Socializzazione e libertà
		di Luce Fabbri
Prosegue il dibattito originato dall’intervista a Luce Fabbri, realizzata da Cristina Valenti ("A" 247). Alle osservazioni di Pietro Adamo ("A" 250) replica ora Luce Fabbri, confermando le ragioni della sua scelta "socialista".
Sono rimasta lusingata e insieme 
	spaventata dalla lettura dell’articolo del compagno Pietro Adamo nel 250 n° 
	di "A": più lusingata che spaventata, devo confessarlo, perché l’articolo è 
	pieno di simpatia e rivela una sistematica lettura di scritti miei, anche 
	remoti, e una riflessione analitica su di essi. Ciò m’ha fatto piacere: la 
	mia vanità s’è sentita incoraggiata, e non c’è niente di male.
	I primi due terzi dell’articolo sembravano rivelare un fondamentale accordo. 
	Per questo l’obiezione finale, presentata come secondaria, ma per me 
	gravissima, m’ha colta di sorpresa e fortemente preoccupata. L’autore 
	m’accusa solo di non arrivare - per rigidità - alle ultime conseguenze delle 
	mie premesse (la rivalutazione della tradizione liberale), affermando poi 
	sostanzialmente ch’esse portano a vedere "il nesso fra collettivizzazione e 
	società totalitaria". In altre parole, secondo lui, se si vuol restare 
	fedeli all’essenza dell’anarchismo, che è la difesa della libertà, bisogna 
	rinunciare ad essere socialisti. Perché? Tale conseguenza è solo affermata, 
	non dimostrata. In ogni modo, che Adamo dica ch’essa è insita nelle mie 
	premesse, ch’egli esamina con tanta accuratezza, m’ha molto impressionata.
	Non vedo come il mio insistere sulla distinzione fra "liberalismo" e 
	"liberismo" (che non è solo di Croce) e il riconoscimento della positività 
	del liberalismo classico possano portare a una rivalutazione della proprietà 
	privata/o statale della dittatura.
	Intendiamoci: il pericolo totalitario esiste in qualunque tipo di società, 
	perché lo portiamo dentro tutti noi, esseri umani. Però in noi ci sono anche 
	la ragione, la volontà e l’amore per la specie, necessari per combattere "la 
	volontà di potenza" in noi e nella società.
	Io sento il mio socialismo come una derivazione della mia avversione al 
	potere e non solo come un’esigenza di giustizia e uguaglianza "conciliabili" 
	con tale avversione. Il potere economico non solo è tanto oppressivo quanto 
	il politico, ma spesso prende un aperto carattere politico, come nel caso 
	dei mass-media. 
Noi vediamo adesso, nell’attuale esperienza ultraliberista, quale sia la 
	ferocia dell’economia di mercato, che tende a concentrare il potere 
	economico in poche mani. Contro l’economia di mercato, competitiva e quindi 
	conflittiva noi tendiamo ad organizzare (non reclamare) quella della 
	solidarietà, una solidarietà di base, autogestionaria.
	Il compagno Adamo mi obietta un idoleggiamento del comunismo anarchico 
	kropoktiano.
	Veramente non è così. Credo, sì, che il comunismo - che si pratica in una 
	famiglia i cui membri si vogliono bene - sia il sistema economico migliore; 
	ma esso cessa d’esser tale, quando è imposto. E l’uniformità richiede sempre 
	imposizione. Il socialismo può essere infinitamente vario, com’è del resto 
	vario, oggi, il capitalismo. E la prima libertà è quella dell’esperimentazione. 
	D’altra parte, quello che importa è che siano proprietà comune i mezzi di 
	produzione e di scambio, l’energia, la posta, il trasporto, la televisione, 
	il sistema informatico, l’assistenza sanitaria, l’insegnamento... Si pensi 
	al momento in cui si debba razionare l’acqua. Si potrà lasciare tale 
	razionamento in mani private? Si potrà lasciare in mano dello stato? Tutte e 
	due queste ipotesi sono ugualmente terrorifiche. L’unica soluzione è 
	l’organizzazione federale di liberi nuclei di base, che diano a se stessi 
	norme di convivenza, che, una volta accettate, si compiano.
	So che la problematica che sorge da questa proposta (che è quella 
	tradizionale del socialismo anarchico malatestiano) è quasi infinita e si va 
	modificando a misura che sorgono nuove possibilità creative e nuovi 
	pericoli.
	Non sono ottimista, ma penso che questa è la strada, o non c’è nessuna 
	strada. La soluzione individualista, che rifiuta organizzazione e norme, 
	oltre ad essere impraticabile nella complicatissima società moderna, è assai 
	più esposta alle degenerazioni autoritarie (dei pochi casi di adesione di 
	ex-anarchici al fascismo, i più notevoli si produssero nel campo 
	individualista: Massima Rocca, Leandro Arpinati...)
	Tutto questo è da discutere. E ci sono da studiare tanti altri problemi 
	nuovi, che tutti hanno rapporto con i dilemmi centrali: autorità - libertà, 
	socialismo - proprietà privata. Basti pensare alla rivoluzione che si è 
	prodotta nel campo biologico: banche di sangue, trapianti di organi, nascita 
	in vitro, clonazioni... L’esistenza dell’energia nucleare crea problemi 
	inediti per la necessità vitale del suo controllo. Il fatto che stia in 
	potere dei governi di molti stati nazionali è stata fin qui molto 
	inquietante. Ma l’idea che arrivi a stare nelle mani di tutti è più 
	inquietante ancora. Quest’ultima apocalittica possibilità s’avvicina ad 
	essere una realtà non precisamente come conseguenza di un’espropriazione 
	rivoluzionaria, ma come frutto del gioco del mercato capitalista. Lo stesso 
	si potrebbe dire per quel che riguarda le armi biologiche ed altri progressi 
	dello stesso tipo.
	Credo che Hiroshima segni lo spartiacque: tutto quello che è stato pensato 
	prima in fatto d’organizzazione sociale è da ripensare in funzione di questo 
	nuovo terribile fattore, che fa rivivere il mito d’Adamo e della mela, cioè 
	della scienza proibita. La stessa idea di rivoluzione è da rivedere, giacché 
	con il dilagare della disoccupazione tecnologica, il fattore "lavoro" sta 
	perdendo il suo peso sociale e viene a mancare alla rivoluzione la sua 
	materia prima tradizionale: il proletariato. Non si tratta di correggere il 
	passato, come volevano fare i vecchi "revisionisti", ma d’affrontare i nuovi 
	problemi alla luce delle stesse esigenze di libertà e di giustizia.
	La crisi non è solo nostra, ma di tutti.
	Tutte le tendenze sono costrette, oggi, a ripensare il mondo. Tutti devono 
	imparare a muoversi in un modo nuovo in mezzo a un mucchio di cose nuove, 
	tante e tanto nuove che la maggior difficoltà è quella di parlarne con le 
	vecchie parole. E la difficoltà nel linguaggio rivela sempre una difficoltà 
	nel pensiero.
	Ma noi in questo campo siamo privilegiati, perché la storia del XX secolo ci 
	ha dato ragione e abbiamo da "rivedere" solo il metodo, a misura che 
	cambiano le forze avverse e le possibilità. Si tratta sempre di 
	decentralizzare la democrazia, trasformarla in federale e assembleare, 
	cambiando le funzioni rappresentative in deleghe revocabili. Ma soprattutto 
	si tratta, oggi come ieri, sebbene con maggior urgenza, di una presa di 
	posizione, il più possibile attiva, in favore di nuovi valori ( che son 
	vecchi come il mondo, ma che sono stati "nuovi" in tutti i momenti della 
	storia): amore invece di odio, solidarietà invece di competitività, 
	responsabilità partecipativa invece di obbedienza passiva. E solidarietà 
	opposta al mercato vuol dire socialismo.
	In realtà, il pensare che ci sia un nesso fra società collettivizzata e 
	totalitarismo, è frutto di una incosciente tendenza a considerare collettiva 
	la proprietà statale e socialista il sistema bolscevico, per la lunga 
	abitudine della guerra fredda, e ad associare socialismo con dittatura per 
	il dominio che per molto tempo ha esercitato Marx su tutta la cultura. Ma il 
	socialismo è anteriore a Marx e gli è sopravvissuto. Bakunin aveva previsto 
	che il marxismo sarebbe sboccato in un assolutismo di nuovo tipo. Però 
	questo non dimostra altro che non si può socializzare su basi statali e 
	burocratiche, ma solo da parte della società intera, in un’atmosfera di 
	libertà.
	Come non bisogna identificare socialismo con marxismo, così non si deve 
	chiamare bolscevica la rivoluzione russa. Bolscevico è stato il governo che 
	si è consolidato sui residui di una gigantesca rivoluzione di popolo, in 
	seno a cui molte forze s’erano mosse, tra le altre e con molta energia 
	quelle anarchiche. A questo primo periodo che è quello dei soviet autentici, 
	mi riferisco quando parlo di una fase rivoluzionaria, seguita da una 
	rivoluzione ultrautoritaria.
	Dico questo in risposta all’ultima obiezione che mi muove Adamo, che è 
	quella di vedere una prima fase positiva nella "rivoluzione bolscevica".
	Sono d’accordo con lui sul carattere negativo di questa fin dal primo 
	momento in cui il controllo del partito su tutto il movimento è riuscito a 
	stabilirsi.
	Non voglio chiudere senza ringraziare di nuovo Adamo per tutte le cose buone 
	che dice di me.
Luce Fabbri