Tierra y libertad!

In un suo recente libro, Ignacio Paco Taibo II ricostruisce le tracce biografiche di alcuni militanti, dal nome oggi quasi sconosciuto, che in ogni angolo della terra dedicarono e offrirono la loro esistenza alla lotta per l’emancipazione delle classi subalterne (Arcangeli, Milano, Il Saggiatore, 1998). Da questa galleria, coinvolgente e affascinante, emerge il singolare, eroico ritratto di un rivoluzionario ormai dimenticato anche da molti dei più attenti conoscitori della storia dell’anarchismo, il messicano, anarchico e magonero, Librado Rivera.
Quella della rivoluzione messicana, la prima delle grandi rivoluzioni del ventesimo secolo, è una vicenda del tutto particolare, poiché in essa si incontrano e si intersecano elementi propri sia delle società latino americane che della cultura europea. All’interno, infatti, delle tensioni che nascono da una abnorme estensione del latifondo, dalla impunita prepotenza dei vari dittatori, dalla disperata esistenza degli indios, paria fra i paria nel proletariato messicano, si innesta con forza un afflato rivoluzionario che, muovendo dalle ideologie legate al marxismo rivoluzionario e all’anarchismo del vecchio continente, sa coniugare con feconda dialettica le caratteristiche del Messico con le strategie dei movimenti rivoluzionari dei paesi europei.
Molto è stato scritto sulla rivoluzione messicana e sui suoi protagonisti, ma ben poco sappiamo sull’apporto, affatto secondario, degli anarchici e dell’anarchismo a quegli avvenimenti. Accanto a nomi famosi come quelli di Porfirio Diaz, Venustiano Carranza, Francisco Madero, Emiliano Zapata e Pancho Villa, troviamo infatti personaggi meno noti ma altrettanto importanti, soprattutto per il ruolo che rivestirono nella caratterizzazione proletaria e contadina di un movimento altrimenti sostenuto solo dalla borghesia liberale. Tra questi, la figura più significativa è sicuramente quella di Ricardo Flores Magon che, assieme al fratello Enrique, fu un punto di riferimento fondamentale per tutto il movimento rivoluzionario messicano. Partito da una impostazione legata a un liberalismo radicale e fortemente progressista, Magon finì poi con l’approdare, nell’acutizzarsi dello scontro, all’anarchismo, consapevole che a un popolo affamato di terra sulla quale vivere e lavorare, non si potevano offrire, per quanto preziose, solo le libertà borghesi. Da questa intuizione, e da questa elaborazione teorica, prese forma il Partido Liberal Mexicano, una organizzazione rivoluzionaria che si trasformerà, via via, da partito strutturato in senso borghese (e come tale sostenuto da una parte della borghesia illuminata) in organizzazione di lotta radicalmente rivoluzionaria, che avrà come grido di battaglia Tierra y Libertad, le parole ricamate sulle bandiere di Villa e Zapata.
L’anarchismo messicano di quegli anni, ispirato alle parole e all’azione di Flores Magon, fu ricco di personaggi di grande rilievo, capaci di apportare alla lotta in corso non solo il necessario bagaglio di idee, ma anche l’esempio di una grande dirittura morale. Dirittura che non fu mai piegata dalle feroci persecuzioni a cui tutti quei militanti furono ripetutamente sottoposti. Se Flores Magon morì assassinato nel carcere nordamericano di Leavenworth, se Praxedis Guerrero cadde in combattimento contro le truppe governative, il nostro ritratto in piedi di questo mese, Librado Rivera, morto in seguito a un incidente stradale, non ebbe una fine altrettanto «eroica». Eppure la sua vita, il suo coraggio, la sua abnegazione, la sua dedizione alla causa del popolo messicano, non furono inferiori a quelle dei suoi compagni. E così le sue sofferenze. Meno conosciuto degli altri, Rivera è però personaggio di importanza fondamentale perché fu lui, morti i suoi maestri e compagni di lotta, il continuatore e l’animatore di quello spirito libertario che apparteneva, nella sua più intima essenza, a tutto il movimento rivoluzionario messicano. E fu lui, con la sua opera instancabile e con la sua inflessibile condotta, che impedì al nuovo governo messicano di appropriarsi, stravolgendola, della eredità morale di Flores Magon.
Le pagine nelle quali Taibo racconta la determinazione con la quale «il vecchio», uscito dal carcere in cui era morto Magon e rientrato in patria, continuò la sua opera di propaganda dell’ideale anarchico e di attacco all’involuzione autoritaria che veniva assumendo la classe dirigente uscita dalla rivoluzione, formano un ritratto straordinario. E tanto più straordinario, quanto più questo Librado Rivera ci risulta sostanzialmente sconosciuto. Con la costanza dell’intransigenza, con la lucidità della ragione, Rivera dedica gli ultimi suoi anni di «libertà» ad un’opera di propaganda che, giorno dopo giorno, diventa sempre più intollerabile per il nuovo potere. Falliti tutti i tentativi, prima di addomesticarlo poi di comprarlo, saranno solo la repressione e, ancora, il carcere che ne limiteranno l’azione. Ma non la volontà. Più volte sequestrato, torturato dai suoi stessi vecchi compagni di lotta, umiliato, ridotto in miseria, Librado Rivera continuerà, anche sul letto di morte, a mantenere quella ferma coerenza a cui tanto teneva, e che gli aveva reso così dura la vita. Ma anche così degna.
Tutti i movimenti rivoluzionari annoverano personaggi quanto mai esemplari, le cui biografie comprendono mirabilmente in sé i valori che quegli stessi movimenti esprimono. E questo Arcangeli lo dimostra. Ma non è per spirito di parte che credo di poter affermare che il movimento anarchico in particolare ha saputo esprimere, in ogni continente ed in ogni epoca, tante figure luminose come quella di Librado Rivera. E altrettanto sconosciute anche a noi.

 Massimo Ortalli

 

Alcune informazioni bibliografiche
Come già accennato, in italiano è uscito ben poco sul ruolo dell’anarchismo nella rivoluzione messicana. Se si eccettuano alcuni brevi articoli usciti in occasione di ricorrenze particolari, o alcune citazioni in testi di carattere generale (ad es. nella cronologia che appare in D. Tarizzo, L’Anarchia. Storia dei movimenti libertari nel mondo, Milano, Mondadori, 1976), si possono citare solo due opere, entrambe di Pietro Ferrua, uscite in anni ormai lontani. Si tratta di Ricardo Flores Magon e la Rivoluzione Messicana, Catania, Anarchismo, s.d. (estratto dal n. 1 del 1975) e Gli anarchici nella Rivoluzione Messicana: Praxedis Guerrero, Ragusa, La Fiaccola, 1976, dai quali ho tratto alcuni brani qui presentati. Alla fine degli anni ottanta uscì, in Francia, un bel numero monografico della rivista «Itineraire», interamente dedicata ai fratelli Magon.

 

Entusiasta
ma perplesso

di Pietro Ferrua
 

Circa vent’anni or sono, mi capitò fra le mani un libricino sbiadito edito a Città del Messico nel 1925. Il nome dell’autore, Diego Abad de Santillan mi era assai noto, soprattutto per i suoi lavori di storiografia e bibliografia, non ché per la sua partecipazione eminente alla Rivoluzione Spagnola. L’opera era dedicata alla memoria di un anarchico messicano a me quasi sconosciuto. Fu quindi piuttosto il nome dell’autore ad invogliarmi alla lettura. Debbo confessare che il contenuto mi entusiasmò ma mi lasciò alquanto perplesso. Non che dubitassi della fondatezza delle affermazioni del Santillan, ma temevo avesse un po’ esagerato l’importanza del Magon, come pensatore e come rivoluzionario, mosso da un comprensibile spirito di partigianeria. La versione della Rivoluzione Messicana offertami dai manuali di storia (o dai corsi universitari) era ben altra.
(...) nel 1968 potevo dedicare una prima conferenza agli “anarchici nella rivoluzione Messicana”, in un Teatro di Rio de Janeiro. Nel 1970, in una seconda conferenza per l’Università dell’Oregon, potevo fare il punto e sostenere che non solo le affermazioni del Santillan nel suo schizzo biografico del 1925 erano più che attendibili, ma che documenti venuti alla luce nel frattempo negli archivi giudiziari e diplomatici, aumentavano ancor più l’importanza del nucleo di anarchici che avevano preparato e provocato l’esplosione rivoluzionaria nel Messico dittatoriale di Porfirio Diaz.
(...) Da allora, alternando la ricerca letteraria a quella storica, ebbi la fortuna di scovare molto materiale inedito e prezioso, consultando i documenti del Ministero della Giustizia, del Tribunale di Los Angeles, della Biblioteca Bancroft di Berkeley, degli Archivi Federali, ecc. I risultati di tali ricerche, in corso di elaborazione, faranno l’oggetto di vari volumi tendenti a dimostrare che agli anarchici che militavano attorno ai fratelli Magon, nelle file del Partito Liberale Messicano, spetta il merito di essere stati i primi a preparare, con proclami, scioperi e movimenti insurrezionali, la caduta della dittatura, oltre al fatto di essere l’unico gruppo politico dotato di un programma rivoluzionario coerente e consistente.
 

Tratto da: Pietro Ferrua, Ricardo Flores Magon e la Rivoluzione Messicana, Catania, 1975.

Magon,
un anarchico istruttivo
di Pietro Ferrua
 

Non era ancora avvenuto, nel continente americano, un caso di permanenza al potere come quello di Porfirio Diaz nel Messico, non era neppure mai stato architettato un regime così solido, dispotico ed autocratico come quello di questo lugubre personaggio.
(...) Contro questa mostruosità antigiuridica e antisociale cominciarono ad agitarsi alcuni giovani, in maggioranza studenti, applauditi da gente del popolo, che si dedicarono all’apostolato della stampa e della parola, benché tale risorsa fosse stata anch’essa debilitata e sottomessa al capriccio dei giudici e all’arbitrio poliziesco.
(...) Come lievito permanente di tale agitazione apparvero sin dalla prima ora i fratelli Flores Magon, Ricardo, Jesus e il minore di loro, Enrique. Dopo molte frustrazioni, nel 1900 sorge il giornale Regeneración nella capitale messicana, dapprima apparentemente come organo di critica al sistema giudiziario imperante, ma presto attaccando apertamente il regime porfirista. Le persecuzioni raddoppiarono, i redattori di Regeneración trascorrevano lunghi periodi nelle prigioni e non si piegavano né deponevano le armi. Il porfirismo decise allora che i Flores Magon non dovevano scrivere in nessun giornale del Messico, la loro parola doveva essere messa a tacere. Jesus Flores Magon, in procinto di laurearsi in legge, giudicò sterile il sacrificio e si ritirò dalla lotta. Ricardo, con Librado Rivera, Santiago de la Hoz, Camilo Arriaga, Juan Sarabia e molti altri, la maggior parte dei quali erano incarcerati, decisero di continuare dall’estero la guerra al porfinismo che ormai non potevano più condurre nel loro paese e, nel 1904, attraversarono come meglio potettero la frontiera messico-americana.
(...) Ricardo Flores Magon e i suoi compagni riprendono la pubblicazione, nel “paese dei bravi e dei liberi” dell’organo Regeneración, riorganizzano il Partito Liberale Messicano, stabilirono nel 1908 un programma di imperiose rivendicazioni (i cui postulati vennero poi accolti nella Costituzione messicana del 1917) e propagano la rivoluzione mediane la propaganda e l’esempio. Il giornale è perseguitato dalle autorità americane, dalle agenzie private di investigazione al soldo del governo del Messico, con la complicità del servizio postale, che permette il controllo e il registro della corrispondenza sospetta. Ricardo e compagni vanno da un processo all’altro, da una prigione all’altra, fin quando Ricardo muore nel penitenziario di Leavenworth, nel Kansas, verso la fine del 1922.
(...) Ricardo, che era un anarchico istintivo, non tardò a dichiararsi tale coi suoi amici intimi, senza tuttavia allontanarsi un millimetro dalla realtà insopportabile del suo popolo. La rivoluzione messicana fu incarnata in Ricardo come simbolo, dentro e fuori del Messico. Ma non era solo, lo assecondavano e contribuivano al suo sforzo gigantesco molti altri oltre al fratello Enrique, oltre a Librado Rivera, oltre ad una pleiade magnifica di combattenti, fra i quali Praxedis G. Guerrero.

Tratto da: Pietro Ferrua, Gli anarchici nella Rivoluzione Messicana: Praxedis G. Guerrero, Ragusa, 1976.

 

Una pioggia infinita
di fiori rossi
di Paco Ignacio Taibo II

Il vecchio guardò a terra come se volesse essere certo di trovarsi sul suolo messicano, quindi volse lo sguardo indietro, verso i due agenti nordamericani che l’avevano condotto in manette da Fort Leavenworth e che ora si addentravano di nuovo negli Stati Uniti del Nordamerica. Aveva vinto una guerra. Sospirò e sorrise. Era stata una piccola guerra, personale, ostinata. Una minima soddisfazione all’interno di un’enorme disfatta.
A mente, compose il suo primo manifesto in territorio messicano: Manifesto per i lavoratori del mondo, due punti e a capo: Sono il traditore ergastolano di Leavenworth, punto e di seguito. Sono l’insopportabile, virgola, il perturbatore dell’ordine, puntini di sospensione [...] vengo deportato per non tornare mai più. Apertura d’interrogativo (perché adesso le macchine da scrivere avranno il punto interrogativo iniziale: oppure no?), e con ciò, chiuso l’interrogativo. Anche questo mi onora davanti a voi, punto. Esclamativo: Lottiamo, fratelli! Sono pronto ad aiutarvi a continuare l’opera interrotta...
Infatti di questo si trattava, riannodare, riprendere la guerra sociale. Questo pensiero gli aveva impedito di morire di tristezza quando assassinarono Ricardo. Questo pensiero l’aveva tenuto in vita.
Il vecchio (è un vecchio quest’uomo che ha compiuto un paio di mesi fa soltanto cinquantanove anni?) sa di dover abbandonare le vecchie storie. Non sono brutte storie, certo, ma si devono abbandonare, lasciar riposare nelle notti di sogni di gloria e incubi. “Sarebbe un peccato sciupare quel poco di vita che mi resta in contemplazioni e lamenti”, dice a se stesso.
Nemmeno io ritornerò su quelle vecchie storie per raccontarle, lo ha già fatto a suo tempo James D. Cockroft e lo farà presto il mio amico Jacinto Barrera. Il vecchio e io siamo qui, oggi, settant’anni dopo, riuniti su questi documenti, per raccontare una storia che inizia quando a un uomo di cinquantanove anni, sdentato, minato dalla malattia (“Esco trasformato in un relitto umano; ammalato, vecchio e ormai senza denti”), due agenti di polizia nordamericani tolgono le manette e lo lasciano alla frontiera. La storia inizia quando Librado Rivera ritorna in Messico dopo diciotto anni di esilio di cui undici e mezzo passati nelle prigioni nordamericane. Quando Librado torna nel suo paese per vivere l’ultima grande avventura, per dare forma e contenuto all’allucinante saga di cui sarà protagonista nei prossimi nove anni.
(...) Nell’agosto 1918 Librado Rivera e insieme a lui Ricardo Flores Magon furono condannati a quindici anni di reclusione per reati di stampa negli Stati Uniti del Nordamerica. Il loro Manifesto ai lavoratori del mondo fu il pretesto, all’interno di una tremenda ondata repressiva che colpì tutta la sinistra radicale nordamericana, per arrestare i due messicani e chiudere il periodico Regeneración. La loro detenzione emarginava, in modo molto opportuno, l’ala più radicale della sinistra rivoluzionaria messicana. Quattro anni dopo, sconfitto Pancho Villa, assassinato Emiliano Zapata, con il trionfo dei settori moderati, con la rivoluzione in corso di istituzionalizzazione, i parlamenti degli stati si fecero portavoce delle richieste operaie e fecero pressioni sul governo degli Stati Uniti perché liberasse i magonisti detenuti.
Nell’aprile 1922 il parlamento dello Yucatán presentò un’istanza alle autorità nordamericane e nell’arco di due mesi si espressero nello stesso senso i parlamenti di San Luis Potosi, Durango, Sonora, Coahuila, Querétaro, Hidalgo, Aguascalientes e Messico. All’iniziativa ufficiale si aggiunsero migliaia di lettere di organizzazioni sindacali, spesso accompagnate da mobilitazioni, serrate e manifestazioni davanti ai consolati nordamericani in Messico. La pressione non fu sufficiente. Erano detenuti e per il momento tali sarebbero rimasti. Solo detenuti? Il 16 novembre 1922 Ricardo Flores Magon muore in circostanze molto strane. Il medico della prigione stende un certificato in cui attribuisce la morte a un attacco di angina. Librado Rivera è costretto a comunicare all’ esterno la notizia senza poter esprimere i suoi dubbi. Che sia morto per mancanza di cure mediche è evidente: ma non c’è nient’altro? In carcere circola la voce che sia stato strangolato da un guardiano. Giorni dopo, un detenuto messicano uccide il presunto assassino. Tutto rientra nell’ombra. Si impedisce a Librado non solo di investigare, ma anche di informare l’esterno (“Mi rammarico di non poterti accennare a nulla che si riferisca al nostro comune fratello, non ho la libertà di farlo”).
(...) Di che cosa viveva Librado? Pare che trattenesse una piccola parte delle entrate del periodico per il suo lavoro di tipografo, ma questa non bastava nemmeno a coprire le minime spese della vita miserabile che conduceva. Pochi altri spiccioli gli provenivano dalla vendita di materiali del Gruppo Ricardo Flores Magon, che Nicolas T. Bernal gli faceva arrivare da Città del Messico. A sessant’anni, Librado vendeva da ambulante, alle porte di fabbriche e officine, sulle barche che attraversavano il fiume per portare gli operai alle raffinerie, testi di Magon, di Reclus, di Praxedis Guerrero, biografie di Bakunin ...
L’immagine del vecchio anarchico cominciò a diventare popolare in assemblee, scioperi, comizi ed eventi culturali. I suoi articoli, due o tre in ogni numero, comparivano nelle pagine di Sagitario e in Alba anarquica di Monterrey, in Horizonte libertario di Aguascalientes e in Nuestra Palabra Verbo rojo, che venivano pubblicati nel Distrito Federal.
(...) “Sono stato arrestato il 19 febbraio; mi hanno fatto uscire dalla cella di notte per portarmi negli uffici del generale Eulogio Ortiz, capo della guarnigione militare del porto di Tampico; mi è stato chiesto con tono autoritario:
«Quindi lei è nemico del governo?»,
«Di tutti i governi» ho risposto.
Rivolto al suo segretario, quello ha ordinato perentoriamente:
“Domani mi porti un verbale dettagliato sulle dichiarazioni di questo vecchio cornuto [...]”
La mattina del 20 sono stato nuovamente condotto negli uffici del generale Eulogio Ortiz che stava passeggiando nella sala tenendo in mano Avante. Mi ha dato una sedia e ha cominciato l’interrogatorio.
«Chi ha scritto questo articolo intitolato ‘Attentato dinamitardo’?»
«L’ho scritto io.»
«Lo legga per ricordare bene quello che dice.»
Dato che mi sono rifiutato di farlo, essendo ben sicuro del suo contenuto, il generale infuriato e rabbioso si è avventato su di me, dicendomi: «Attento, vecchio cornuto; adesso lei mi dice tutta la verità!» «Ogni volta che ho voluto dirla» gli ho risposto «l’ho detta, e la dirò sempre, anche se farlo mi costasse la vita.»
Questo contraddittorio è finito con due pugni formidabili sulla mia faccia, e subito dopo, presa in mano una cintura di cuoio, ha assunto un atteggiamento minaccioso. «Perché porca puttana chiama parassita il presidente della Repubblica, vecchio cornuto?»
La domanda fu accompagnata da forti cinghiate sulla testa.
«Ritengo che il mio criterio nell’uso di quella parola sia molto diverso dal suo. Io chiamo parassita colui che vive del lavoro altrui» gli ho risposto.
«Allora anche lei è un parassita perché vive alle spalle di coloro che le inviano del denaro per pubblicare il suo giornale!» ha argomentato lo sbirro.
«Non troverà nessuna somma di denaro destinata a me. I lavoratori che spediscono denaro per pubblicare il loro giornale lo fanno per amore delle idee e per contribuire all’educazione del popolo, al fine di diffondere e portare la luce nelle menti dei loro compagni sfruttati.»
«Ebbene, portatemi la frusta per sistemare questo vecchio cornuto!» ha detto Ortiz a quelli che gli stavano intorno. Si presenta immediatamente un aiutante che porta un dizionario:
«Anarchia» dice «è l’assenza di qualunque governo, disordine e confusione per mancanza di autorità.»
«Questa è la definizione degli scrittori borghesi, e non l’anarchia che io diffondo su Avante, dove si vede l’azione violenta dei governi confermata dai fatti. A ogni modo, desidero conoscere il nome di chi mi ha oltraggiato in modo così infame» ho replicato al generale Ortiz.
«Suo padre, cornuto» ha risposto lo sbirro.
«Mio padre non era così bestia.»
«Che cosa ha detto?»
E si è scagliato su di me propinandomi varie frustate accompagnate da nuovi insulti.
«E quale opinione ha dell’esercito?» mi ha domandato.
«L’esercito serve per sostenere i governi al potere.»
«L’esercito serve per difendere la patria e le sue istituzioni» ha detto Ortiz.
«L’esercito, inoltre, è il piedistallo su cui poggia ogni tirannia e ritengo che i giudici che mi stanno giudicando ora siano i miei nemici più feroci.»
E siccome ho sentito che il sangue mi scorreva lungo le tempie, mi sono alzato indignato chiedendo al mio carnefice che mi uccidesse con un colpo di pistola, ma che non mi colpisse in modo così vile. E in un momento in cui non me l’aspettavo, quel mostro ha estratto il suo revolver e ha sparato un colpo. Per un attimo ho creduto di essere stato ferito alla testa, perché per l’intontimento della sordità causata dal colpo non sentivo nulla. Ma passato qualche secondo ho capito che cercava solo di tormentarmi per provocare in me un qualche sintomo di vigliaccheria o di pentimento”.
(...) Il primo marzo 1932 Librado Rivera muore.
Dopo nove anni di un’allucinante guerra personale contro lo stato, una guerra vissuta molte volte in solitudine, all’interno di una cella, una guerra in cui la caparbietà e lo stile sono sempre state le sue armi migliori, Librado Rivera riposa.
Il 3 marzo esce l’ultimo numero di Paso!. Stampato anonimamente, riporta ancora sulla testata: “Direttore Librado Rivera” e il numero della sua casella postale nel DF, il 1563. Il periodico pubblica un solo articolo, “Librado Rivera è morto”, e invita gli operai di Città del Messico ad accompagnare il cadavere dal locale della Federacion de Trabajadores, ultima roccaforte dell’anarcosindacalismo, fino al Panteon de Dolores. L’articolo termina con una frase il cui accento ricorda la lirica rossa dell’epoca: “Che sulla sua tomba cada una pioggia infinita di fiori rossi”.
L’ultimo magonero esce di scena.
Rimane il vuoto.
Non esistono più uomini così. I migliori fra noi sono pallide ombre in confronto al vecchio Rivera.
Almeno dovremmo coprire quella tomba, oggi scomparsa, quella tomba inesistente, con una pioggia infinita di fiori rossi.
Per fortuna rimane la storia.
Per fortuna rimane la memoria.

Tratto da: Paco Ignacio Taibo II, Arcangeli, Milano, 1998.