Masetti 
e le Compagnie di disciplina

 a cura di Luciano Lucci                          lucci@racine.ra.it 

Augusto Masetti, un muratore di San Giovanni in Persiceto, soldato di leva matricola 30504, al momento di partire per la Libia, nel piazzale della caserma Cialdini di Bologna, alle sei di mattina del 30 ottobre 1911, in un atto estremo di "insubordinazione con vie di fatto verso superiore ufficiale", sparò col suo fucile di ordinanza addosso al tenente colonnello cavalier Stroppa, che stava parlando al reggimento schierato, istigando la truppa all'odio verso il popolo libico. Il colonnello sarebbe stato dimesso dall'ospedale 20 giorni dopo, in buone condizioni. 
Il colpo che partì dal fucile del Masetti lacerò l'oscurità del mattino, fischiò alle orecchie di alcuni caporali e sfiorò la testa di un soldato. Si sentirono delle urla. Ai presenti ci volle qualche secondo per capire da dove provenisse lo sparo. Alcuni militari, avendo udito il sibilo del proiettile, si girarono e videro "in mezzo, nello spazio lasciato libero da due plotoni in colonna, un individuo" che sembrava stesse ricaricando per un secondo colpo. Nell'aria risuonò: "Viva l'anarchia, abbasso l'esercito!"

"Fratelli, ribellatevi!", "Ho voluto vendicare i compagni che cadono in Africa", "Alla guerra deve andare il re, il generale Spingardi e i deputati e non mandare noi a conquistare della terra che i capitalisti andranno poi a sfruttare". Queste alcune delle frasi pronunciate da Masetti (e "messe a verbale") mentre veniva immobilizzato, isolato, ammanettato dai carabinieri che cercavano di zittirlo. Correvano i tempi della guerra di Libia, e in Italia dilagava una "nuova ubriacatura militaresca e imperialista" grazie anche al contributo fondamentale della stampa borghese dell'epoca.
Nato a sala Bolognese, il 12 aprile 1888, Masetti, pur professando idee anarchiche (era - si seppe poi - lettore assiduo del foglio anarchico-libertario "Rompete le file!", capofila della lotta antimilitarista, non aveva alle spalle una militanza politica significativa. 

Lo Stato giolittiano manovrò abilmente per evitare che Masetti diventasse un martire e, tramite la perizia di due psichiatri nominati dal Tribunale di Venezia, l’imputato venne dichiarato un ‘soggetto degenerato’, che aveva agito in stato di "morboso furore" a causa di un "acuto stimolo passionale"; il tutto suffragato dalle pittoresche teorie di antropologia criminale prese a prestito da Cesare Lombroso.

L’11 marzo 1912 la sentenza: il fatto non costituisce reato e Masetti fu trasferito dal manicomio giudiziario di Reggio Emilia, dove si trovava in osservazione, a quello di Montelupo Fiorentino. Ma l’agitazione per la liberazione di Masetti era inarrestabile e si ottenne che venisse trasferito nel manicomio civile di Imola (gennaio 1914). Sia il direttore del manicomio che gli infermieri (la cui lega aderì al comitato Pro Masetti), non credettero alla pazzia del degente. Il comitato chiese una nuova perizia che affermasse la "ritrovata" sanità mentale del Masetti, il Tribunale di Venezia accolse l’istanza ma fece trasferire il degente presso il manicomio di Brusegana (Padova), nominando due periti che tergiversavano affinché diminuisse l’attenzione nei confronti della vicenda.

Non si voleva processarlo perché un pubblico dibattito avrebbe offerto all'opposizione il pretesto per una violenta campagna antimilitarista. 

Già al momento dell'attentato di Masetti al colonnello gli anarchici avevano affermato la loro solidarietà con Masetti, e Benito Mussolini, che dirigeva il giornale socialista di Forlì "Lotta di Classe", aveva esaltato il gesto del giovane bolognese. L'eco di quel fatto non si spense e continuarono a tenerlo vivo gli anarchici guidando una campagna per la liberazione di Masetti.

Il comitato che conduceva l'agitazione aveva sede a Bologna, presso la camera sindacale, e Armando Borghi, che ne era il segretario, aveva un suo piano che spose con chiarezza: "Trasformare la prima domenica di giugno, festa dello statuto, in una giornata nazionale "pro Masetti"; se in quel giorno il governo si macchierà di sangue, rispondere con lo sciopero generale ad oltranza". Questa posizione non era condivisa da tutti i sindacalisti, e tanto meno dai socialisti della Confederazione Generale del Lavoro. Infatti nessuna disposizione venne data per uno sciopero generale che fu deciso solo dopo che la triste previsione di Borghi si era avverata.

Da lì scoppiarono le giornate dette della Settimana Rossa.

Ma la fine dell’agitazione pro Masetti dopo la Settimana Rossa, la successiva partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale, la rottura del fronte antimilitarista che aveva costituito i comitati (con molti personaggi di primo piano che passano improvvisamente nelle file dell’ interventismo), fecero dimenticare in fretta il caso Masetti. 

Approfittando della situazione, venne emessa la seconda perizia psichiatrica che lo considerò un soggetto socialmente pericoloso in quanto "mentalmente anormale". 

Tuttavia Masetti restò un simbolo per tanti giovani che scelsero di disertare la chiamata alle armi in occasione della I° guerra mondiale.

Tornato nel manicomio di Imola, il degente poteva uscire abbastanza liberamente dalla struttura, fino a frequentare le riunioni serali degli anarchici organizzati nell’Unione Sindacale Imolese: a quel punto intervenne il sottoprefetto che chiese al direttore del manicomio un trattamento più adatto ad un malato mentale. Ciononostante nel 1919 Masetti fu dato in affidamento ad una famiglia imolese, riprese l’attività di muratore e nel 1932 venne definitivamente revocato l’ordine di ricovero. Nel frattempo si era creato una famiglia con l’imolese Concetta Pironi, vedova di guerra, dalla quale aveva avuto tre figli (Luisa, Cesare, Franco)

Masetti restò però fedele ai suoi principi: nel settembre 1935 chiese di poter disertare le adunate del regime per la guerra d’Etiopia, venne subito incarcerato e quindi confinato per 5 anni a Thiesi (Sassari). Durante il trasferimento "dà prova di squilibrio mentale" e giunto a destinazione fu rinchiuso nel locale manicomio, dove restò circa tre mesi. Nel maggio 1940 potè ritornare a Imola. Fu nuovamente incarcerato il 13 settembre 1943, durante la retata operata dalle truppe naziste che presero possesso della città. 

L’11 settembre 1944 fu ucciso in combattimento il figlio Cesare, partigiano della 36° Brigata Garibaldi. 
In seguito a questo episodio suo padre venne ricondotto per l'ennesima volta in manicomio: il dolore manifesto per la morte del figlio ventenne fu giudicato come una forma di "psicosi paranoide". 

Ne uscì il primo aprile 1945.
Nel dopoguerra proseguì l’attività antimilitarista in vari modi, ad esempio correggendo in modo originale i manifesti di chiamata alle armi. Nel 1946 fu identificato ed arrestato come l'autore dello sfregio a dei manifesti di chiamata alle armi, su cui aveva incollato dei talloncini stampati in modo da sostituire le parole "ministero della guerra" con "ministero della pace", "militari" con "operai", "aeronautica" con "lavoro". In quella occasione Masetti si difese dicendo che aveva perso un figlio nell'ultima guerra e che considerava "la parola guerra come un anacronismo".
Gli anarchici gli furono sempre vicini e lui continuò a frequentare gli ambienti anarchici fino alla morte, che avvenne nel marzo 1966, quando fu investito da una motocicletta di un vigile urbano.