del ministerialismo spagnolo del '36, per esempio, fiacca: numerosi studiosi (Vernon Richards e Carlos Semprun Maura, per citarne solo due) hanno dimostrato che la questione era ben più profonda e complessa che quella di una scelta del momento pro o contro la partecipazione al governo; e la loro critica al ministerialismo si è mossa nella direzione, ben più proficua, di analizzare i meccanismi organizzativi e decisionali dell'anarchismo spagnolo. Un altro punto sul quale Luce Fabbri non ci convince è laddove si esprime in favore della difesa delle democrazie, delle istituzioni democratiche. L'istintiva necessità e la razionale volontà di battersi sempre e ovunque per il massimo di libertà possibile non deve essere confusa (anche se può momentaneamente esservi sovrapposta) con una strategia di difesa di quelle istituzioni democratiche che l'anarchismo ha invece il compito di demistificare. Anche la sua eccessiva fiducia nel cooperativismo ci trova freddi, per l'esperienza che ne abbiamo qui in Italia.
Abbiamo qui solo accennato qualche punto di dissenso, o comunque di necessario chiarimento, con alcune affermazioni di Luce Fabbri. Su altri argomenti (in primis quello già citato della violenza) le nostre concezioni sono sostanzialmente simili. Quel che è certo è che nelle sue risposte Luce Fabbri ha modo di affrontare alcuni dei nodi centrali del pensiero anarchico, sempre fornendo elementi utilissimi per un lucido ripensamento autocritico. La volontà di fondo che traspare dalle sue parole è quella di innestare sul "vecchio" tronco dell'anarchismo, ripulito dei rami secchi, i germogli più fecondi per assicurarne la massima vitalità. Saldamente ancorati al filone "centrale" dell'anarchismo storico (quello malatestiano, tanto per intenderci), ma al contempo spinti a svilupparlo ed arricchirlo alla luce delle mutate condizioni storiche e delle nuove acquisizioni del pensiero (psicologico, sociologico, ecc.), anche noi ci muoviamo da tempo su questa strada. La pubblicazione di questo servizio dovrebbe, a nostro avviso, stimolare il dibattito nel movimento anarchico, su temi quali lo Stato, la democrazia, la violenza, ecc.. Sarà possibile?

Quando morì Luigi Fabbri, Studi Sociali uscì con un numero quasi interamente dedicato alla sua figura. Di tuo apparve solo un articolo sul comportamento di tuo padre nella vita privata, in famiglia e in particolare coi figli. Anche successivamente hai scritto poco sulla vita di tuo padre. Perché?

Ho sempre avuto una ritrosia a scrivere di mio padre, per il timore di non riuscire ad essere completamente obiettiva nei giudizi. Solo rarissimamente le biografie di personaggi scritte dai figli riescono a raggiungere il distacco necessario per una valutazione storica. L'unico argomento su cui mi sento di parlare tranquillamente è appunto il comportamento privato di mio padre. L'articolo apparso in Studi sociali si intitolava "L'educatore". Credo che questa fosse una delle caratteristiche più notevoli di mio padre: la coerenza straordinaria tra le sue idee e il suo comportamento in famiglia. Ha sempre ritenuto che uno dei primi doveri di un anarchico sia quello di essere anarchico in famiglia, cioè il realizzare i propri principi nell'ambito ristretto della famiglia che è già una prima creazione. Noi non abbiamo mai sentito da lui una parola autoritaria. Quando ci diceva di non fare qualcosa, lo diceva sempre in forma di consiglio, e sempre aggiungeva: "pensaci, devi convincerti; non ti chiedo ubbidienza, ti chiedo di riflettere". In genere noi finivamo con l'accettare il suo consiglio. Mi diceva: "non leggere ancora questo libro, è prematuro", e io solitamente non lo leggevo, mentre molto spesso i miei compagni di scuola davanti a una proibizione leggevano di nascosto. Qualche volta mi sono anche ribellata e ho letto lo stesso: mi ha lasciato fare.
Nella sua attività di maestro mostrava la stessa sensibilità libertaria per il rispetto della personalità dei ragazzi. So che nell'aula i primi giorni incuteva un certo timore, perché aveva la voce potente, e che poco dopo invece gli volevano tutti bene e questo timore spariva completamente. Un episodio che può essere sintomatico risale ai primi anni del fascismo. Faceva lezione a Corticella e tra i suoi alunni c'erano parecchi figli di benpensanti che erano fascisti; i primi giorni questi ragazzi arrivavano con il distintivo fascista all'occhiello o con altri distintivi allusivi; dopo pochi giorni i distintivi sparirono tutti, senza che lui avesse mai - di questo sono ben sicura - accennato a questioni politiche in classe. Si trattava di una manifestazione di rispetto nei suoi confronti, indipendentemente da una sua richiesta. Era appunto l'effetto del suo prescindere da ogni ragionamento politico, da ogni accenno alla situazione che si stava vivendo in quel momento, che era angosciosa e che trascinava tutti. Cominciava la lezione, e già si viveva in un'atmosfera di serenità.

Tuo padre, pur non essendo un educazionista nel senso proprio del termine, ha dato sempre un notevole rilievo ai problemi educativi, occupandosi della pedagogia libertaria sia nei suoi aspetti storico-teorici, sia nelle realizzazioni sperimentali che venivano da più parti effettuate. Si può ricordare in proposito la collaborazione che egli stabilì nei primi anni del secolo con Ferrer. A tuo avviso si può parlare di una perfetta concordanza con Ferrer, oppure vi erano diversità sul piano teorico e pratico?

Direi senz'altro che vi era una certa diversità di vedute. Vi era una concordanza sui problemi fondamentali, però con sfumature differenti. Anzitutto mio padre preferiva la scuola pubblica: pensava che quando si può, è meglio lavorare nella scuola di tutti. Naturalmente le condizioni della Spagna erano molto diverse da quelle dell'Italia. In Italia non c'era la scuola confessionale, quindi i problemi erano diversi. Probabilmente su quel piano non c'era una vera differenza, ma solo una diversità di ambiente, di possibilità. Poi direi che mio padre era meno positivista, meno sicuro dell'infallibilità della scienza, più eclettico; su certi problemi era più agnostico che negatore.

Luigi Fabbri ha svolto un'attività straordinaria, oltreché con libri e opuscoli, con una produzione giornalistica che si è susseguita per tutta la vita, e sempre a un notevole livello. Prima di inserirsi nella scuola, tentò anche di fare del giornalismo la sua professione. Per quale motivo rinunciò a questo progetto?

Aveva una capacità di lavoro fantastica. Scrisse per un certo periodo anche per "Il Messaggero". Abbandonò la professione perché ad un certo momento si accorse che il vivere della penna implica non essere indipendente in quello che con la penna si dice, e che bisogna avere un'altra fonte di guadagno per potere scrivere esattamente nel senso delle proprie idee. Arriva un momento in cui chi paga si attribuisce diritti anche sul contenuto. D'altra parte, sul terreno dell'attività specificamente anarchica, avvertiva il rischio di diventare un militante di professione. Ha sempre consigliato ai giovani compagni che volevano lasciare tutto per dedicarsi alla propaganda e all'azione militante, di continuare a studiare, di cercare di imparare bene il mestiere, per avere un lavoro e per non dovere dipendere dal movimento per la continuità della propria esistenza. Lui ha dovuto in alcuni momenti dipendere dal movimento. Quando siamo arrivati in Sud America, evidentemente, nei primi tempi ha vissuto grazie alla sua collaborazione alla "Protesta"; però ha cercato immediatamente altre fonti di guadagno col proprio lavoro di insegnante, e quando non potè, si mise a vendere libri. Voglio aggiungere che non era affatto un buon oratore. Aveva una straordinaria scioltezza con la penna, ma non altrettanto con la parola. In fondo era timido. Però ricordo che qualche volta ha parlato in pubblico. Nel primo dopoguerra, all'epoca dei comizi, anche lui prendeva la parola, e inoltre parlava nelle assemblee e nei Congressi, per esempio quando si fondò l'Unione Anarchica Italiana.

Leggendo gli scritti di Luigi Fabbri è possibile notare una profonda conoscenza del Risorgimento italiano, nei suoi personaggi e avvenimenti, e una notevole simpatia, non esente ovviamente da critiche, per i rappresentanti delle correnti democratiche e repubblicane risorgimentali: non solo i federalisti Cattaneo e Ferrari, ma lo stesso Mazzini. Che peso ha avuto questo nella formazione filosofica e culturale di tuo padre?

Egli riteneva che perlomeno in Italia le tendenze socialiste, soprattutto quelle di ispirazione libertaria, fossero una continuazione delle tendenze più libere del Risorgimento. Lui aveva origini mazzinane, come d'altra parte Malatesta. Di Mazzini mio padre aveva ripreso l'idea del dovere: l'idea che per conquistare e per mantenere la libertà, il dovere è più importante del diritto. Osservare i doveri è più importante che rivendicare i diritti: è un concetto mazziniano. Concepiva la vita come missione. Qui trova una spiegazione la sua tenacia, la spinta ad andare avanti anche nei momenti più cupi, quando sembrava che la Storia andasse in senso contrario ai suoi desideri. Il dovere è questo: data quella che si crede che sia la verità, il dovere è attenervisi malgrado tutto.

sindacalismo e libera sperimentazione

Qual era l'atteggiamento di tuo padre nei confronti del sindacalismo e dell'organizzazione operaia?

Fin dove rimontano i miei ricordi direi che mio padre non è mai stato sindacalista in senso proprio. Lui è stato sempre partigiano del sindacato unico. Sosteneva la necessità di lavorare in seno all'unione di tutti i lavoratori della categoria, facendo la propria propaganda dentro un organismo che raggruppasse i lavoratori di tutte le opinioni. Anche quando più spingeva per l'organizzazione operaia, si trattava di un'organizzazione non tipicamente anarchica, come invece avveniva per esempio in Spagna, dove esisteva un sindacalismo anarchico. Al contrario lui riteneva che la cosa migliore fosse la coesistenza distinta dei gruppi anarchici organizzati su base ideologica, e del sindacato organizzato su un piano esclusivamente operaio di lotta contro i padroni. È sintomatico che, pur apprezzando gli sforzi di Borghi e degli altri compagni entrati nell'USI, egli nel primo dopoguerra preferisse aderire alla C.G.d.L.. Negli ultimi anni, in Sud America, il problema si ripropose. Egli dovette sostenere polemiche con anarcosindacalisti locali, che vedevano nella F.O.R.U. (Uruguay) e nella F.O.R.A. (Argentina) la soluzione del problema di quella che chiamavano la "militanza rivoluzionaria". C'erano molti in Argentina che non ammettevano neppure i gruppi. Dicevano che il sindacato anarchico era sufficiente.

In quest'ultimo periodo forse, al di là delle concezioni teoriche sulla funzione dei sindacati, vi era anche una percezione della trasformazione che il sindacalismo e la classe operaia avevano subito nel corso dei decenni.

Naturalmente. C'era quello e c'era anche un'altra cosa: la convinzione profonda della necessità della tolleranza reciproca fra le diverse tendenze rivoluzionarie. Io credo che non fosse arrivato a un superamento completo del classismo, ma era su quella strada. Quando è morto era ancora giovane.

Nell'ultimo periodo della sua vita Fabbri ha dato molto rilievo al concetto della libera sperimentazione, inteso come coesistenza di più tendenze che confrontano sul piano dei fatti le loro creazioni e che di volta in volta possono anche collaborare insieme a imprese comuni, in uno spirito di tolleranza. Mi sembra che questa concezione egli non intendesse applicarla solo all'interno del movimento anarchico, ma anche nei rapporti tra le varie forze antifasciste.

Egli era decisamente pluralista. Nel campo della lotta, e anche della ricostruzione post-rivoluzionaria, non pensava a una soluzione unica dei problemi. Anche se fino all'ultimo si ritenne un comunista anarchico, non pensava che quella dovesse essere la soluzione unica, perché evidentemente se si presenta come soluzione unica deve essere una soluzione di tipo autoritario. Egli pensava ad esempio che la piccola proprietà agraria che non implica sfruttamento, soprattutto in regioni in cui essa risponde alle caratteristiche del suolo, come in montagna, non dovesse essere toccata; si poteva naturalmente fare opera di persuasione per un'eventuale collettivizzazione, ma finché non ci fosse uno sfruttamento di manodopera sottomessa, si doveva rispettare. L'uniformità gli ha sempre fatto paura.
Pur sostenendo il pluralismo delle tendenze, riteneva importante mantenere distinzioni precise, senza confusioni. Non ha mai amato le riviste e i giornali eclettici nel movimento, e le pubblicazioni da lui fondate erano anzi nettamente indirizzate. Quando gli proponevano di pubblicare articoli di tendenze diverse rispondeva: "Bisogna creare un altro giornale. Questo è stato fatto per sostenere questa linea". Se pubblicava qualcosa di altre tendenze la faceva seguire sempre da un commento, da una discussione.
Riguardo i rapporti con le altre forze antifasciste, ritengo che meriti di essere ricordata la risposta che egli diede all'inchiesta promossa da "Giustizia e Libertà" sulla tattica futura delle diverse tendenze, dopo che il fascismo fosse stato sconfitto. Egli sostenne che l'atteggiamento del movimento anarchico sarebbe dipeso a suo avviso soprattutto dalla libertà d'azione e di sperimentazione che le tendenze maggioritarie avrebbero concesso alle minoritarie. Nel campo antifascista l'anarchismo era evidentemente una tendenza minoritaria in quel momento.

di fronte a "Giustizia e Libertà"

Tuo padre seguì con attenzione e una certa simpatia, per quanto critica, la nascita, con "Giustizia e Libertà", di un movimento che si richiamava al socialismo di Rosselli. Potresti precisare il suo atteggiamento nei confronti di "G. e L."?

"G. e L." è sorta in un momento molto difficile, su un terreno molto vicino a noi. Noi eravamo già in America, ma erano i primi tempi, e si viveva ancora nell'atmosfera francese. L'esilio creava una fraternità speciale, è una questione biografica, non ideologica. Ha creato anche dei dissensi, come sempre succede, a volte molto violenti. Ma a Parigi, ricordo, c'era una comprensione reciproca tra le diverse tendenze antifasciste, o meglio tra le diverse persone. È evidente che la tendenza di "G. e L." era quella che più si avvicinava a noi. Erano socialisti, e al tempo stesso molto preoccupati della sussistenza della libertà in seno alla rivoluzione. Mio padre naturalmente avvertiva che bisognava stare attenti a non considerare "G. e L." come un movimento libertario, in quanto essa continuava a muoversi sul piano delle istituzioni tradizionali parlamentari, con idee molto nuove, però sempre nell'ambito di uno schema democratico tradizionale. Era questo che suscitava in lui certe diffidenze per il futuro ma aveva molta simpatia per le persone, per la loro buona fede e anche vedeva con molto piacere l'avvicinamento di questa tendenza, che era socialista, a posizioni di tipo quasi libertario, soprattutto in un momento in cui il dogmatismo comunista si faceva sentire in modo piuttosto forte ed esercitava un certo fascino perché sembrava più efficace nella lotta antifascista. Era un modo di uscire dalla strettoia di un assolutismo che suscita l'assolutismo contrario. Quello che preoccupava mio padre era ciò che "G. e L." avrebbe realmente fatto all'indomani di un movimento antifascista trionfante se fosse stata maggioritaria di fronte alle altre tendenze, e avesse avuto il potere, o una parte del potere nelle mani.

violenza, furto, banditismo

Tuo padre ha sofferto molto per l'esperienza dell'esilio? In Sud America è riuscito a inserirsi nell'ambiente dei compagni?

L'esilio gli è pesato moltissimo. Lui era attaccatissimo all'Italia, agli amici, alla sua biblioteca, e veramente doverli lasciare è stato un sacrificio terribile. A Montevideo aveva intorno a sé un gruppo di compagni soprattutto italiani, ed ebbe relazioni molto cordiali con numerosi altri. L'Uruguay era un paese accoglientissimo. Attraversava in quel momento condizioni difficili dal punto di vista economico, c'era una crisi molto forte. Noi avemmo subito appoggio morale e aiuto materiale da parte di compagni ed amici, da parte anche di persone che non erano proprie del nostro campo. Le nostre idee nell'Uruguay erano molto popolari, molto appoggiate. Avevano attorno a sé tutta un'aureola tradizionale, perché erano state il punto di partenza del movimento operaio. Avere delle idee significava essere anarchici. "Anch'io da giovane avevo delle idee", ci dicevano, e voleva dire "sono stato anarchico". S'è trovato però in dissenso teorico, con molti compagni latino-americani, sulla questione sindacale, cui ho già accennato. Poi c'è stato un motivo di tristezza supplementare per il fatto che dal gruppo anarchico italiano di Buenos Aires era partito un fenomeno di banditismo legato al nome di Severino Di Giovanni, che fu molto amaro, per lui anzi amarissimo. Voglio appunto approfittare dell'occasione per fare alcune precisazioni. È uscito un libro di Osvaldo Bayer su Di Giovanni. Si tratta di un buon libro, ma presenta mio padre come difensore di Di Giovanni, sulla base di una lettera che mio padre effettivamente scrisse, ma non tiene conto poi di tutto il resto, che evidentemente Bayer ha ignorato. Mio padre si oppose al fenomeno del banditismo in modo molto energico fin dal primo momento. Scrisse quella lettera in difesa di Di Giovanni, e partecipò nello stesso senso a un giurì posteriore, perché Di Giovanni stesso era stato accusato di essere un agente della polizia, con un'evidente falsità. Evidentemente era la passione del momento che aveva portato i compagni della "Protesta", il quotidiano anarchico di Buenos Aires, a esagerare. Volevano dire che Di Giovanni faceva il gioco della polizia. Questo era vero, perché metteva in cattiva luce il movimento e rendeva più popolari, o meno impopolari, le persecuzioni contro gli anarchici, ma ciò non significava che egli fosse un agente. In conseguenza di quest'accusa ci fu l'assassinio di Lopez Arango, il direttore della "Protesta", posteriore alla lettera di mio padre. Il fatto suscitò in mio padre una indignazione tale che egli scrisse un articolo in cui lo definiva un episodio di tipo fascista. L'articolo provocò minacce serie di Di Giovanni contro di lui. Mandò a dire che stesse bene attento, perché egli era pronto a passare il fiume, cioè ad andare da Buenos Aires a Montevideo. Credo quindi che non si possa sostenere che mio padre abbia difeso Di Giovanni, e meno ancora il fenomeno come tale. L'ha difeso sul terreno su cui pensava che fosse da difendere, cioè sul terreno della verità di fronte a un'accusa infamante che Di Giovanni evidentemente non meritava. Ma considerava addirittura disastroso per il movimento quel fenomeno.

A tuo avviso era soltanto una divergenza di opportunità politica, oppure vi erano anche motivazioni etiche?

Non era una questione di opportunità. Lui aveva scritto un opuscolo, "Infiltrazioni borghesi nell'anarchismo", in cui sosteneva che il furto è un'infiltrazione borghese, un fenomeno di parassitismo di tipo borghese nell'anarchismo. Aveva in realtà una ripugnanza di carattere morale per quel tipo speciale di sfruttamento che è il vivere senza lavorare appropriandosi del frutto del lavoro degli altri. In realtà si tratta di un fenomeno dello stesso tipo del capitalismo. E non solo: riconosceva che potevano esserci della generosità, del disinteresse e della purezza, come indubbiamente c'erano, in alcuni che approvavano e mettevano in pratica quel metodo, ma che esso rovinava gli altri; aveva un effetto pedagogicamente negativo sul movimento e soprattutto sui giovani che potevano entusiasmarsi per quella tattica. Inoltre un fenomeno di quel tipo attrae i delinquenti comuni che praticano il furto per interesse, e che vedono nel dichiararsi anarchici o rivoluzionari una giustificazione, un modo di continuare la stessa vita però in un'aureola particolare, di essere aiutati come vittime politiche quando cadono nelle mani della polizia.

Come collochi tuo padre nell'anarchismo? Ritieni che abbia portato dei contributi teorici al pensiero libertario?

Egli si considerava un divulgatore, e se si può dire così, un completatore e sistematizzatore del pensiero di Malatesta: un sistematizzatore, perché Malatesta non era sistematico, scriveva sempre sotto lo stimolo della necessità del momento. Mio padre più volte ha cercato di portarlo su un piano di elaborazione teorica sistematica, e Malatesta si è sempre schermito dicendogli: "per quello ci sei tu". Insieme formavano un tandem molto efficiente. Mio padre diceva di essere solo quello. Io non ne sono completamente convinta. Ritengo che egli abbia portato un contributo teorico, su un piano direi umanistico, di maggior contatto con le fonti anche letterarie. Malatesta non citava quasi mai; mio padre ha avuto sempre la tendenza a ricollegare. Nel 1926, durante il fascismo, quando ci furono vari sequestri successivi e praticamente Pensiero e Volontà non poteva uscire, compilò da solo un numero interamente pieno di citazioni di classici (Machiavelli, Foscolo, Dante ecc.) che naturalmente non potevano essere sequestrati, ed erano tutti inni alla libertà. Lui sentiva molto quell'aspetto, il collegamento con tutta la storia della cultura. Questo fa sì che il pensiero malatestiano acquisti in lui un tono personale. Poi direi che in quei due o tre anni che ha sopravvissuto a Malatesta, ha pensato molto sul problema della violenza, sulle radici morali dell'anarchismo. Era arrivato alla conclusione che l'amore è più anarchico della stessa idea di giustizia. Negli ultimi anni lavorava intorno a questo problema, ci pensava molto. Mi diceva che bisogna estendere alla società quel fattore che c'è nella famiglia, dove spontaneamente il debole ha dei diritti perché è debole. È protetto dagli altri che sono più forti. I genitori si preoccupano dei bambini perché questi non si possono difendere da soli. Questo amore reciproco dà un tipo di organizzazione naturale che rende possibile l'esistenza di tutti. È di lì che bisogna partire.
Vorrei dire un'altra cosa su mio padre. Credo che sia molto importante la sua campagna contro la guerra nel 1914-15. Parlando di lui, credo sia una cosa significativa e caratteristica la sua disperazione di fronte alla possibilità prima dello scoppio di una guerra in generale, e poi dell'entrata dell'Italia in guerra. Egli ha preveduto gli effetti della guerra, le sofferenze umane e gli sbocchi involutivi sul piano politico, e ha cercato di fare tutto quello che poteva per contribuire ad evitarla, in modo veramente disperato. Pensava che fosse una lotta in cui valeva la pena di bruciarsi tutti perché ci fosse risparmiata quella prova terribile. Mi pare che sia uno dei punti più importanti nella vita di mio padre, perlomeno un punto di vista biografico, perché lo scoppio della guerra ha costituito per lui una scossa profonda.

sotto la minaccia totalitaria

Nel tuo opuscolo "Sotto la minaccia totalitaria", dopo una chiarificazione dei termini del linguaggio politico che avevano perso nel corso delle vicende dell'ultimo secolo gran parte del loro significato, e dopo aver definito esattamente e storicamente che cosa significano liberalismo, socialismo, democrazia e anarchia, tu arrivi a sostenere che l'anarchismo è l'erede della parte migliore del liberalismo e del socialismo. Esiste una continuità, a tuo avviso, tra questo tuo giudizio e il pensiero di tuo padre? Condividi ancora quella tua opinione?

Direi di sì in tutti e due i casi. Io sento questa posizione come una continuazione del pensiero di mio padre. Eravamo d'accordo in quel campo. Lui mi ha educato sugli scrittori liberali, mi ha messo nelle mani i loro libri, mi ha interpretato la rivoluzione francese in senso liberale. In seno al processo rivoluzionario del secolo scorso c'è una tradizione giacobina e una liberale. Mio padre si riattaccava piuttosto alla tradizione liberale. Non vorrei che il termine inducesse a un equivoco. Nell'opuscolo definivo liberalismo "la dottrina che si preoccupa della difesa della personalità individuale e considerando lo Stato come un male (il liberalismo classico lo considerava come un male necessario) cerca di limitarne le attribuzioni, di diminuirne il potere". In Italia oggi, come quando scrissi l'opuscolo, liberalismo è termine ambiguo. Nell'opinione pubblica è diventato sinonimo di conservazione sociale, di difesa della proprietà privata e del capitalismo. Questo significato è abusivo. Il termine liberalismo non lo implica, e non lo ha implicato in passato. Diciamo che quelli che hanno ereditato il termine lo hanno ereditato male. Per fortuna in italiano abbiamo il termine "liberismo" per riferirsi alla libera impresa, o per meglio dire, all'impresa privata, che non è affatto libera. Quindi posso dire che quello a cui mi riferisco è un liberalismo che non ha niente a che vedere con il liberismo.

Anche il socialismo liberale che si ispira a Rosselli ha la pretesa di occupare lo stesso spazio, di essere la sintesi delle stesse due correnti di pensiero. Quali sono allora i rapporti tra socialismo liberale e anarchismo?

Secondo me l'anarchismo, come l'intendo io, come l'intendeva anche mio padre, e mi pare anche Malatesta, vede il problema in modo più chiaro. L'anarchismo è uscito dagli schemi tradizionali delle istituzioni democratiche sorte nel secolo scorso, a partire dalla rivoluzione francese, per mettere la questione su un terreno diverso, sgombro da tante eredità. Il socialismo liberale si ferma a metà, non porta il processo alle sue estreme e più coerenti conseguenze. Io trovo che il socialismo liberale, così come si è posto storicamente, è troppo legato al gioco delle istituzioni tradizionali. Il suo fine mi sembra più nebuloso. Ritengo possibile, probabile, che i metodi adottati possano portare i socialisti liberali fuori strada. Anche questo può marcare una differenza: la coerenza mezzi-fini che contraddistingue l'anarchismo. Non escludo però, e non lo escludeva mio padre, che ci possa essere una convergenza tra i due movimenti; questo dipenderà, più che dal movimento libertario, dal maggiore o minore distacco dei socialisti liberali dalle strutture tradizionali.

i ministri anarchici

Durante la rivoluzione spagnola taluni comportamenti della CNT-FAI, in particolare l'ingresso di ministri anarchici nel governo, provocarono aspre critiche nel movimento anarchico di tutti i paesi. Tu hai assunto all'epoca, e anche successivamente, un atteggiamento di sostanziale comprensione nei confronti di quei compagni spagnoli. Qual è precisamente la tua posizione?

Si è trattato appunto di comprensione, non approvazione. Evidentemente io ritengo che l'ingresso nel governo non è stato un atto anarchico; è stato uno di quegli atti di compromesso che si compiono sotto l'impero delle circostanze. È stato commesso in buona fede, con l'impressione di non poter fare altrimenti. È difficile per noi dire se sarebbe stato possibile o no fare altrimenti e non credo che noi che stavamo fuori, che non soffrivamo l'urgenza terribile del dilemma, e che non abbiamo fatto probabilmente tutto quello che si poteva fare per aiutare dall'esterno, abbiamo il diritto di condannare. Possiamo però osservare il fatto per trarne insegnamenti, e notare che è stata un'esperienza che ci dà ragione, in quanto gli anarchici al governo hanno sperimentato direttamente, a spese loro, la non creatività del potere. Pur essendo personalmente integri e dotati di buona volontà, i "ministri anarchici" non sono stati in grado di fare qualche cosa in senso rivoluzionario. Federica Montseny probabilmente ha realizzato qualcosa al ministero della Sanità, nel campo degli ospedali, dell'igiene, ecc., ma non sul terreno della creazione rivoluzionaria, della creazione di un mondo nuovo. Gli altri poi, in ministeri politicamente meno neutri, non hanno fatto assolutamente niente. Garcia Oliver ha fatto delle leggi, dei decreti, che sono restati lettera morta. In tutta la Catalogna e l'Aragona con le collettività è sorto un mondo nuovo, però dal governo non è stato possibile realizzare niente. Tutto si è ridotto a questo: occupare un posto che poteva occupare un altro che avrebbe potuto fare del male. Nel dar un giudizio, va tenuto conto del fatto che la decisione molto sofferta di entrare nel governo e di sciogliere il comitato delle Milizie, è avvenuta in un secondo tempo, quando la guerra civile si era trasformata in guerra internazionale, e i lavoratori spagnoli da soli non potevano più vincere. La guerra uccide la rivoluzione. Così è successo per tutte le rivoluzioni del passato. La guerra è sempre un fatto antilibertario, di per se stessa, perché crea la necessità di un'organizzazione in un certo senso totalitaria. Un clima di libertà non è un clima di guerra.

Tu sei stata la prima a introdurre nel movimento anarchico di lingua italiana lo studio del fenomeno tecnoburocratico. Già in alcuni articoli di Studi Sociali, e poi in tutti i tuoi opuscoli, esponi la convinzione che il mondo si trovi di fronte a una trasformazione decisiva: la fine del capitalismo tradizionale, e per certi aspetti della stessa democrazia tradizionale, e l'avvento di una nuova classe al potere, formata da tecnici e burocrati, con numerose varianti nei vari paesi. Un tipo di analisi che nel movimento anarchico in Italia verrà ripreso e sviluppato solamente a partire dagli anni '60 da gruppi inizialmente molto ridotti, arricchendosi col tempo di contributi sempre più articolati e complessi. Come arrivasti a quelle conclusioni?

Anzitutto mediante tutta una serie di letture: l'opera che più mi ha impressionata è "La rivoluzione dei tecnici" di Burnham; nel Nord America c'erano riviste molto interessanti; poi la corrente francese del "Movimento dell'Abbondanza" (Rodrigues, Valois, ecc.), che oggi appare in molti aspetti obsoleta, perché l'abbondanza non è stata affatto raggiunta, ma quando è nata ha suscitato una quantità di analisi collaterali sulle trasformazioni in atto; sempre in Francia, lo stesso movimento cattolico di Mounier, il personalismo, ha condotto analisi su questi problemi; infine, più tardi, è apparsa "La nuova classe" di Gilas. Io leggevo queste cose. Poi vi era l'osservazione della realtà, indipendentemente dagli studi. La crisi capitalista è stata analizzata in modo diffuso. Ci sono state discussioni tra economisti, sui giornali. Nell'Uruguay a un certo momento si sentì molto forte la necessità di studiare questi problemi. Si costituì un piccolo gruppo, il G.E.A. (Gruppo de Estudio y Accion Economico-Social) creato appunto per studiare i vari problemi in modo capillare e soprattutto locale. In Uruguay c'era un tentativo di statalizzazione molto accentuato, e cosa più interessante, era stato condotto in modo abbastanza decentralizzato. Volevamo studiare i trasporti, la produzione, ecc. sul piano locale, per trovare soluzioni locali. Pensavamo che in ogni località, in ogni paese, bisognava fare un lavoro di quel genere, per poi riunire e confrontare le esperienze, elaborando però anche tattiche differenti nell'azione e nella creazione perché ogni paese ha le sue proprie esigenze. Le grandi teorie, valide per tutti i paesi e per tutti i momenti, sono pericolose, rischiano di cadere nell'autoritarismo, se non si studiano le condizioni del momento e del luogo.

Ritieni ancora valida l'analisi tecno-burocratica? Pensi che costituisca una chiave di lettura attuale per quello che sta succedendo adesso nel mondo?

Io credo di sì, in quanto non era una chiave interpretativa legata troppo al momento. Credo che ci siano stati alcuni errori da parte mia. Io ho creduto per alcuni anni, ad esempio, a una soluzione prossima del problema dell'alimentazione ad opera della tecnica. Era un'idea completamente sbagliata, e gli avvenimenti successivi lo hanno rivelato. Ma questo non toglie nulla validità del concetto di fondo.

tecnoburocrazia e totalitarismo

Nei tuoi opuscoli stabilivi un legame tra tecnoburocrazia e totalitarismo. Dalla lettura sembra che per la democrazia non ci sia un futuro, e che la scelta sia sostanzialmente tra un socialismo libero o libertario, e il totalitarismo. Ritieni ancora valida anche questa parte dell'analisi, oppure pensi che sia possibile una via non totalitaria alla tecno-burocrazia?

Io non so se ho mai pensato che la tecnoburocrazia fosse fatalmente totalitaria. Rilevavo che c'era in atto una progressiva convergenza tra gli Stati di tipo capitalista e gli Stati che si definivano socialisti, verso un tipo di organizzazione totalitaria. Però non credo di aver mai pensato che quello fosse lo sbocco fatale dell'evoluzione in corso, e che non ci fosse la possibilità di una democrazia tecnoburocratica. Allora ritenevo che la democrazia fosse debole di fronte al progressivo potere dello Stato. Non che le istituzioni democratiche fatalmente degenerassero in totalitarismo, ma esse non avevano in se stesse la forza per resistere, e anche quando resistevano si rivelavano insufficienti. Era il caso, per esempio, della Spagna, dove la repubblica sarebbe stata completamente impotente se non ci fossero stati i sindacati operai; la struttura democratica spagnola contro il colpo di Franco non avrebbe resistito dieci giorni. Oggi vedo maggiori possibilità di sopravvivenza di una democrazia di tipo borghese, per come si sono svolti i fatti. In quegli anni si vedeva la fine del capitalismo come molto più prossima. Ora c'è il fenomeno del neo-capitalismo, che ha riportato sul tappeto alcune questioni che sembravano superate. In ogni modo anche allora io pensavo che valesse la pena di battersi contro il totalitarismo per la conservazione delle libertà fondamentali. Però io pensavo che le istituzioni democratiche non erano un baluardo sufficiente. Erano un baluardo debole. Può darsi che adesso le possibilità di sopravvivenza del mondo tradizionale siano un pochino aumentate. Le vecchie istituzioni hanno ripreso un po' di respiro. Non credo che sia nel senso di una sopravvivenza definitiva, assolutamente. Però esse hanno dimostrato più vitalità di quanto si riconosceva loro. Sarebbe una questione da studiare e da approfondire. In ogni modo mi pare che il problema per noi non sia molto cambiato. Abbiamo sempre di fronte il fatto che le classi in senso tradizionale non si sostengono più, che il proletariato come classe sta perdendo contorno, nel mondo contemporaneo la figura tradizionale dell'operaio sta quasi scomparendo, e quindi tutto, anche il vocabolario della lotta sociale sta perdendo attualità.

In questi ultimi anni abbiamo assistito al fenomeno del ritorno al governo di partiti conservatori in diversi paesi occidentali compresi gli Stati Uniti con la vittoria di Reagan. Si tratta di partiti che si caratterizzano per una lotta contro il Welfare State, o Stato del benessere. C'è in atto una tendenza a contrastare l'allargamento delle attribuzioni dello Stato nei campi della produzione, dell'assistenza, dei servizi sociali, ecc.. A tuo avviso questo fenomeno può essere considerato come una forma di resistenza da parte del capitalismo tradizionale nei confronti della tecnoburocrazia?

Può essere una trasformazione della tecnoburocrazia. Una presa di posizione diversa da parte della tecnoburocrazia. Non credo che si tratti tanto di una ripresa del capitalismo tradizionale, quanto di un ritorno a posizioni tradizionali tipiche del capitalismo da parte della nuova classe dominante. Il fordismo, ossia in parole povere, l'idea di allargare il mercato arricchendo gli operai, ha portato a una politica di assistenza da parte dello Stato, e ha provocato lo stesso sviluppo dello Stato, che lo porta ad essere quasi una classe sociale in se stesso, ad adempiere nuove funzioni in seno alla società, ad attribuirsi nuovi poteri. Questa politica ha urtato contro ostacoli, ha dovuto affrontare una crisi interna, a cui ora risponde con un ritorno a posizioni tradizionali. Mi sembra comunque che la linea di tendenza rimanga la stessa.

L'ultimo articolo tuo apparso su Volontà, nel n. 6 del 1978, si intitola "Natura anarchica del linguaggio e sua funzione liberatrice". Ultimamente tu hai dedicato molto interesse alla problematica del linguaggio. In questo campo esistono molte concezioni e diverse scuole. Tra gli studiosi del linguaggio a chi ti ricolleghi in particolare?

Devo premettere che il mio lavoro professionale si è svolto nell'ambito della storia e della critica letteraria. Non nel campo della linguistica, e neppure della filosofia della lingua. Quindi non sono una specialista, e quello che dico sul linguaggio non ha la pretesa di essere una teoria linguistica, di entrare nel merito delle discussioni delle diverse tendenze. A me il linguaggio interessa moltissimo, perché ci vedo la radice stessa della libertà dell'uomo, direi quasi dell'essenza dell'uomo come uomo. L'essere umano è definito dal suo linguaggio, che non è solo un veicolo, ma è la sua sostanza stessa. Non c'è differenza tra il pensiero e la parola. Non c'è un pensiero senza parole. Un'idea che non si sa esprimere è un'idea che non si ha chiaramente nella testa. C'è un rapporto d'identità, si può dire. Quindi il nostro interesse per la personalità umana è in fondo un interesse per questo aspetto, che è l'aspetto che permette di vederci, di sentirci reciprocamente. Mi sembra che il linguaggio sia importante per noi anarchici. Noi l'accettiamo in modo scontato, come si accetta l'acqua che beviamo o l'aria che respiriamo. Ritengo invece che sia importante pensarci sopra. Il linguaggio è insieme una struttura organica e una manifestazione spontanea; è insieme creazione individuale e creazione collettiva; è insieme norma e libertà. È la creazione più anarchica che ci sia nel campo delle realizzazioni dell'uomo, e nello stesso tempo si identifica con quello che l'uomo ha di più umano. È la definizione stessa di umanità. Per me questo è molto importante da un punto di vista nostro, in quanto mi pare che le nostre idee vadano alla radice stessa dell'umanità come tale. L'umanità è capace di creare in modo organico, vitale, continuativo, un ambito nel quale l'individuo è libero: libero nella misura in cui sa superare il condizionamento di tutti gli innumerevoli contributi che attraverso il linguaggio formano la sua personalità. Se si nega la libertà di linguaggio si nega l'uomo.

verso la nonviolenza, ma

Nell'articolo di Volontà di cui stiamo parlando, ci sono accenni che fanno pensare che tu propenda per una strategia non violenta. È così?

È da molto tempo che io "desidero" arrivare a una concezione non violenta e mi faccio continuamente obiezioni. Penso che la violenza sia eminentemente autoritaria, che generi sempre autorità, che anche quando è in certo modo una reazione obbligata, o quando è una violenza di ribellione, degeneri facilissimamente in autorità. Penso che la rivoluzione meno violenta è quella meno autoritaria. Quanto più si crea prima della rivoluzione, tanto meno violenta sarà la rivoluzione, per il fatto che già si sono create le condizioni del mondo nuovo anticipatamente; e quanto meno violenta è la rivoluzione, tanto meno autoritario sarà il suo sbocco, e più facile una vittoria nel nostro senso. Tutto questo l'ho sempre pensato. Ora gli ultimi sviluppi della realtà mondiale anche della situazione italiana, mi portano sempre più a pensare che il nostro terreno di lotta non è quello della violenza. Penso che non si può essere assoluti in questo campo. Una posizione assoluta la possono prendere solo coloro che credono in Dio, e lasciano a Dio la responsabilità di quello che succede, o si accontentano di stare in pace con la propria coscienza. Non credendo in Dio, e sentendosi responsabili, in certo modo corresponsabili di quello che succede, per azione o per omissione, riconosco che a volte si può presentare la necessità della violenza. Ci può essere una sorta di fatalità, di obbligo, la scelta è volta per volta.
Anche se non oso arrivare a un'affermazione assoluta di negazione della violenza, ritengo però che moralmente essa è negativa, da un punto di vista libertario porta all'opposto di quello che vogliamo, e date poi le condizioni della lotta attuale in cui le armi si fanno sempre più sofisticate e terribili, l'entrare sul terreno della violenza significa mettersi presto o tardi al servizio di blocchi di potenze, di forze oscure che noi non conosciamo, quindi uscire completamente dal nostro campo. Penso che la nostra strada è più una strada di sacrificio che di affermazione di forza. Non so se mi spiego. Tutti i movimenti e partiti che partendo da obiettivi socialisti e di liberazione umana si sono posti sul terreno della violenza, hanno fallito. Magari hanno avuto un successo apparente, come i bolscevichi, ma una volta conquistato il potere hanno realizzato il contrario di quanto dichiaravano. Nessuno che sia arrivato al potere, soprattutto con la violenza, ha fatto qualcosa nel senso delle sue idee. Sussiste il fatto bruto del potere: se si pensa che il trionfo sta nello stare al governo, allora sì, ma solo allora, si può parlare di vittoria. La violenza è forse talvolta una dolorosa necessità, ma quando si cede a quella necessità - e a volte non c'è altra strada - si ritorna indietro. La violenza in se stessa è un ritorno indietro. Oggi poi un'azione violenta richiede un'organizzazione autoritaria. Una preparazione rivoluzionaria di carattere insurrezionale richiede una militarizzazione. Io penso che al punto in cui sono arrivate le cose c'è una necessità quasi disperata di mettere la lotta su un terreno nuovo, che non sia il terreno dei nostri avversari, perché se ci mettiamo su quel terreno, sono più forti loro, e perché la violenza crea un circolo vizioso da cui è necessario uscire. Il terrorismo ci mantiene prigionieri in questo circolo terribile ed è naturale che, salvo eccezioni isolate, i movimenti libertari dei vari paesi gli siano rimasti estranei.

quale ruolo per l'anarchismo

Qual è, a tuo avviso, il terreno dell'anarchismo? Qual è il suo ruolo, la sua funzione nel mondo contemporaneo? Quale dev'essere la sua strategia?

Io penso che il nostro terreno sia quello della creazione dei germi di un mondo libero e della propaganda della tolleranza e della molteplicità: bisogna cercare che si ammetta attorno a noi l'esistenza della pluralità e della convivenza delle posizioni. Bisogna stimolare soprattutto la creazione di organi che possano essere domani i nuclei di una società libera. Per quello abbiamo bisogno delle libertà fondamentali, per quello credo che bisogna difendere la democrazia dove ancora sussiste, con tutte le sue debolezze, perché ci offre la possibilità di organizzarci, di creare comunità, di coordinare sforzi, di studiare ed eventualmente contribuire a rendere forti gli organismi spontanei, che possono essere domani utilizzati per un'organizzazione libertaria. Credo che il nostro compito sia di approfittare delle libertà di cui ancora si gode in una parte del mondo, per andare creando realizzazioni nostre. Bisogna attuare l'autogestione nella maggior misura possibile già nella società presente, perché si possa realizzare domani un cambiamento di struttura che sia il meno cruento, e quindi il meno autoritario possibile. Dobbiamo studiare e utilizzare tutti quegli organismi, esistenti già oggi, che non siano strumenti di sfruttamento e di dominazione, o che non lo siano necessariamente, e possano essere magari modificati e indirizzati nel nostro senso. Per esempio io ho fiducia nel movimento cooperativo, tanto di produzione quanto di consumo. So che in molti paesi, anche in Italia, il cooperativismo è strettamente legato ai partiti, ed è diventato quasi esclusivamente un fenomeno di integrazione capitalistica. Ritengo che questa degenerazione non sia affatto inevitabile, e che la nostra funzione sarebbe quella di vigilare all'interno delle cooperative perché esse non si trasformino in senso capitalistico. Certo le cooperative sono obbligate all'osservanza di certe forme del mondo capitalista perché non vivono isolate, però bisogna cercare che questi compromessi siano il più limitati possibile. In questo senso credo che un'azione nostra nel loro seno sarebbe positiva. Credo che anche il sindacalismo possa svolgere una funzione positiva, benché il sindacato abbia degenerato moltissimo, e si sia convertito in un organo di potere. Però, nella misura in cui noi possiamo influire sui sindacati, penso che essi siano da annoverare tra gli organi di una nostra società futura, purché non pretendano di averne il monopolio. In Spagna gli stessi sindacalisti anarchici riconobbero, tardi, che era stato un errore concentrare tutto nei sindacati. Concludendo, ritengo che oggi più che mai l'anarchismo abbia una ragione d'essere e una funzione. I compiti che ha di fronte sono immensi.
L'anarchismo si pone l'obiettivo dell'abolizione dello Stato, che è un punto finale che conserva la sua validità indipendentemente dal fatto se si può raggiungere totalmente oppure no. Io ritengo che ogni posizione ideale è un'utopia, non si può realizzare come è stata concepita, nelle condizioni ideali in cui è stata concepita. Una teoria è sempre relativizzata dalle circostanze concrete. Penso che l'anarchismo non sfugga a questo: esso non può realizzarsi così come noi lo concepiamo, nei termini di un fine ideale, ma possiamo solo avvicinarci a tale fine il più possibile. Nei limiti in cui tutto è possibile, cioè nei limiti di un'approssimazione, di un avvicinamento, penso che l'anarchia sia realizzabile. Ma l'importanza del nostro movimento non sta solo nella sua capacità realizzatrice; sta anche e forse soprattutto nel suo compito attuale e permanente di testimone d'una esigenza invincibile dell'essere umano, sta nella sua presenza attiva e inquietante, che agisce come un pungolo nel senso d'una sempre maggiore libertà, identificata (e non in contrasto) con una sempre maggiore giustizia.

Gli equivoci del socialismo

La socializzazione (non la nazionalizzazione) dell'economia è la via attuale della liberazione dell'individuo dalla tirannia delle esigenze economiche, spesso impersonale ma sempre opprimente. Questo significato liberale del socialismo - solo presentito nel secolo scorso quando il socialismo pareva la traduzione teorica naturale delle esigenze della classe operaia in lotta contro l'impresa capitalista ed il correlativo sistema del salariato - appare molto più chiaro in questo secolo, dopo l'esperienza dei monopoli economici padroni dello Stato e, assai più, dopo i diversi esperimenti di capitalismo statale che trasformano lo Stato in grande impresario monopolista e l'economia in uno strumento di governo.
La trasformazione che ha subita il mondo intorno a noi in questi ultimi trent'anni ha rimosso in profondità il contenuto della parola socialismo, che sembrava così semplice ai tempi eroici della Prima Internazionale. Ci muoviamo in acque torbide, che ancora non sono passate per il necessario processo di sedimentazione e di chiarificazione. Ma a questo processo tutti noi dobbiamo collaborare. Si tratta - ancora una volta - d'un lavoro che è non solo d'azione, ma anche di vocabolario. Però le definizioni le dà, sempre più chiare ed esatte, la storia che stiamo vivendo; tra l'altro essa s'è incaricata di delimitare il significato della parola socialismo, di mostrare per esempio, la gran distanza che separa la nazionalizzazione dalla socializzazione.
La causa principale del malinteso fu - nel secolo scorso - il predominio delle tendenze marxiste all'interno del movimento socialista, tendenze che basavano il loro programma su un'interpretazione generale della storia, in stretta relazione - come, d'altronde, il liberalismo capitalista - con i caratteri di quello speciale periodo che, con un po' di buona volontà, possiamo estendere a tutto il secolo XIX, ma che in nessun modo potrebbe riconoscersi nella nostra società d'oggi. Facendo consistere l'obiettivo del socialismo nella conquista del potere da parte della classe operaia e interpretando quindi la socializzazione come una statizzazione dell'economia, il socialismo marxista, tanto nel suo settore democratico e legalitario quanto nel suo settore rivoluzionario (che metteva la legalità fra i suoi fini seppure non fra i suoi mezzi), tendeva a rinforzare lo Stato, ereditando l'atteggiamento storico della democrazia giacobina ed allontanandosi dalla democrazia liberale. Le sue ultime derivazioni erano destinate ad essere totalitarie, come tendono al totalitarismo le ultime deviazioni del mondo capitalista, che s'inserisce nello Stato per altra via ma con lo stesso risultato.
Il non aver separato abbastanza nettamente il concetto generale di socialismo dalla teoria marxista, che è solo una delle sue formulazioni, dà un carattere confuso e provvisorio a tutte le intuizioni di socialismo liberale che si sono manifestate in questi ultimi trent'anni, quasi tutte come risultato dell'inversione di valori che s'è prodotto sulla linea di sviluppo della rivoluzione russa. (...)

Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, Edizioni RL, Napoli 1955, pagg. 27-29.


 

Il luogo dell'anarchismo

Nel punto a cui siamo giunti con l'analisi possiamo ora veder chiaro ciò che è, secondo me, il luogo attuale dell'anarchismo concepito come un ramo del socialismo. Si suole definirlo come socialismo libertario, e non liberale, perché quest'ultima parola è carica per lui di molta inaccettabile storia: ma è indubbiamente l'erede, dentro il campo socialista, della lunga tradizione liberale.
Nel campo anarchico non è molto comune l'uso, in senso positivo, dell'aggettivo "liberale". L'influsso marxista su tutti i movimenti di sinistra da un lato, e dall'altro la politica odiosamente conservatrice dei partiti, che, per il fatto di averlo sulla loro bandiera, se ne considerano proprietari, lo hanno trasformato in termine spregiativo. Malgrado ciò, o meglio appunto per ciò, può essere interessante ricordare come già nel 1923 un anarchico italiano, Camillo Berneri, lo rivendicava per l'anarchismo. Infatti in quell'anno egli inviava a Piero Gobetti una lettera (pubblicata nel n. del 24 aprile 1923 di "Rivoluzione liberale" e ripubblicata in "Volontà" di Napoli del 30 settembre 1951) in cui affermava la necessità di intraprendere una serie di studi sulla storia del liberalismo economico in seno al socialismo, che egli pensava avrebbero condotto alla conclusione che, nella Prima Internazionale, gli anarchici sono stati "i liberali del socialismo". Ed aggiungeva: "Storicamente, cioè nella loro funzione di critica e d'opposizione al comunismo autoritario e centralizzatore, lo sono tuttora". L'unica cosa da osservare sarebbe che questo liberalismo era per gli anarchici in realtà più una costante politica che economica, giacché non si può riservare a Bakunin ed ai collettivisti, ma sarebbe da estendere anche a quelli che accettarono il sistema economico di Marx senza accettarne la concezione autoritaria.

In ogni modo il carattere liberale, in senso ampio, dell'anarchismo risalta assai più oggi, alla luce dell'esperienza totalitaria. Essa è, tra l'altro, la dimostrazione del carattere politico che riveste la proprietà (o il controllo) dei mezzi di produzione e degli organismi di distribuzione: porta quindi su terreno antistatale la lotta contro lo sfruttamento. Ora, guardando il passato, vediamo che, facendo della libertà il centro delle loro aspirazioni, gli anarchici si sono trovati fin da principio sulle posizioni che sono oggi diametralmente opposte a quelle totalitarie.
Infatti, nato con Godwin in Inghilterra e con Proudhon in Francia, l'anarchismo ha visto fin dai primi tempi il carattere autoritario del privilegio economico ed ha riconosciuto, nelle diverse possibilità di strutturazione ugualitaria dell'economia che offre il socialismo, un mezzo di liberazione della persona umana, oppressa tanto dalle sue necessità materiali - insoddisfatte o soddisfatte a prezzo d'abdicazioni - quanto dalle limitazioni alla sua libertà politica. Mutualismo, collettivismo, comunismo, cooperativismo, sindacalismo, furono tutte correnti vive in seno al socialismo anarchico, che tende sempre più verso un certo eclettismo su questo terreno, basandosi sul carattere misto e sperimentale che ha naturalmente ogni società ampia e complessa a cui non si voglia imporre dittatorialmente un sistema unico.

L'esperienza spagnola degli anni che vanno dal 1936 al 1939, con i suoi successi ed i suoi insuccessi, messa a confronto con l'esperienza russa, è stata una preziosa lezione nel senso della rivalorizzazione - in seno ad un'economia socializzata - della più ampia autonomia degli individui e degli organismi locali cosiddetti di base. Su terreno socialista e contro le tendenze totalitarie, l'anarchismo torna a presentare le esigenze che il vecchio liberalismo presentava contro la democrazia giacobina da un lato e contro l'assolutismo monarchico dall'altro. Essenzialmente, queste esigenze consistono in un ritorno alla realtà concreta costituita dalla persona individuale e dalla sua sfera d'azione, come sfera di rapporti con altre persone, entro la collettività locale in cui convergono e si organizzano tutte le attività d'un nucleo geografico determinato. E nello stesso tempo, s'intende, una molteplicità d'organismi funzionali non necessariamente locali, anche vastissimi e senza limiti di frontiere, al servizio di comuni interessi materiali (lavoro, consumo, sanità, etc.), culturali ed etici. In molte di queste attività l'organizzazione può raggiungere la scala mondiale senza cadere nell'autorità e senza intaccare l'autonomia delle persone altro che nella misura da queste liberamente e di volta in volta consentita, ed ampliandone in cambio la potenza effettiva e il raggio d'influenza, purché si basi su vincoli federativi di coordinazione e non su vincoli gerarchici di subordinazione.
Bisogna sottrarsi all'ossessione dell'inevitabilità della riduzione dell'uomo a robot scientificamente determinato e della società a una immensa macchina di cui ognuno di noi sarebbe un minimo ingranaggio, sempre più sprovvisto di volontà.
Le radici della vita stanno in ogni essere umano. Al di là degli squilibri di transizione che accompagnano ogni mutamento importante, si può sempre tendere alla dignità e alla libertà dell'essere umano, qualunque siano le circostanze esterne, purché ci sia in noi una volontà sufficiente, una "tensione" adeguata.

Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, Edizioni RL, Napoli 1955, pagg. 45-48.


 

L'onnipotenza dello stato

E qui si comincia a vedere la convergenza fra la controrivoluzione russa della falce e del martello e i regimi reazionari d'occidente. In occidente la classe sfruttatrice non ha cambiati i suoi quadri, però sente anch'essa, sotto i colpi della crisi interna che la travaglia, la necessità di una trasformazione. Dal capitalismo privato e dal dominio della concorrenza, siamo passati ai trust, che lasciano poco posto all'iniziativa individuale e mettono il potere (non il beneficio) economico in poche mani; ecco un primo passo verso l'organizzazione burocratica del capitalismo. Il fascismo è un secondo passo, in quanto rappresenta uno sforzo disperato da parte del gran capitale per impadronirsi direttamente della rete amministrativa e del potere politico dello Stato per sfuggire alla sentenza di morte che contro il capitalismo ha pronunciato la logica delle cose. Da questa presa di possesso all'identificazione la strada può essere lunga, però la tendenza a trasformare lo stato capitalista in un capitalismo statale, burocratico, centralizzato, mi sembra evidente. La classe dirigente vuol sussistere e conservare il privilegio, rassegnandosi magari a trasformare la forma e i modi del privilegio. Il fascismo le dà il modo di conservare il controllo della trasformazione.
Del resto la tendenza è generale. I punti più audaci dei moderatissimi programmi di fronte popolare tendono appunto ad aumentare la forza dello stato in campo economico. E questa forza è destinata ad essere messa al servizio delle vecchie o (nel migliore dei casi) nuove caste dominanti. In fondo, più o meno coscientemente, tutti i governi sono dalla stessa parte della barricata; però, com'è naturale, assai più chiaramente quelli totalitari, che non dipendono nemmeno in piccola proporzione dal gioco dei partiti. Il fatto che alleanze o rivalità militari li dividano non deve trarci in inganno, più di quanto non c'ingannasse nel '14 la contrapposizione fra la libertà francese e il militarismo prussiano.
Queste sono le ragioni permanenti e profonde di quel complesso di cose che in questo momento ci stringe il cuore d'angoscia.

Lucia Ferrari (Luce Fabbri), Bisogna dirlo, "Studi Sociali", II serie, n. 6, 20 settembre 1937.