Il mio intervento si incentrerà sulla teoria di Merlino così come è esposta in Pro e contro il socialismo, la sua opera più matura, e la tesi da cui muovo è che se l’anarchismo si fa movimento specifico, partito con una particolare organizzazione, grazie all’immaginazione e all’energia di Bakunin, c’è tuttavia da domandarsi se anche prima della militanza dell’agitatore russo non possa rinvenirsi un movimento sociale dai caratteri libertari più o meno netti -si pensi, per esempio, al mutualismo proudhoniano-, così come c’è ancora da chiedersi in che rapporto stia il pensiero e l’azione politica di Bakunin e dei suoi seguaci con l’opera di autori già sicuramente anarchici come William Godwin e, appunto, Pierre-Joseph Proudhon.
Con Bakunin, infatti, l’anarchismo soffre, per così dire, di una torsione ideologica che lo spinge verso una direzione non ancora impressa al pensiero libertario nelle sue precedenti manifestazioni e ciò che l’anarchismo con lui guadagna in visibilità e forza utopica -e, mi si consenta, in “tono di voce e volume di suono”-, perde in contatto con una delle sue più importanti fonti d’ispirazione. Mentre infatti in Godwin e in Proudhon l’anarchismo è connesso a certa tradizione repubblicana, ed alla moderna radicalizzazione democratica di questa, nella focosa e potente produzione intellettuale bakuniniana tale fonte si fa più evanescente, seppure non del tutto assente.
Il problema, fondamentalmente, è quello dell’idea di regime popolare, di democrazia come governo del popolo ed anzi di tutti. Questa idea di un regime di uguaglianza ha attraversato la storia del pensiero politico occidentale a partire dagli splendori della polis greca, poi diventata res publica nell’esperienza della Roma repubblicana, ed è l’ideale vigente come utopia e modello legittimante in tutto il lungo ed accidentato percorso della storia europea.
Questo ideale, ridotto ad un lumicino per lunghi periodi, riaffiora però qui e là ora con minore ora con maggiore decisione: nel medio evo, con i Comuni e le repubbliche cittadine, poi con le rivoluzioni del XVII e del XVIII secolo, le quali ultime si richiamano, anche nella loro retorica e simbologia, ai miti e costumi della Roma antica. La mia tesi è che l’anarchismo si rifaccia a tale tradizione, radicalizzandola. Rispetto alla libertas antica e alla libertà positiva di Benjamin Constant l’anarchismo opera infatti tre rilevantissime aggiunte: primo, la democrazia dovrà riguardare ogni spazio sociale ed investirà nella sua esigenza di uguaglianza e di autonomia persino le relazioni private (confermando così uno dei timori della critica di Platone e degli antichi filosofi conservatori); secondo: la democrazia varrà al di là delle mura delle città, per farsi regime pienamente universale; la democrazia, infine, sarà convertibile in diritti d’individui non più definiti mediante le loro appartenenze comunitarie o parentali, individui la cui concretezza si manifesta in maniera paradigmatica nella percezione del proprio sé.
Tra Godwin, Proudhon e Stirner questa trasformazione del pensiero democratico si compie in maniera completa, mentre la novità, portatrice di un’insanabile contraddizione, appare con Bakunin, il quale, per certi versi, è assai più acuto e lucido dei suoi predecessori. Con lui irrompe nella filosofia politica libertaria una ventata di romanticismo -già annunziata, invero, anche da Max Stirner- e tramite essa irrompe un certo irrazionalismo e la tentazione dell’estetizzazione della politica.
Il punto di rottura è, per l’appunto, la valutazione del regime democratico. Su tale questione Bakunin prima oscilla, nella sua lunga fase di democratico radicale e di nazionalista panslavo, poi barcolla ed infine crolla, allorché la democrazia è rigettata, ovvero, giacché egli non la rinnega mai del tutto, allorché egli prepara il terreno per il mito politico fondante del partito anarchico così come ci è noto da più di un secolo: la fine dello Stato e del diritto, cioè l’anarchia come regime apolitico, negativo, privo di norme, istituzioni, obblighi. In questa prospettiva l’atto politico per eccellenza è quello della rivoluzione, dell’insurrezione, è la tempesta che d’un colpo spazza via il vecchio ed apre la strada al nuovo, cioè a un tempo di redenzione irrimediabilmente altro rispetto allo status quo, così come solo l’ottimo può esserlo rispetto al pessimo.
Gli elementi romantici tendono così a farsi gnosi, atteggiamento manicheo, attesa messianica dell’era nuova. Con l’opera di Kropotkin questo mito trova il suo suggello: la rivoluzione si fa unico atto politico, non è più mezzo, ma fine, diventando di fatto permanente, ed il partito anarchico trova la sua definitiva configurazione antipolitica.
Duole dirlo, ma in Bakunin si ritrova una critica della democrazia e del parlamentarismo simile a quella antimoderna e antiegualitaria del romanticismo politico. Il tono è kulturkritisch, la profezia comune ad entrambi è quella del tramonto dell’Occidente: “Da qualunque parte si guardi dell’Europa occidentale -leggiamo nella controversa Confessione, scritta allo zar da Bakunin incarcerato- non si vede altro che decrepitezza, debolezza, assenza di fede, la cultura si è identificata con la depravazione dello spirito, del cuore, con l’impotenza, la democrazia non è che un sintomo di tale triste condizione di decadenza”. “Volevo la repubblica, -dice ancora Bakunin dei suoi trascorsi democratici- ma che repubblica? Non volevo una repubblica parlamentare, il governo rappresentativo, le forme costituzionali, l’aristocrazia parlamentare e il cosiddetto equilibrio dei poteri in cui tutte le forze agenti risultano equilibrate in modo così astuto che nessuno d’esse può agire. Tutto il catechismo politico, prudente, limitato e versatile dei liberali occidentali non è mai stato oggetto della mia adorazione, né della mia simpatia e nemmeno della mia stima.”
Il motivo dominante, comunque, è quello della distruzione dello status quo, alla costruzione penseranno le generazioni future, oppure si postula, hegelianamente, che l’intenzione distruttrice è allo stesso tempo volontà creatrice? Questa frase, come è noto, è scritta nella Reazione in Germania, ed è ripetuta nella Confessione e si ritrova, latente, negli scritti più dichiaratamente anarchici del russo.
L’ispirazione è, come riconosce lo stesso Bakunin, donchisciottesca e antiborghese, nel senso dell’obbedienza alla chiamata di una missione, della ricerca dell’eccezionale, della rottura delle norme e della stabilità della vita quotidiana. Il rivoluzionario è come un cavaliere, la figura che più si contrappone a quella del bottegaio, il quale mai potrà conquistarsi alla causa della rivoluzione. Come dice Bakunin: “les boutiquiers jamais!”;
“Gli uomini ricercano in genere la tranquillità e la considerano il bene supremo, su di me -scrive Bakunin- essa aveva, invece, l’effetto contrario e m’induceva alla disperazione. La mia anima si trovava in agitazione perpetua, esigeva azione, movimento e vita. Io sarei dovuto nascere -continua il russo- in qualche parte dei boschi americani, tra i coloni del Far West, laddove la civiltà è ancora agli albori e ogni esistenza è una lotta incessante contro uomini selvaggi e contro la natura vergine e non v’è una società civile organizzata”.
Il rigetto di tutto ciò che è borghese ha qui un chiaro sapore romantico, è la rivolta contro l’ordine costituito come tale, è il desiderio di movimento, di lotta, di avventura, l’ideale esistenziale di Bakunin coincide con quello dello sturm und drang e non è del tutto distinto da successive e lugubri esaltazioni del kampf als inner erlebnis.
Rispetto a tutto ciò, a mio modo di vedere, il pensiero che Saverio Merlino elaborò negli ultimi decenni della sua vita va inteso come il tentativo di coniugare nuovamente democrazia e anarchismo, riagganciandosi alla tradizione prebakuniniana e preromantica.

In questo senso l’opera dell’avvocato napoletano rappresenta, più che una revisione dell’anarchismo, la “restaurazione repubblicana” di questo ed invece che un tradimento, come si affrettarono a sentenziare i puri di partito, è la riconferma di antiche, dimenticate, fedeltà. Alla denigrazione della sfera istituzionale, dello spazio pubblico strutturato per norme, all’evocazione di un futuro provvidenziale, al gesto bello e intransigente, egli oppone l’appello al presente come dimensione privilegiata dell’agire collettivo e la rivendicazione della politica come azione deliberativa, pertanto ragionata, rivedibile, condivisibile, graduabile.
Nel pensiero di Merlino ritroviamo infatti un richiamo forte alle ragioni dell’intelletto contro quelle del sentimento, ai criteri del buonsenso contro le fantasie mistiche, alla superiorità epistemologica della conoscenza empirica e sperimentale -e perciò sempre relativa, provvisoria, benché non relativista- dinanzi ad ogni esagerazione utopistica e all’afflato d’assoluto. Alla lode romantica della natura e all’affermazione conseguente dell’intima autenticità dell’io, Merlino contrappone l’elogio freddo della riflessività. Non a caso così risponde l’avvocato napoletano a chi sottolinea i meriti dell’azione spontanea ed istintiva dell’individuo: “Certo l’incosciente ha gran parte nella vita dell’individuo e della società. Purtroppo la condotta dell’uomo obbedisce a tendenze e a impulsi non ancora sottomessi alla critica della ragione, la moralità dell’uomo è ancora incipiente e più ancora rozza e incerta è la condotta sociale. Ma come la condotta dell’individuo si viene sistemando, cioè moralizzando, così anche la condotta sociale tende a sistemarsi sotto l’azione della riflessività”.
La morale merliniana è così ricerca delle norme, non rivolta contro queste, volontà di limite non di potenza. Da questo atteggiamento generale discende una diversa posizione rispetto alla democrazia, vista in quanto regime di regole e di discussione, non come un ostacolo alla libertà bensì come la proiezione pubblica e la garanzia intersoggettiva di questa.
Non è però che Merlino nutra verso il regime parlamentare un’ammirazione cieca ed incondizionata, è piuttosto il contrario: di tale forma di governo Merlino sottolinea soprattutto i difetti -senza tacerne, è vero, qualche merito importante- e ai vizi di questa dirige, in primo luogo, la sua attenzione.
I vizi del sistema parlamentare non hanno però origine, per Merlino, nel fatto di basarsi su una camera di discussione collettiva. “I vizi delle attuali assemblee parlamentari” -scriveva- non risiedono nella fenomenologia delle assemblee deliberative, bensì nel fatto d’essere queste organi, o enti, di certe istituzioni, le quali sono innanzitutto strutture di potere accentrato e poi risultano operative in assenza della voce e della partecipazione reale di quel popolo che dicono di rappresentare. Questo è oggidì una massa informe, incoerente, disorganizzata, divisa da interessi contrari e soggetta alla classe possidente e dirigente, esso non ha nessun peso nella bilancia politica o è un peso morto trascinato di qua e di là dall’abilità dei politicanti.”
“Il vizio del sistema parlamentare -ribadiva- non è nel principio di rappresentanza, nella necessità del compromesso fra opinioni e volontà diverse, necessità inerente ad ogni sistema di convivenza, ma nel fatto che esistono nella società interessi contrari, antagonistici, e anche se nella società socialistica cadrà l’attuale forma di governo parlamentare, non pertanto verrà meno la necessità della rappresentanza politica. Si tratta, dunque, non tanto di rigettare il meccanismo parlamentare, quanto di rivedere profondamente la base di questo. A questo fine, si dovrà innanzitutto evitare che si costituisca un centro unico di sovranità, la competenza legislativa dev’essere decentrata in modo che, laddove si tratti di decidere di provvedimenti su interessi particolari, sia l’ambito stesso in cui questi si manifestano quello nel quale si prenda la decisione”.
E’ la teorizzazione di un principio di sussidiarietà: “Solo in presenza di provvedimenti che hanno, e non possono non avere, portata generale e toccano interessi generali, deve farsi luogo alla pronuncia di un organo nel quale sia rappresentata l’intera nazione, ovvero il corpo politico nel suo complesso. I principii generali dell’azione di rappresentanza devono provenire esplicitamente da consultazioni popolari, in alcuni bisognerà introdurre il mandato imperativo, in altri casi ci si potrà servire dell’istituto del referendum”, come Merlino dice contrapponendosi, per esempio, ad Arturo Labriola, critico del referendum e difensore del parlamentarismo classico.
Il parlamentarismo classico, dunque, non è l’ideale democratico di Merlino, il quale non solo riteneva che la rappresentanza parlamentare non dovesse essere l’unica sede di sovranità, ma pensava anche che tale rappresentanza dovesse essere comunque preceduta da consultazioni popolari che producessero i principii generali della legislazione generale, ovvero norme più dettagliate là dove siano in gioco certe questioni di libertà, di giustizia, di economia pubblica per le quali non si richiedono cognizioni tecniche e in cui l’interesse generale deve prevalere sul particolare.
In ogni caso, per Merlino la decisione popolare deve collegarsi ad un ponderato momento cognitivo e deliberativo, bisogna che il voto sia preceduto da studi fatti da uomini competenti e da discussioni fatte nelle associazioni popolari. Egli sottolinea continuamente il bisogno di uno spazio collettivo, della sfera pubblica: “Si creino, ed è bene che si creino, istanze deliberative separate dalle istanze decisionali, ma lo si faccia in guisa tale che la deliberazione possa sempre essere o ricondotta alla, o sconfessata dalla, istanza decisionale. Questa resta comunque strutturata marcatamente nei termini dell’autogoverno popolare”. Il risultato di tutto questo, di quella che si presenta come una varietà di forme ed istituzioni produttrici di leggi, è un’organizzazione pluralistica irriducibile a una sovranità unica, ma non di meno sempre collegata a ciò che può legittimamente e plausibilmente definirsi come governo popolare. “Ciò che più preme per una buona organizzazione politica della società -scrive Merlino- è che venga sciolto quel legame gerarchico che fa oggi di tutte le amministrazioni pubbliche, centrali e locali, altrettante braccia di un corpo solo: il governo”.
E’ come dire che non si rinuncia all’idea della volontà generale, ma la si rende flessibile e dispiegata secondo un ambito progressivo di generalità.
Il federalismo è così visto come principio inerente alla nozione di democrazia e Proudhon viene fatto riconciliare con Rousseau. Quello propugnato da Merlino è perciò un “sistema misto” che però niente ha a che vedere con la nozione di “governo misto” di Polibio, per fare un nome, che voleva conciliare le tre forme canoniche di governo: democrazia, aristocrazia, monarchia.
Una delle giustificazioni tradizionali della proposta di “governo misto” è quella della necessità di accompagnare alla discussione la deliberazione, per poi ritenere la folla, il popolo, l’assemblea o il parlamento, inadatti o incapaci di deliberazione, dunque, finendo per assegnare la funzione deliberativa ad organi non maggioritari, non rappresentativi o non democratici. Oggi questa teoria, vale sottolinearlo, si ripresenta sotto l’etichetta di neorepubblicanismo, accentuando il ruolo, negli attuali sistemi democratici, di istituzioni quali i tribunali, specialmente quelli costituzionali, e delle cosiddette agenzie indipendenti, le quali non sono né rappresentative né elettive.
Merlino propone invece una teoria deliberativa che non s’incentra sull’ipotesi della rottura tra momento deliberativo e momento rappresentativo, ovvero tra organi tecnici e assemblee popolari. Come risulta, tra l’altro, dalla sua critica delle tesi elitistiche, egli non era affatto pessimista sulle possibili virtù del popolo o della folla e nella distanza dalle tesi sostenute, ad esempio, dal Le Bon -per il quale nella folla c’era solo follia-, ritroviamo un ulteriore motivo di tensione rispetto all’anarchismo romantico, che sulla folla, sulla sua semplicità e sulla sua barbarie, pone l’unica speranza per la rivoluzione.
Nel capitolo sulla integrity de L’impero della legge, la sua opera maggiore, Ronald Dworkin si sofferma sulla questione dell’obbligo politico. Le tradizionali giustificazioni di questo, il consenso e il criterio della correttezza, non lo convincono, perché a suo avviso l’obbligo politico, dunque il dovere di obbedienza alle leggi, ha natura associativa, si tratta cioè di un obbligo che ha la stessa natura, con specificazioni, di quelli che hanno origine, per esempio, da relazioni di amicizia o di parentela.
Dworkin, ai fini della sua argomentazione, distingue tre tipi di comunità: una del tutto contingente e strumentale, un’altra convenzionale e formale, un’altra, infine, basata su principii. In questa tripartizione, tuttavia, Dworkin trascura di segnalare adeguatamente il significato idealtipico di una quarta concezione di comunità, che sembra mantenere indistinta nella categoria della comunità contingente, cioè della comunità organica e riflessiva, retta da un’intrinseca forza vitale e che non abbisognerebbe, quindi, né di strategie strumentali individuali, né di norme, né di principii. A seconda delle teorie il carattere attribuito a tale forza coesiva è però diverso e assume ora la forza di un preteso spirito nazionale, o di uno spirito del popolo, ora la forma di leggi della socialità, ora di un ordine spontaneo variamente connotato. E’ questo un problema di primo piano nel pensiero di Merlino e le critiche che mosse alle dottrine politiche del suo tempo possono riformularsi come il rigetto di tre delle quattro nozioni di comunità appena menzionate e come la rivendicazione di una di queste. Le teorie rifiutate sono quella della contingenza, attribuita da Merlino all’individualismo di un Benjamin Tucker, quella convenzionalistica, tipica d’ogni statualismo e, infine, quella organica, una cui tipica espressione è il comunismo di Kropotkin.
La comunità rivendicata da Merlino è, invece, quella dei principii, laddove, come il nostro dice: “Seguendo una regola non ci si sottomette a quel poco o tanto di coazione che questa è capace di esercitare o di mobilitare in suo sostegno, bensì al contenuto di giustizia, alla ragione che giustifica l’adozione e l’emanazione della regola medesima. Il principio cambia il carattere della norma, questa è sussidiaria a quello, e lo stesso vale per lo Stato, ovvero per le istituzioni politiche. Queste non sono tanto produttori di regole, come accade nel positivismo giuridico in generale e nel socialismo di Stato, quanto prodotti di principii, dunque permeabili a questi e da questi modificabili”.






In questa prospettiva lo Stato, in buona sostanza, si estingue poiché non è più sostanza giuridica primordiale, bensì, semmai, meccanismo d’implementazione di principii. Da questi dipende infatti la sua identità e così non accadrà che uno Stato si dia una costituzione, un corpo di principii più o meno coerenti, bensì che uno Stato si costituisce, ha origine, mediante una costituzione, la quale, dunque, rappresenta una cesura, temporale e normativa al tempo stesso, nella storia dell’istituzione statuale. Lo Stato, così sottoposto al processo di costituzionalizzazione, d’impregnamento di principii, cambia il carattere, per così dire “si redime”, del suo passato di violenza, arbitrio e monopolio, e si fa compatibile con un regime di anarchia, che, però, è qui non più prodotto di gnosi e di romantica volontà di autoaffermazione, bensì accettazione di una nozione di utopia come ideale normativo e non processo massimalista, che non ammette passaggi intermedi e rifiuta che possa darsi un meglio che non sia l’ottimo.
Non saremo più, dunque, dinanzi allo Stato truce e decisionista, al machstaat modellato secondo la tradizione della teologia politica di De Maistre, di Donoso Cortés o di Hegel che, si badi, è condivisa, sia pure negativamente, da Bakunin, il quale, non va dimenticato, a tale tradizione si era copiosamente abbeverato.
Per Merlino, alla teologia politica di Bakunin -non a caso spesso citato da Carl Schmitt- e alla filosofia della storia di Karl Marx, che sottende una medesima idea di Stato, va sostituita la filosofia politica di una scuola ben più civile di pensiero, quella che non identifica necessariamente lo Stato con lo Stato monopolista della forza, né le istituzioni politiche e la decisione politica con la violenza.
E’ questa la differenza essenziale della prospettiva del Merlino maturo rispetto all’anarchismo romantico e dogmatico, una differenza che riemerge in modo significativo allorché, nel primo dopoguerra, Merlino si riavvicina al movimento anarchico specifico. Uno degli episodi di questo suo rinnovato rapporto è la pubblicazione, per i tipi di una rivista di Malatesta Pensiero e Volontà, di un breve saggio dal titolo già perspicuo: Fascismo e Democrazia. Si tratta di uno dei suoi ultimi interventi pubblici ed il libretto è preceduto da una nota di Malatesta in cui l’anarchico prende le distanze, ancora una volta, dal vecchio amico.
Malatesta rimprovera a Merlino di non capire che, poiché emana leggi, la democrazia è forma di governo, ergo intrinsecamente oppressiva e fonte di dominio dell’uomo sull’uomo. Il parlamento, sottolinea Malatesta, non è luogo di consultazione e deliberazione, bensì organo legislativo e ciò fa tutta la differenza. Infatti, mentre per Merlino le leggi possono essere, a certe condizioni, il risultato di discussione e di accordo, per Malatesta qualunque legge, comunque essa si formi, poiché ha una pretesa di eseguibilità è immediatamente autoritaria e vulnera la libertà individuale.
La differenza è tutta qui: per l’uno, Malatesta, lo Stato è solo governo, anzi: governo di pochi e polizia; per l’altro, Merlino, lo Stato è innanzitutto una comunità, una dimensione collettiva, portatrice d’interessi generali e come tale, per l’appunto come comunità di principii, è accessibile ad un trattamento discorsivo, può essere parlamentarizzato e costituzionalizzato, dunque modificato in profondità se le sue decisioni assumono carattere rappresentativo, deliberativo e universale.
Dunque, per Merlino, pensatore profondamente laico, l’anarchismo non assume i tratti romantici della realizzazione esistenziale del sé, del volk o quelli, più o meno mistici, più o meno pietistici, della testimonianza. Per lui non si tratta né di esaltare la propria presa sul mondo, né di fondersi in qualche mare comunitario, né di sfidare Dio a sconfessare se stesso e la politica è ben altro ed ha più modeste ambizioni: ragionare, discutere, agire pubblicamente, negoziare, accordarsi: il regno di Dio non è di questa terra e l’anarchia è solo quella possibile.