Pinelli - Una finestra sulla strage
di Camilla Cederna
Mezzanotte è passata da poco, ma è difficile dormire bene dopo
una giornata come quella del 15 dicembre 1969, dopo il funerale delle vittime
della Banca dell'Agricoltura. Come se tutta quell'angoscia fosse entrata nelle
ossa insieme a una nebbia mai vista che rendeva bassissimo il cielo e nero il
mezzogiorno. E con ancora nelle orecchie l'eco dei singhiozzi delle famiglie
mentre il coro delle voci bianche in Duomo pregava Dio di aprire le porte del
cielo ai loro parenti straziati. Poi quel silenzio compatto, monumentale, che
aveva salutato le bare sul sagrato, quei grappoli oscuri di gente ai balconi
e alle finestre, quel tappeto di folla immobile e buia nel buio che copriva
tutta la città paralizzata, una quantità di gente venuta da lontano
a circondare il Duomo, visi chiusi, espressioni sgomente, un dolore unanime
e una tensione quasi fisicamente percepibili.
Cinque ore in Duomo in piedi a un banco per meglio vedere e sentire, un'ora
in giro dopo, a casa a scrivere uno degli articoli più difficili di una
lunga carriera (dovevo cominciare dalle bombe del 12, da tutto quel sangue,
i rottami, i carabinieri che svengono, il sindaco che esce dalla banca col viso
color terra, i parenti che vengono portati via piegati in due con la faccia
tra le mani, i racconti degli scampati, il volo dei corpi mutilati sotto la
cupola del salone, ecco la guerra, i bombardamenti, il caos, il massacro, il
macello, ecco l'odor di guerra, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne
bruciata e di zolfo). E adesso a letto col sonno che non arriva.
Arriva invece una telefonata. "Sei già a letto? Non importa. Fra
cinque minuti davanti al tuo cancello." "Perché?" "Un
uomo si é buttato da una finestra della questura, non farci aspettare,
andiamo a dare un'occhiata." Sono due amici coi quali ho sempre corso in
questi giorni, Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, hanno la faccia e i modi di
questi giorni, gesti frettolosi, rabbia e dolore negli occhi.
Via di corsa al Fatebenefratelli dove è stato trasportato il morente:
nell'atrio c'è un gruppetto di poliziotti. Curiosa come sempre, guardando
davanti a me come se qualcuno mi aspettasse con ansia, mi dirigo verso le stanzette
del Pronto Soccorso. Mi imbatto in poliziotti in borghese, riesco a vedere i
piedi di un uomo disteso su un lettino, mi viene incontro il medico capoturno
(saprò dopo che è Nazzareno Fiorenzano).
Prima che alle mie spalle un giornalista concorrente faccia segno a un agente
di non lasciarmi passare, il medico mi dà notizie del nuovo arrivato.
"Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente,
lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di
tutto, ma non c'è niente da fare, durerà poco." Fa a tempo
a chiedermi se so chi è quest'uomo con la barbetta che è stato
accompagnato all'ospedale da una scorta imponente della questura, dirigenti
in testa e anche carabinieri, perché a lui, nonostante l'avesse chiesto
più d'una volta, non avevano voluto rispondere. "È un anarchico,"
gli dico, "si chiama Giuseppe Pinelli," l'ho saputo un minuto prima,
senza rendermi conto naturalmente che sarebbe diventato per me un nome dei più
familiari, che di lì a pochi mesi mi sembrerà d'averlo conosciuto
da sempre, lui, i suoi sogni, la sua generosità leggendaria, la sua sete
di sapere, la sua voglia di vivere, le sue bambine, la moglie Licia che un po'
l'ammira e un po' lo prende in giro.
E adesso come non correre a casa sua a parlare con la moglie? Via Preneste 2,
una casa popolare, una povera scala: e già due cronisti del "Corriere"
che la scendono in fretta. Sono stati loro ad avvertire la signora Pinelli che
suo marito si è gettato dalla finestra. E noi siamo lì subito
dopo, io almeno con quel senso di vergogna che prende un giornalista quando
entra nella casa del dolore, a tendere il collo sopra il taccuino, a far domande
alle volte anche crudeli a chi piange. Ma Licia Pinelli non piange, ed è
per questo che fa più impressione: è lì tutta dritta nella
sua vestaglietta rosa dal collettino ricamato, con un bel viso grigio di pallore
e gli occhi intenti che han sotto un alone scuro. Parla piano per non svegliare
le bambine, ma, decisa a non lasciarci entrare, socchiude appena la porta, e
sta lì ben piantata in quella fessura, a difendere la sua casa.
La sua voce è ferma, senza incrinature: il marito lei non lo vede dal
pomeriggio del 12, da quando, dopo aver dormito fino a mezzogiorno e dopo aver
fatto da mangiare era uscito a prendere la tredicesima. Lei sa che poi era andato
alla sede del Movimento anarchico, sa che ha seguito i poliziotti in questura,
lui le ha telefonato due volte al giorno per dirle di star tranquilla, tanto
è abituato a questi incontri; e hanno fatto anche una perquisizione in
casa, bisognava vedere com'erano spaventati i poliziotti da tutti quei libri:
avevan finito col portare via qualche documento e delle lettere personali. Certo
che non è per la violenza, è partigiano della fratellanza universale,
lui vuole soltanto una società più umana. Le hanno detto soltanto
che si è buttato, non le hanno detto ancora che è morto: mentre
parliamo, passa tra noi e la porta una vecchietta dagli occhi rossi e il fazzoletto
nero in testa: è la madre di Pinelli che corre all'ospedale.
Ed è ora per noi di andarcene: ce lo fa capire senza dircelo la signora
Licia, la cui dignità, non solo fisica, colpisce soprattutto i due uomini.
La notte però non è finita se non si fa un salto in questura.
In fondo al cortile a sinistra, sotto un grande arbusto dai rami spogli (e qualcuno
è a terra spezzato), tra una palma e un abete, c'è ancora un'umida
macchia, quasi un'oscura impronta della recente caduta: ma non c'è bisogno
di passar di là per raggiungere lo studio del questore Marcello Guida:
sta al primo piano nel corpo anteriore di quello che è stato una volta
il mio liceo, è proprio dove c'era l'ufficio del preside, e qualche volta,
in tempi ormai molto lontani, in occasione di un sette in condotta per un'indisciplina
flagrante, ero stata chiamata in quella stanza da un vecchio accigliato per
un rimbrotto severo.
Tutta diversa l'atmosfera di questa notte: aspettiamo qualche minuto che esca
un uomo dall'aspetto stravolto (è l'on. Malagugini, corso a parlare con
le autorità a pochi minuti dal fatto): e siamo ricevuti con gentilezza
insieme a chi aspettava con noi, la giornalista Renata Bottarelli dell' "Unità,"
il giornalista Giampietro Testa del "Giorno." Comode le poltrone,
spesse le tende, giustamente decorativi i quadri Ottocento alle pareti, belle
verdi le piante negli angoli, un'atmosfera rilassata, anzi quasi euforica, come
se niente di così terribile fosse successo da poco a pochi metri di là,
o come se quello che era successo avesse finalmente sciolto un difficile nodo;
e un bel sorriso sul volto roseo del questore che, vestito di grigio e cravatta
azzurra come i suoi occhi, ci viene incontro tendendo la mano. "La signora
Cederna?" mi fa. "Sono contento di conoscerla, la leggo sempre, le
dirò anzi che sono un suo ammiratore, che mi diverto a leggere i suoi
articoli" (certamente non immaginando come di lì a poco e per due
anni almeno i miei articoli l'avrebbero reso furioso), quindi con un gesto di
cordiale benvenuto ("vuol fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuol che
apriamo la finestra? Per carità, allora fumiamo noi...") mi fa sedere
in poltrona. Mi sforzo di guardare tutto, di non perdere un particolare, un
tono di voce; non so come, ma sento che è una notte importante, una circostanza
che certo avrà un seguito.
Alla destra della poltrona del questore c'è la bandiera, alla sua sinistra
stanno schierati gli altri funzionari, il capo dell'ufficio politico Antonino
Allegra, il commissario Luigi Calabresi con uno dei suoi pullover di cashemire
chiaro dal collo alto che fanno di lui, se non l'uomo più elegante, almeno
il più moderno della questura. Una scena che non dimenticherò
mai, un salotto in cui mancava appena che venisse offerto un bicchiere di whisky,
un tono leggero e mondano, appena incrinato da un'altra presenza: da quel tenente
dei carabinieri in uniforme che stando un po' in disparte ogni tanto se ne andava
su e giù sullo sfondo, ed era il tenente Savino Lo Grano, l'unico a parere,
ad alcuni di noi, inquieto e turbato.
Il questore Guida non l'avevo mai visto: all'una e mezza di notte e in quel
salotto mi parve l'immagine del gentiluomo napoletano di vecchio stampo, di
piglio garbato e di eloquio condiscendente, né ancora sapevo che nel
'42 aveva diretto il confino politico di Ventotene. Il dottor Allegra l'avevo
conosciuto a una conferenza stampa il 26 aprile dopo gli attentati alla Fiera
e alla stazione, con un cartoccio in mano, e dentro del filo metallico, una
specie di rocchetto e una rotellina da mostrare ai giornalisti, la prova, secondo
lui, insieme a un disegno incomprensibile, che gli attentati erano "quasi
sicuramente di matrice anarchica." Di Calabresi sapevo che sulla mia agenda
degli indirizzi figurava tra i vari funzionari di questura e, tra parentesi,
avevo scritto quello che mi aveva suggerito un amico, cioè "intellettuale"
(quello che leggeva, che stava al corrente).
Che non fosse un intellettuale me n'ero dovuta però accorgere per la
prima volta un paio di mesi prima. Infatti, quando in occasione di un articolo
sull'ordinanza del consigliere istruttore Antonio Amati che respingeva le istanze
di scarcerazione di cinque anarchici detenuti da cinque mesi per gli attentati
del 25 aprile (con una motivazione che sarebbe piaciuta a Ferravilla: "Perché
risultavano prove evidenti, prove certe essendo state raggiunte"), proprio
allora l'avevo visto in azione.
Per ben due volte in settembre (un giorno in occasione di una manifestazione
di anarchici che protestavano contro la reclusione dei loro compagni, un altro
giorno durante uno sciopero della fame fatto sempre davanti al palazzo di giustizia
per solidarietà coi detenuti), sui dimostranti avevo visto abbattersi
a ondate successive gruppetti di funzionari di questura. Con scatto deciso e
cupa eccitazione, a più riprese i questurini eran balzati fuori dalla
1100 blu a strappare i cartelli, a minacciare i dimostranti, infine a malmenarli
con durezza. Sempre di corsa e in composizione alterna erano cinque uomini fra
cui i commissari Pagnozzi e Zagari, il vicequestore Luigi Vittoria, e il più
ginnasticato ed elastico di tutti, precisamente il bruno Calabresi, dal ciuffo
denso e il colletto dolcevita. (Di qui la denuncia alla Procura contro di loro
per attentato ai diritti politici dei cittadini; e l'avevano firmata, oltre
a dei passanti esasperati, anche alcuni avvocati del Comitato di difesa e di
lotta contro la repressione.)
Ed eccolo, il Calabresi, nello studio del questore, la notte dal 15 al 16 dicembre,
che annuisce gravemente a quel che dice il suo superiore. "Cos'è
successo, chi era il Pinelli, perché si è buttato?" le domande
dei giornalisti. E il questore: "Era fortemente indiziato di concorso in
strage... era un anarchico individualista... il suo alibi era crollato... non
posso dire altro... si è visto perduto... è stato un gesto disperato...
una specie di autoaccusa insomma..." (queste le frasi scritte sul mio taccuino).
"Era fermato o arrestato?" chiede uno di noi. "Il suo era un
fermo di polizia prorogato dall'autorità." Alla domanda sul perché,
con quel freddo, la finestra fosse aperta, aveva risposto: "Per via del
fumo. Fumavano tutti, fumava anche lui."
Al momento della domanda sull'identità del personaggio era stato Allegra
a rispondere: "Lo conoscevamo da tempo, era stato interrogato anche per
gli attentati del 25 aprile. Era un esponente anarchico, responsabile del Circolo
della Ghisolfa." E qui era intervenuto il Calabresi con la sua voce bassa
e ovattata: "Lo credevamo incapace di violenze, invece... è risultato
collegato a persone sospette... le sue erano implicazioni politiche..."
Parla con calma, quasi con ponderazione, nessuno lo direbbe il funzionario che
un'ora prima, quando Licia Pinelli gli aveva telefonato per chiedergli se era
vero che suo marito era caduto dalla finestra, e perché non l'avesse
avvisata, non aveva trovato altro da dire: "Ma sa, signora... abbiamo molto
da fare."
Alla domanda finale sul come fosse avvenuto il salto, riprese a parlare il questore:
"Gli si è detto che erano successe alcune cose. Gli è stato
fatto il nome di una certa persona. Eravamo in fase di contestazione di indizi.
Evidentemente a un certo punto si è trovato come incastrato. Allora è
crollato psicologicamente. Non ha retto... Non è stato verbalizzato niente"
(sempre dal mio taccuino).
Il colloquio è finito, la notte è cupa e freddissima, non c'è
una persona in giro, ognuno di noi è perplesso, scosso, scontento, e
naturalmente non ha sonno. Quelli dei quotidiani corrono ai loro giornali, io
torno a letto in stato di confusa stanchezza, continuando a ripensare a quanto
ci hanno detto questi signori tranquilli, a chiedermi cosa mai ci potesse esser
dietro la loro mimica e i loro sorrisi, la loro disinvoltura quasi salottiera:
rivedo Licia Pinelli, tragicamente impavida sulla soglia di casa, mi ricordo
di altri caduti dalle finestre della questura durante un interrogatorio (uno
in Venezuela, un altro in Grecia, mi pare, e poi il comunista spagnolo Grimau),
e al mattino rimetto insieme i brandelli di un sogno, che formano un preciso
ricordo, quel che era capitato alla mia zia Bice, all'indomani della Liberazione.
Aveva passato una notte in questura, in seguito alla fuga di un uomo da casa
sua (più precisamente dalla metà dell'appartamento che le era
stato sequestrato durante la guerra per far posto agli sfollati, e a lei era
toccato un fascista di Savona). Della fuga lei non sapeva niente perché
quel tale aveva il suo ingresso particolare, ma l'avevano portata lo stesso
in questura. E nello stanzone dei fermati, dato il suo aspetto tranquillo e
dabbene, le si era avvicinato un tipo spaventato a chiederle aiuto, dandole
anche nome e indirizzo perché in caso di disgrazia per favore avvertisse
sua moglie. In breve: l'avevano preso a caso per l'uccisione di un inglese,
alle sue proteste d'innocenza non avevano creduto; comunque, attardandosi un
momento fuori dalla stanzetta dell'interrogatorio, aveva sentito i due agenti
parlottare fra loro: "Be', facciamo così: quando stasera andrà
al gabinetto, lo buttiamo giù dalla finestra." Perciò aveva
passato una notte quasi avvinto al braccio di mia zia; con rabbia degli agenti,
all'intimazione di andare al gabinetto, aveva risposto che non ne aveva alcun
bisogno. Finché al mattino, all'arrivo del giovane questore in carica
da poche ore (di nome Rossi), la zia Bice aveva insistito perché il giovanotto
allarmato gli raccontasse ogni cosa. Un paio di giorni dopo gli aveva telefonato:
era tornato felicemente a casa, ma ancora in preda allo choc.
Sui giornali del mattino, appare la versione della questura. Pinelli si è
gettato intorno alle 23,50. "Nell'ultimo interrogatorio il dottor Calabresi
gli aveva rivolto contestazioni piuttosto precise e lui si era sbiancato in
volto. Allora il commissario se n'era andato per riferire ad Allegra, e, nonostante
i cinque uomini nella stanza, il Pinelli aveva spiccato un balzo felino buttandosi
nel vuoto." Nel confermare che Pinelli era sospettato per gli attentati
del 25 aprile a Milano e sui treni in agosto in varie località italiane,
il "Corriere della Sera" riferisce altre parole di Guida: "Era
tutta una catena di sospetti: il principale era per venerdì e poi si
andava indietro."
Che nei tre giorni di interrogatori apparisse tranquillo, rispondendo sicuro,
paco di parole, spesso sardonico alla richiesta di informazione, era l'opinione
comune, "perché allenato a questo tipo di indagini ed era difficile
riuscire a metterlo in difficoltà." Ma durante l'ultimo supplemento
di interrogatorio "era successo qualcosa che ha inspiegabilmente spezzato
in lui quell'apparente maschera di serenità e di distacco... Ha risposto
calmissimo alle prime domande... Si è reso subito conto tuttavia che
gli inquirenti erano venuti a conoscenza di qualcosa che gli premeva tener nascosto.
Le contestazioni si sono fatte serrate. Poi stavano per essere sospese. Ma sul
far della mezzanotte un'ultima contestazione gli è stata rivolta dal
funzionario e dall'ufficiale. Un nome, un gruppo, li conosceva? li aveva visti?
e quando? Poi, loro usciti dalla stanza, d'improvviso lo scatto di Pinelli:
la finestra era socchiusa, lui ha spalancato i battenti e si è gettato
nel vuoto."
La sera del 16 vedo alla televisione Guida e il suo bel faccione pacioso, che
tranquillizza gli italiani sulla fine del Pinelli. All'indomani titoli enormi
sui giornali. Pietro Val preda è stato arrestato per la strage alla banca,
il tassista portato in aereo a Roma l'ha subito riconosciuto. Così si
mette a posto il mosaico della questura. Logico che il 12 pomeriggio all'anarchico
Sergio Ardau, prelevato al circolo di via Scaldasole e portato in questura da
Calabresi e dal brigadiere Panessa sulla loro 850 blu (mentre Pinelli andrà
dietro col motorino), Calabresi parli subito di "certi pazzi criminali
che si sono infiltrati fra voi, tra cui il Valpreda..." e gli chieda se
ultimamente l'ha visto e se frequenta il circolo.
Ben riuscito il colpo di fermare Valpreda il 15 mattina all'uscita dall'ufficio
del giudice Amati che l'aveva convocato per un affare di manifestini anti-papa.
Quale di segno può andar meglio di questo, dal momento che come dinamitardi
sono stati scelti gli anarchici? (Subito dopo l'esplosione il giudice Amati,
telefonando in questura, aveva consigliato di iniziare le indagini fra di loro,
mentre la sera stessa all'inviato della "Stampa" Calabresi dichiarerà
che i responsabili sono da cercare fra gli estremisti di sinistra e conclude:
"è opera degli anarchici." Mentre a un giornalista che la sera
stessa gli chiedeva se secondo lui la strage poteva esser collegata a qualche
altro precedente attentato, "sì," aveva risposto Guida, "alle
bombe del 25 aprile.") Ecco che un anarchico ha provocato la strage, ma
non basta; c'è un altro anarchico che "una volta scoperta la matrice
della strage" si suicida, avallando questa tesi. Secondo le prime notizie
ufficiali che resteranno tali per molti mesi, Calabresi dice a Pinelli: "Inutile
che tu continui a negare. Il tuo amico Valpreda ha già confessato."
Pinelli allora si sbianca in volto (mai che, cambiando i testimoni, qualche
volta cambi anche il verbo) e grida: "Allora è la fine dell'anarchia!",
quindi siamo al balzo felino. Si parla di "saldatura del cerchio delle
indagini," di "conclusa stretta finale," di "anelli sparsi
riuniti in catena," della "raggiunta precisa fisionomia del crimine,"
mentre nei giornali del pomeriggio Valpreda lo chiamano "la belva umana,"
o semplicemente "la bestia," il massacratore, la iena, che per fortuna
ha una "feroce morsa" nelle arterie delle gambe, il galoppante morbo
di Bürger.
L'affare Valpreda, il percorso del tassì, le contraddizioni del Rolandi
(chi scrive che in quella cupa notte dal 12 al 13 era già andato in questura
a denunciare il suo strano cliente, mentre secondo il professor Liliano Paulucci,
sarà lui a persuaderlo tre giorni dopo ad andare a raccontar tutto),
il processo tolto di mano al giudice milanese e trasferito a Roma, la composizione
del Circolo XXII marzo, il gran parlare che si fa del ballerino segregato a
Regina Coeli e chi crede i suoi alibi di Milano e chi non ci crede; son tutti
fatti che occupano l'opinione pubblica e i giornalisti, distraendoli temporaneamente
dal caso Pinelli.
Gli hanno fatto il funerale il giorno 20 dicembre, c'erano vecchi anarchici
col nero cravattone svolazzante, i soliti ragazzi delle manifestazioni con i
colbacchi e frange di barba di varia lunghezza, tutti i giovani professori e
studenti che davano da battere a macchina le loro tesi alla signora Licia, e
un bel po' di quanti non conoscevano il Pinelli ma non hanno creduto al questore.
Bandiere nere nella nebbia, la polizia che fa sciogliere il corteo, i compagni
del morto che davanti alla fossa n. 434 nel campo 764 di Musocco cantano l'Internazionale
e Addio Lugano bella, i poliziotti tutti in gruppo, e vestiti di scuro,
al di là di una fila di croci.
Ma Pinelli è e resterà sempre un morto ingombrante. Seppellito
dentro la sua bandiera nera, non dà pace ai vivi che l'hanno portato
alla tomba. Il suo nome infatti torna fuori sempre più di frequente,
a poco a poco diventa come un rimorso comune, una causa di fondo disagio, infine
un'accusa. Ben presto (il giorno dopo per i suoi amici) diventano flagranti
menzogne le dichiarazioni di Guida, intanto cresce di continuo la gente che
vorrebbe sapere come sono andate davvero le cose quella tal notte in questura,
chi l'ha conosciuto ne parla e ne scrive, facendo il ritratto tanto di un uomo
del tutto estraneo a qualsiasi episodio di violenza, come assolutamente alieno
dal volersi togliere la vita.
Comincia a circolare fra i giornalisti la lettera che proprio il giorno 12 Pinelli
ha scritto a Paolo Faccioli, il più giovane degli anarchici incarcerati
per gli attentati del 25 aprile. Gli chiede che libri vuole, lui gli manderebbe
l'Antologia di Spoon River ("non posso mandartene di politici perché
me li renderebbero"), ricordandogli fra l'altro che "l'anarchismo
non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla. Esso è
ragionamento e responsabilità e questo lo ammette anche la stampa borghese;
ora speriamo lo comprenda anche la magistratura. Nessuno riesce a capire il
comportamento dei magistrati nei vostri confronti."
Sull' "Espresso," e sull' "Astrolabio," ai primi di febbraio
viene pubblicata la lettera di Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza
cattolico, amico del Pinelli, ed è giusto che a due anni di distanza
la legga chi allora se l'era lasciata sfuggire. "Aveva seguito gli sviluppi
del mio processo negli ambienti cattolici (soprattutto fiorentini) ed era come
affascinato dal tipo di testimonianza. Conosceva, e non per sentito dire, movimenti
e gruppi che si ispiravano alla non-violenza e voleva discutere con me sulle
possibilità che la non-violenza diventasse strumento d'azione politica
e l'obiezione di coscienza stile di vita, impegno sociale permanente.
"Io gli parlavo di `società basata sull'egoismo istituzionalizzato,'
di `disordine costituito,' di `lotta di classe' e lui mi riportava oltre le
formule, alla radice dei problemi, incrollabile nella sua fede nell'uomo e nella
necessità di edificare `l'uomo nuovo,' lavorando dal basso. Poi ci vedemmo
in molte altre occasioni e i punti fermi della nostra amicizia divennero don
Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, due preti `scomodi,' che hanno lasciato
il segno e non solo nella chiesa.
"Viveva del suo lavoro, povero `come gli uccelli dell'aria,' solido negli
affetti, assetato di amicizia, e gli amici li scuoteva con la sua inesauribile
carica umana. Le etichette non mi sono mai piaciute. Quella che hanno appioppato
a Pinelli: `anarchico individualista,' è melensa, per non dire sconcia.
Si è sempre battuto infatti contro l'individualismo delle coscienze addomesticate:
lui, ateo, aiutava i cristiani a credere (e lo possono testimoniare tanti miei
amici cattolici); lui operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente
liberi da schemi asfittici. Non ignorava le radici sociali dell'ingiustizia,
ma non aveva fiducia nei mutamenti radicali, nelle `rivoluzioni' che lasciano
gli uomini come prima. Paziente, candido, scoperto nel suo quotidiano impegno,
era lontano dagli `estremismi' alla moda, dalle ideologie che riempiono la testa
ma lasciano vuoto il cuore. Stavo bene con lui, anche per questo."
È sempre Gozzini che poi mi parlerà di lui, di com'era genuino,
pieno di intuizioni intelligenti, di come sapeva leggere, assimilando bene,
smaltendo in fretta. Di come gli
piaceva aver intorno tanta gente per parlare, tirar tardi la notte a discutere,
magari sull'ultimo libro di don Milani. Sapeva stare a suo agio con gli operai
e coi borghesi, coi cattolici e coi giovani beat. "È orribile pensare
che si sia potuto sospettare di lui. Che si fosse ucciso non ci ho mai creduto.
Alla notizia ho pensato che `fosse stato morto,' ecco quello che ho pensato."
Mentre sulla sua morte viene aperta un'inchiesta che la magistratura affida
al sostituto procuratore Giovanni Caizzi, e che vien condotta nel massimo segreto
(impedendo tra l'altro che la madre e la vedova si costituiscano parte civile),
non passa giorno, si può dire, che attraverso i giornali, le confidenze
degli amici, una conversazione con la mamma e la moglie, non si impari qualche
cosa di nuovo sulla figura del Pinelli, la quale a poco a poco diventa sempre
meno segreta, anzi assume contorni precisi: non è più soltanto
"il ferroviere anarchico autodidatta" dei primi giorni, con la barba
nera, il sorriso pungente, gli occhi castani.
Parlo ancora con dei giovani intellettuali, con Bruno Manghi e con Luigi Ruggiu,
redattori ambedue di "Questitalia," la rivista del dissenso cattolico,
e il ritratto, invece di scolorire col tempo, si fa sempre più vivo;
il personaggio ambiguo presentatoci in questura spicca subito come eroe positivo.
Quello che colpiva di più quanti capitavano in casa sua magari per far
copiare a macchina un saggio o una tesi, e immancabilmente si trovavan di lì
a qualche giorno a colazione dai Pinelli, era il carattere tradizionale della
famiglia. Soltanto due le stanze nella casa francamente brutta, costruita intorno
agli anni Quaranta, ma sempre il modo di sistemare un ospite di passaggio o
un amico senza un soldo.
Così esuberante, giovane, eccessivo, agli amici intellettuali Pinelli
pareva un personaggio del passato, un po' sul tipo di quegli operai comunisti
che la sera leggevano
Gorki. E sembrava loro che appartenesse al passato anche per quel suo frequente
discorso sui valori piuttosto che sulle strategie politiche o sul problema del
potere, abbastanza tipico di una certa categoria di anarchici. Una sua idea
fissa era quella dell'avvicendarsi delle cariche e dei ruoli in una società
dove tutti contassero in modo uguale, per evitare la scissione tra il lavoro
manuale e quello intellettuale.
Era uno dei suoi discorsi preferiti e una delle sue più ingenue speranze.
Ma la sua ingenuità si rivelava anche nel rispetto per la cultura con
la C maiuscola: chiedeva a tutti che gli traducessero certi brani di riviste,
mentre la sua visione internazionale dell'anarchia si rivelava, oltre che nei
suoi discorsi, anche nella cura con cui conservava documenti e scritti in lingua
straniera (cubani, svedesi, spagnoli) che non sapeva decifrare, ma gli davano
forse il senso della presenza del movimento al di là dei confini dell'Italia
e dell'Europa. Teneva discorsi, organizzava marce, era membro attivo di quel
Centro di tutela e di solidarietà degli anarchici che è la "Croce
Nera," di aiuto inoltre ai perseguitati politici e alle loro famiglie,
a chi è in carcere o di passaggio.
La ferrovia era un grosso mito per lui, e agli amici raccontava i tratti umani
di questo suo lavoro, mai cose tecniche, ma storie e vite di ferrovieri. L'equilibrio
della piccola famiglia era tale che marito e moglie spesso e volentieri si scambiavano
il lavoro casalingo: lei a scrivere a macchina le tesi che la interessavano
(ed imparava sempre qualcosa di nuovo anche lei esercitando a sua volta un'autorità
quasi materna sui giovani universitari), lui invece che portava a scuola le
bambine, le andava a prendere, faceva la spesa al supermercato e per divertirsi
faceva benissimo da cucina: il risotto se appena c'era un ospite era la sua
specialità, insieme alla polenta e al coniglio arrostito con le erbe.
Non tollerava che qualcuno si drogasse, irritandosi se da qualche altro sentiva
vantare un'eccessiva libertà di rapporti sessuali. Vestiva francamente
male, ma non era il malvestito in costume di oggi; lui non badava a quel che
aveva addosso, magari la giacca con le spalle cascanti, le scarpe scalcagnate,
il colletto con una punta qui e una là.
La madre racconta che da ragazzo il suo Pino si era esercitato alla boxe in
palestra, ma aveva smesso presto perché gli seccava picchiare, non sapeva
farlo, detestava il corpo a corpo, la colluttazione. La moglie amava in lui
tutti quegli aspetti spiccioli di bontà, sensibilità e gentilezza,
ma si preoccupava anche un po' per gli elementi di disordine materiale che comportava
una vita come la sua, così spesso fuori dalla famiglia (come aveva cominciato
a fare in quel caldo 1968), e poi sempre gente fra i piedi, anarchici, ferrovieri,
studenti di sociologia, economia, filosofia, psicologia ("tu t'impegni
troppo e su troppi quadranti, non sei mai a casa quando ti vorremmo").
Ma proprio anche attraverso la moglie, Pinelli aveva fatto molti incontri e
rafforzato la sua fiducia sull'"appropriazione" del sapere. Eran cinque
o sei tra i suoi migliori amici a sapere che negli ultimi mesi della sua vita,
per esempio anche durante l'ultimo sciopero della fame degli anarchici davanti
a San Vittore, Pinelli aveva ricevuto dure minacce dalla polizia. Passato il
tempo da quando Allegra e Calabresi gli avevano regalato Mille milioni di
uomini di Enrico Emanuelli; ora lo guardavano scuri in viso, spesso provocandolo,
e una volta lo avevano anche severamente avvertito di stare attento ("potresti
anche perdere il posto"). Si era accorto di esser pedinato.
Mentre s'imparano particolari sconosciuti sulla sua vita, si comincia a indagare
sulla sua morte: sono sempre gli amici che schedano tutti i giornali, annotano
tutte le contraddizioni e le illegalità che emergono dalle dichiarazioni
dei funzionari di polizia, fan tabelline con gli orari ufficiali (ma sempre
contrastanti) tra la sua caduta e la chiamata dell'autoambulanza. Si sa che
Pinelli resta in questura oltre le quarantotto ore regolamentari, che i poliziotti
cominciano il gioco delle telefonate: "Signora" (in tono calmo e indulgente)
"dica in ferrovia che suo marito è malato, insomma non c'è
bisogno di far sapere in giro che sta in questura..." Ma dopo qualche ora,
in tono più brusco: "Telefoni alla ferrovia, dica che Pinelli è
fermato... Che è fermato per la strage..." (e la famiglia, com'è
logico, sospetta che la seconda telefonata serva per impaurire Pinelli, per
ricattarlo sul fronte della perdita del lavoro).
Chi poi ascolta il dottor Fiorenzano, il medico di guardia che vide per primo
il Pinelli dopo il volo? Nessuno: solo quattro mesi dopo infatti il magistrato
lo manderà a chiamare. Dall'autopsia compiuta precipitosamente nell'istituto
diretto dall'ex rettore professore Mario Cattabeni, vengono esclusi i periti
di parte, e se ne tenga bene a mente la conclusione, cioè quella frase
vuota di significato a firma dei professori Ranieri Luvoni, Guglielmo Falzi
e Franco Mangili che dice: "le ferite riscontrate sul corpo concordano
con le modalità descritte." Punto e basta.
Intanto il 28 dicembre la madre e la vedova di Pinelli (quest'ultima anche a
nome delle figlie Claudia e Silvia) presentano un atto di denuncia e di querela
nei confronti del questore di Milano Marcello Guida (c'è solo un precedente
in proposito: quando venne querelato il questore Polito in occasione del processo
Montesi). Lo querelano perché nelle dichiarazioni fatte alla stampa nella
notte fatale rilevano una diffamazione continuata ed aggravata anche dall'abuso
delle pubbliche funzioni da parte del questore. (Nel documento inoltre si riportano
altre frasi dette sempre da lui a una delle tante conferenze-stampa all'indomani
della morte, dopo l'affermazione che l'alibi era saltato. "È stato
coerente coi suoi principi. Se fossi stato in lui avrei fatto la stessa cosa.
Quando ha visto che la legge lo aveva preso, si è tolto la vita"
e poi: "è stato come un cupio dissolvi... Non vorrete pensare che
l'abbiamo gettato noi..." Le querelanti si riservano di concedere a Guida,
nel corso del dibattimento, la più ampia facoltà di prova della
verità delle sue dichiarazioni.)
"Non vorrete pensare che l'abbiamo gettato noi." Frase temeraria.
Quanti desiderano esercitare quella facoltà comune alla maggior parte
degli uomini, cioè il ragionamento, ben presto sospettano. Si cercano
delle risposte a troppi interrogativi che ne mancano irrimediabilmente. Si sa
che è Calabresi che conduce l'interrogatorio di Pinelli, ma subito dopo
la caduta egli dichiarerà che in quel momento nella stanza lui non c'era
perché in visita da Allegra. Invece uno dei fermati in sosta dentro uno
stanzone da cui poteva vedere tanto il corridoio come la porta d'Allegra, precisamente
l'anarchico Pasquale Valitutti, racconterà di non aver visto Calabresi
entrare dal capo della Politica, ma di averlo poi sentito parlare nel corridoio
"dopo dei rumori sospetti come di una rissa," così ha pensato
che Pinelli fosse in quella stanza e lo stessero picchiando, quindi "avevo
sentito un altro rumore come di sedie smosse e visto gente che correva in corridoio
gridando: `Si è buttato, si è buttato!' "
Finito il trambusto, a Valitutti Calabresi aveva detto suppergiù: "Non
capisco perché l'abbia fatto
solo per qualche contestazione
niente
di drammatico..." E sempre Calabresi, interrogando il giorno dopo un altro
giovane, gli parlerà tutto il tempo di Pinelli, "ma perché
mai l'avrà fatto?" domandandosi a più riprese, per incaricare
poi il ragazzo(e aveva gli occhi umidi) di chiedere alla vedova se gli permetteva
di andare al funerale.
Non solo, ma l'11 gennaio, rilasciando un'intervista all' "Unità,"
dirà di Pinelli: "Non avevamo niente contro di lui, era un bravo
ragazzo, l'avremmo rilasciato il giorno dopo."
"Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l'avremmo rilasciato
il giorno dopo."
Non avevamo niente contro di lui, perché mai l'avrà fatto? Altre
frasi incaute, e queste sono di Calabresi che solo un mese prima, nella notte
delle lunghe menzogne, diceva di sì a tutto quello che enunciava il questore,
e a proposito di Pinelli parlava di torve implicazioni politiche, di collegamenti
con persone sospette. Com'è diventato cauto il commissario aggiunto in
questi ultimi tempi! Quando un giorno chiedo di parlargli, appunto per aver
qualche spiegazione sul suo mutato contegno, mi viene incontro come al solito
ben molleggiato, il passo elastico e la mascella risoluta: "Cara signora,"
mi fa, "finché il magistrato non deposita tutto, non posso parlare.
Questione di delicatezza: ho una parte anch'io in questa storia."
Già, non c'è nessuno che pensi il contrario; ma perché,
prendendo le sue distanze da Guida, oggi egli difende la memoria di Pinelli,
dopo averlo tenuto tre giorni in questura, cercando i motivi che potessero coinvolgerlo
nella strage recente e negli attentati, cospirando nel violare i suoi diritti,
dando ordini la vigilia del volo (tramite Pagnozzi, così riferisce Valitutti)
che gli venga riservato un trattamento speciale, non lo si lasci mai dormire
e lo si tenga sotto pressione tutta la notte?
È possibile che in seguito alla mobilitazione dell'opinione pubblica
a favore di Pinelli (racconti di autorevoli testi sui suoi provati ideali di
non-violenza, sul suo amore per il prossimo e la sua candida generosità,
lettere ai giornali di docenti universitari che ne rivendicano l'onestà
e la dirittura), Calabresi che è un uomo abile, furbo, abituato a muoversi
con un'autorità superiore al suo rango, ora desideri la riabilitazione
del morto? Come dire alla signora Pinelli: "Suo marito io glielo restituisco
pulito: la querela al questore lei l'ha già fatta, con le mie dichiarazioni
io ora mi metto al di fuori di tutta la faccenda." Così ad uno ad
uno i dubbi sorgono dai punti oscuri che continuano a rimanere tali, dagli angoli
d'ombra in cui non riesce ad arrivare un raggio di luce, dalle nebbie che continuano
a fasciare fatti e circostanze.
Se questo è il primo passo indietro, ne segue subito un altro, cioè
la notizia diffusa dalla nuova agenzia di stampa "In" e che si dice
raccolta dalla bocca di un agente di polizia, secondo la quale l'anarchico Giuseppe
Pinelli, subito dopo l'interrogatorio fattogli dal commissario Calabresi, si
sarebbe accasciato sulla sedia colpito da un collasso cardiaco, quindi: "Perduta
la testa, gli agenti l'avrebbero gettato dalla finestra, facendolo in modo tanto
maldestro da ritrovarsi con le scarpe del morto in mano."
Cerchiamo ora di procedere a fil di logica tentando di isolare qualche motivo
razionale nella condotta della polizia. Due sono i motivi in base ai quali essa
avvalora il suicidio: primo, era miseramente caduto l'alibi; secondo, Pinelli
era crollato alla notizia che avevano preso il Valpreda. Ma son pronte le ragioni
corrispondenti per escludere il volontario tuffo dalla finestra. L'alibi non
era crollato affatto, anzi Pinelli aveva sorriso a Mario Magni dopo la sua deposizione
che lo confermava in pieno (e poi anche Mario Pozzi dirà d'aver giocato
a carte con lui quel pomeriggio nel bar di via Morgantini).
Se poi gli avevano detto che Valpreda era colpevole, non era certo questo il
tipo di notizia che potesse sconvolgerlo: con Valpreda aveva avuto degli scontri
di carattere politico: da tre giorni non si faceva altro che incolpare gli anarchici,
e Pinelli sapeva bene come fosse possibile formulare su uno di loro accuse non
fondate. Lui il Valpreda lo considerava soprattutto un "baüscia,"
uno sbruffone, niente di più. Infine era noto a quanti lo frequentavano
da anni che Pinelli era profondamente avverso al suicidio.
Ci sono poi tutti i particolari tecnici che riguardano il modo di cadere di
chi si getta dall'alto. Nemmeno un graffio alle mani che nel volo pare inconsciamente
si aggrappino a qualsiasi sporgenza e si protendano a riparare la testa; non
un urlo che nella maggior parte dei casi pare esca dalla gola anche contro la
volontà del suicida. E invece anche il modo di precipitare è inconsueto:
il corpo non segue la traiettoria curva per via dello slancio indispensabile
a chi si butta dall'alto; è invece un cadere in tre tempi, tre tonfi
sordi, uno contro il primo cornicione, l'altro contro il secondo, infine lo
schianto a terra. Come poi riferirà il cronista Aldo Palumbo dell' "Unità,"
che assistendo alla caduta ha avuto un rapido pensiero: "Ma cosa diavolo
stanno facendo lassù? Perché buttano uno scatolone dalla finestra?"
E i medici dopo si meravigliano che a un morto gettatosi da così in alto
non sia uscito sangue dal naso e dalla bocca.
Allora com'è morto il Pinelli e perché? A questo punto uno è
autorizzato a tirar tutte le conclusioni che crede. Che sia valida l'ipotesi
di un incidente sul lavoro durante la fase calda dell'interrogatorio? Cioè,
in parole povere, che l'abbiano picchiato per fargli dire qualcosa? Oppure è
possibile l'ipotesi, avanzata prima sottovoce da molti, poi un giorno comparsa
sull' "Avanti!", di un fatale colpo di karaté? Forse che per
via di uno di questi colpi che non lasciano il segno, Pinelli si sia sentito
molto male, e sia caduto a capofitto nel tentativo di rimettersi con una boccata
d'aria? Oppure, terza ipotesi (quella suggerita dall'agenzia "In"),
che subito dopo l'interrogatorio fattogli da Calabresi, Pinelli sia stato stroncato
da un infarto?
A questo punto bisogna rifarsi a quei mesi in cui non era ancora noto, con tutte
le sue assurdità e le sue goffaggini, il decreto d'archiviazione; quindi
un altro interrogativo del momento è quello di cercar di capire perché
l'avevano trattenuto tre giorni in questura (mentre dopo quarantott'ore, come
vuole la legge, avrebbe dovuto essere portato a San Vittore). Cosa poteva in
effetti sapere il Pinelli e su cosa stavano interrogandolo nella fase più
scottante? Può darsi che il fermo fosse durato così a lungo perché
egli poteva dare notizie generiche sugli anarchici, e perché si cercavano
i suoi eventuali legami con gli attentatori. Forse aveva subìto fortissime
pressioni perché convalidasse il riconoscimento di una fotografia di
Valpreda e di lì si era acceso un violento diverbio. ("Non è
certamente legato alla strage," aveva detto invece un funzionario alla
madre la mattina del 15, "non sappiamo ancora se lo lasceremo andare fra
due ore o fra qualche giorno, il fatto è che ci fanno pressioni da Roma.")
O si temeva forse che, una volta fuori, parlasse troppo?
E quale l'argomento dell'interrogatorio in fase calda? (Si calcola che l'atmosfera
si sia arroventata verso le undici e mezzo, perché alle dieci il Pinelli
era stato visto che, tutto calmo, stava risolvendo le parole crociate.) Quanto
poi all'oggetto che scotta, è il suo libretto chilometrico, cioè
il tesserino su cui son segnati i suoi viaggi, e a proposito del quale alle
dieci il commissario Calabresi telefona alla signora Pinelli. "Può
cercarlo per favore? Occorrerebbe in questura." Alle dieci e dieci la signora
telefona che l'ha trovato; verso le undici arriva in via Preneste qualcuno della
questura a prelevarlo; alle undici e mezzo si può presumere che il libretto
sia nella stanza.
È proprio a proposito di questo libretto, precisamente sulla data di
un viaggio, che l'atmosfera si fa pesante. Roma è la meta, i giorni sono
quelli degli attentati sui treni, agosto 1969. A Pinelli vengono contestati
nomi, date, coincidenze: quindi della successiva fase tumultuosa si accorgerà
il Valitutti in attesa nel camerone, per via di quello strano rumore, come di
sedie che cadono e di colluttazione. E: "La concomitanza del viaggio con
gli attentati, comunque, convinse gli inquirenti che si era sulla pista buona.
Lo comprese anche il Pinelli, e il ferroviere fece la sua scelta: `la finestra
e il suicidio,' "scrive il "Corriere" in data 18 dicembre.
Tutto bene, se gli inquirenti ci avessero azzeccato, ma col tempo si vedrà
che invece eran del tutto fuori pista. Così, escludendo il suicidio,
altre ipotesi ancora si fanno avanti e diventano sempre più nere. Mentre
la polizia sta cercando di acquisire una serie di nomi e di circostanze che
servono a incastrare certi personaggi, improvvisamente scatta un altro meccanismo.
E la mente di Pinelli, che fino ad allora non aveva fatto certi collegamenti,
d'improvviso li fa. Insomma di colpo intuisce qualcosa di sorprendente, circostanze,
persone, legami che dei fatti di Milano danno una spiegazione assolutamente
in contrasto con la versione corrente. Ingenuo com'è, magari aggiunge
che 1'indomani andrà dal magistrato a riferire tutto, comunque ha capito
qualcosa che non doveva capire, ed è la sua intuizione che probabilmente
può spiegare il mistero della sua morte.
Altra congettura: a furia di contestargli fatti e circostanze, lui impallidisce
paurosamente. Vien presa allora una decisione improvvisa: lasciarlo qualche
minuto solo (non del tutto, è ovvio), per rientrare poi bruscamente di
lì a poco a provocarlo per riprendere l'interrogatorio. Azione che viene
eseguita alla lettera, ma subito dopo la brusca entrata e durante la brusca
contestazione, il Pinelli si sente male, anzi malissimo. Al punto che l'interrogatorio
si interrompe, il Pinelli si accascia sulla bassa ringhierina, e si rovescia
fuori. Oppure sta malissimo, i poliziotti si allarmano (come si fa domani a
far passare per buono l'infarto di un anarchico in questura?), e diventa attendibile
la tesi di "In."
Dovrebbero essere dei veterani, questi funzionari, coriacei ed esperti, tanto
consapevoli del loro potere; eppure di errori sembra ne abbian già commessi
una serie abbondante. Per esempio, si saran sbagliati tutti e quattro i giornalisti
presenti quella notte in questura nel situare la caduta a mezzanotte e tre minuti,
mentre secondo il cartellino del centralino dei vigili la chiamata dell'autoambulanza
risulta fatta a mezzanotte e cinquantotto secondi (poi si sposterà a
un minuto dopo la mezzanotte), cioè due minuti e due secondi prima dell'ora
indicata dai giornalisti? E perché a due giorni di distanza, un paio
d'agenti della squadra politica si presentano al centralino dei vigili a controllare
l'ora esatta della chiamata? (Era se mai il magistrato inquirente che doveva
interessarsene. E un nuovo magistrato se ne interesserà ventun mesi dopo.)
Perché son tre e tutte diverse le versioni che la polizia ha dato dell'incidente?
"Quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato in tre di fermarlo,
ma senza riuscirci," la prima. "Quando Pinelli ha spalancato la finestra,
abbiamo tentato di fermarlo e ci siamo parzialmente riusciti," la seconda.
"Quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo,
e uno dei sottufficiali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo cercò
di afferrarlo e salvarlo: in mano gli rimase soltanto una scarpa del suicida,"
risulterà la terza; un giornalista del "Giorno" infatti vide
il corpo a terra con tutte e due le scarpe ai piedi.
Perché poi si parla di "verbali sottoscritti dal Pinelli" quando
Guida disse "non abbiamo verbalizzato niente"? E perché infine
l'unico testimone della caduta, cioè Aldo Palumbo, rientrando una sera
di metà gennaio trova la sua casa tutta a soqquadro, rovesciati i mobili,
aperti i cassetti, frugati gli armadi? Cosa mai cercavano con tale accanimento
fra la sua roba gli ignoti che in tanto disordine non gli hanno rubato proprio
niente?
A furia di trovarsi davanti a queste zone d'ombra, e di vederla illuminata soltanto
a tratti da lampi sinistri, sul caso Pinelli i milanesi improvvisamente si accendono,
e il
ferroviere autodidatta di fede anarchica "povero come gli uccelli dell'aria"
diventa il protagonista di discorsi, discussioni, e addirittura comizi (del
24 marzo è la manifestazione indetta, oltre che per proclamare l'innocenza
di Valpreda, anche per denunciare che nessuno crede al suicidio di Pinelli).
Perfino nei salotti se ne parla, e si litiga sull'argomento: da una parte quelli
che vedono una vittima in Pinelli, dall'altra i campioni del lasciar correre,
del come la va la va. "La questura picchia, lasciatelo dire a noi inquilini
di corso Porta Nuova che da anni abbiamo continuato a far petizioni perché
cambino di posto i locali degli interrogatori, tanti sono gli urli che la notte
non ci lasciano dormire." "Avete la fantasia malata, vedete sempre
fantasmi, come potete pensare che dei funzionari della Politica di Milano ammazzino
di botte uno e oltretutto lo buttino anche dalla finestra?"
E qui bisogna ricordare in che clima si viveva a Milano nei primi mesi del gennaio
'70 e quali erano diventate le nuove costanti del contesto urbano, le sinistre
isole di gipponi, furgoni cellulari e pantere della polizia, i cordoni di agenti
e carabinieri in assetto di guerra, su l'elmo e la celata, addosso il giubbotto
imbottito, in mano lo scudo, al fianco la bisaccia piena di candelotti, il mento
protetto come i gomiti e gli stinchi; e alternati o contemporanei all'urlo delle
sirene lo scatto secco delle saracinesche che van giù, il tonfo sordo
dei sassi o dei cubetti di porfido.
Cortei di scioperanti con fischietti e cartelli, cortei antirepressivi con slogan
scritti o gridati (il giorno della morte di Annarumma, ad aprire il gruppetto
degli anarchici diretto al Lirico per il comizio dei sindacati era stato proprio
Giuseppe Pinelli), le scritte fasciste che si moltiplicano sui muri, le aggressioni
fasciste in piazza San Babila e immediati dintorni, i volantinaggi d'ogni colore
in ogni angolo del centro, le barricate e le bandiere rosse davanti all'università.
E' frequente la guerra per le strade (il 21 gennaio per esempio) col corteo
aperto dal Comitato dei giornalisti contro la repressione ancora fermo davanti
alla Statale quando la polizia vede rosso, allora il vicequestore fa suonare
la tromba, piovono i lacrimogeni, c'è fumo dappertutto, la gente corre,
la polizia la insegue col manganello alzato, gli agenti si picchiano tra di
loro per errore, ma picchiano soprattutto gli altri, ecco denti che saltano,
ecco il sangue per terra. La guerra continua per ore, i poliziotti feriti sono
portati via a braccia sulle autoambulanze, invece gli studenti si fan cucire
la testa da medici clandestini.
E se la strada è sempre inquieta, son ben poche le famiglie tranquille.
Mentre alcuni giornalisti si sforzano di definire nelle loro cronache qual è
la mappa del terrorismo, perdono l'occasione di far delle altre interessanti
ricerche private, per concludere con una mappa della Milano divisa, la Milano
benpensante, cerchia del Naviglio e ombroso Cappuccio. Padri ricchi e conservatori,
fautori dell'ordine e della normalità, con figli rivoluzionari che vivono
nelle comuni, padri decisamente fascisti che vanno in Rolls, invocano la mano
forte, o addirittura i colonnelli e le sinistre le chiamano "bubbone,"
e si trovano in casa figlie giovinette vestite come mendicanti che hanno il
loro ragazzo del "Movimento studentesco" e sfilano in corteo accanto
agli anarchici, scandendo ben chiaro "Pi-esse Esse-esse," se non più
minacciose: "Guida sarai suicidato!" (I padri per consolarsi bevono
whisky, le ragazze prendono due aspirine prima dei cortei per non intossicarsi
di fumo, e hanno in tasca il limone da succhiare subito dopo i gas.)
I cortei se la prendono con la polizia e il caso vuole che in questo stesso
periodo non siano benigne le testimonianze che si raccolgono circa i funzionari
dell'ufficio politico. Da San Vittore, dove da due anni è detenuto insieme
a quattro compagni, Paolo Faccioli (che, come loro, è accusato degli
attentati del 25 aprile, e uscirà dopo due anni su richiesta del PM per
non aver commesso i fatti), manda una lettera agli amici in cui parla delle
sevizie sofferte in questura: tre giorni di interrogatori continui senza mai
dormire e sempre in piedi, violenze continuate e minacce. Schiaffi, colpi alla
nuca, pugni, gran tirate di capelli e spesso torti i nervi del collo. Il tutto
peggiorato dal fatto che lo picchiavano all'improvviso e al buio. Erano il commissario
Zagari, i brigadieri Mucilli e Panessa, il commissario Calabresi. (Mucilli e
Panessa sono i due che nelle ultime ore di vita di Pinelli, insieme al brigadiere
Mainardi, gli son sempre stati vicini.)
E Paolo Braschi, detenuto anche lui insieme al Faccioli, non perde l'occasione
di mandar una lettera anche lui ai compagni del Comitato politico-giuridico
di difesa che verrà poi pubblicata sul settimanale anarchico "Umanità
nova." A proposito del caso Pinelli in cui egli vede lampanti le responsabilità
della polizia, dice che con le finestre Calabresi ha avuto sempre qualcosa a
che fare. "Lo abbiamo anzi soprannominato 'comm. Finestra,' e, devo dire,
tale nome gli calza a pennello. Ricordo che quando fui interrogato (nello stesso
ufficio dove ha trovato la morte il Pinelli), questo cosiddetto commendator
Finestra l'ultimo giorno che passai nei suoi uffici - soddisfatto di avermi
estorto, insieme con i suoi degni soci, delle false ammissioni grazie a ricatti,
violenze, insulti e minacce - mi fece sedere vicino alla finestra aperta (che
non ha il parapetto in muratura ma una ringhiera di ferro), e tenendosi a distanza
lui ed altri mi provocarono apertamente chiedendomi perché non mi buttassi
di sotto. Tutto ciò si ripeté più volte mettendo a dura
prova i miei nervi già scossi dal trattamento subito.
"Devo anche dirvi che tale commendatore è quello che ha palesato
sempre e più di tutti un vero e proprio accanimento, direi odio, verso
di noi, e i compagni in generale."
Nessun punto a favore dunque per il commissario a cui forse non interessa granché
la circolazione semiclandestina delle lettere di due che stanno in prigione.
(Peccato che sull' "Espresso" puntualmente se ne dia notizia.) Ma
certo gli brucia ancora di più trovar sulla facciata di casa sua in via
Mario Pagano una grande scritta: "Assassino di Pinelli," e durante
il percorso da casa in questura, la sua mascella deve senza dubbio assumere
una ruga laterale extra, tanti sono i muri, in centro e alla periferia, che
gridano in rosso e in nero, ma sempre a lettere cubitali: "Calabresi assassino!'
E si può pensare per un attimo con un minimo di pena a quel che proverà
passando lì davanti la sua giovane moglie: almeno gli occhi di Licia
Pinelli, quando esce, incontran scritte di ben diverso sapore: "Pinelli
innocente. Hanno suicidato Pinelli."
Probabilmente l'impetuoso commissario ha un moto di stizza, se non di rabbia
violenta anche ogni volta che gli metton davanti un numero del settimanale "Lotta
continua" (venticinquemila copie). Da quattro mesi (cioè dal 14
gennaio), e a ritmo sempre più sfrenato, lì sopra c'è un
articolo, una vignetta che lo riguarda da vicino. Insomma ogni volta l'accusano
d'aver scaraventato l'anarchico giù dalla finestra del suo ufficio al
quarto piano della questura, dove lui stesso stava conducendo l'interrogatorio.
Ecco Calabresi che sale sul tram pieno, andando addosso a un passeggero già
molto schiacciato, e il passeggero si volta spazientito: "Ma che fa dottò...
spinge?" Ecco un cittadino che, dovendo andare in questura e al quarto
piano, si presenta sul portone con un paracadute sulle spalle. Altrimenti si
vede Calabresi che ammicca da dietro il davanzale di una finestra mentre il
Pinelli precipita, oppure mentre dà la spinta fatale a un uomo in bilico,
se no mentre, vestito da cameriere, offre piatti di minestra con su scritto
"ricatto" ai fermati, gridando: "O mangiate 'sta minestra o saltate
'sta finestra." In un'altra ancora si vedono due uomini spiaccicati a terra
nel cortile della questura e un brigadiere che guardava su verso il commissario
affacciato: "Non me l'aveva detto, dottore, che c'era un confronto."
Lo chiamano "Volodangelo" e anche più concisamente "Volo."
Intanto Franco Trincale canta per le piazze il Lamento per la morte di Giuseppe
Pinelli:
E persero la testa
non sanno cosa dire
la corda gruppa gruppa
è morto senza culpa
Era quasi menzanotte e
cadiu nella corti
e strisciò lu cornicioni
ch'era sutta a lu balconi
Era mortu n'allìstanti
stiso in terra malamenti
e pareva fossi mortu
un'istanti prìcidenti
Lu questuri dissi poi
non l'abbiamo ucciso noi!
Ai cortei di protesta echeggiano altri versetti di una ballata in argomento:
Quella sera a Milano era caldo
ad un tratto il Pinelli cascò.
Jean Nobécourt, corrispondente di "Le Monde" per l'Italia,
scrive sulla "Stampa": "...L'Italia per fortuna ha ancora i cantastorie
a confronto dei quali Celentano rappresenta una degenerazione... Una storia
cantata della morte dell'anarchico Pinelli è altrettanto preziosa per
rappresentare l'Italia del 1970 quanto una serata anonima in uno dei piccoli,
teatri di Palermo... dove spettatori autentici si appassionano ancora... ai
colpi di scena e alle mille avventure di Carlomagno..." Si sa infine che
Dario Fo sta scrivendo una commedia dal titolo Morte accidentale di un anarchico
che sarà rappresentata alla fine del 1970.
E son molti ormai a chiedersi come mai Calabresi non si decide a querelare "Lotta
continua." Costa così poco l'onore di un commissario di polizia?
Se ha la coscienza pulita, non lo feriscono profondamente queste calunnie, e
non sente il bisogno di scrollarsele di dosso? Da notizie che escono dalla questura
(qualcosa riesce sempre a trapelare anche da quell'ambiente ermetico ed ambiguo),
si sa che Calabresi non ne ha nessuna intenzione, meno si espone e meglio è,
non si sa mai cosa può saltar fuori da un processo. Certo aspetta che
il sostituto procuratore Caizzi concluda l'istruttoria preliminare in corso
per la morte del ferroviere. Probabilmente aspetta quel che aspetta (e son già
quattro mesi) per partire al contrattacco con la vittoria in tasca, sapendo
cioè che è già nell'aria la notizia dell'archiviazione.
A sua volta cosa aspetta Caizzi a concludere la sua indagine? Son già
cinque mesi che ci lavora in segreto, questo brizzolato giovanotto pugliese
dal sorriso astuto e le movenze di un gran gatto sornione. Snervante è
la lentezza del giudice che viene criticata con parole severe dall' "Avanti!",
dalla "Voce repubblicana" e perfino dall' "Economist." Mentre
un penalista del calibro di Alberto Dall'Ora sul "Giorno" chiede che
la Procura della Repubblica, come ha fatto molte altre volte, inizi l'azione
penale formalizzando l'istruttoria, cioè rivolgendosi al giudice istruttore,
davanti a cui le parti avranno diritto d'intervento e di iniziativa, nell'ambito
della legge processuale.
"La morte dell'inquisito nelle mani dell'autorità di polizia in
ogni paese non può che generare inquietudine grave... si è accreditata
l'impressione che egli, preso dallo sconforto perché raggiunto da prove
inoppugnabili, avesse voluto sopprimersi. Il che parve molto singolare perché
di Pinelli, nell'istruttoria per le bombe, che da Milano si trasferì
a Roma, non si sentì più parlare... Di qui il sorgere inevitabile
di sospetti, di accuse, di proteste vivaci. Di qui la denuncia, dignitosa e
civile, della famiglia." E avanti col dire che dopo troppi mesi tutto sembra
immutato, che, data l'assoluta mancanza di notizie certe, diventano logiche
tutte le ipotesi più cupe (violenza, colluttazione, aggressione inconsulta),
che non è questo il modo di difendere l'onore dei tutori dell'ordine,
i quali, come in tutti i paesi del mondo, durante l'accertamento, avrebbero
dovuto (Guida in testa) essere sospesi dalle loro funzioni. "Quello che
non sembra accettabile," egli conclude, "è che si continui
così, senza che nulla accada come se si trattasse di una qualsiasi indagine
preliminare per un furto di polli... L'opinione pubblica ha bisogno di sapere,
non può acquietarsi di fronte all'apparente mistero, di fronte al silenzio,
che sembra calare definitivamente sulla vicenda. Si vada dal giudice e si faccia
presto nell'interesse di tutti." Così Dall'Ora il 6 aprile '70.
(E Caizzi farà sapere ai giornali amici che è già arrivato
alla fase conclusiva: poche settimane, forse un paio soltanto, e si sapranno
i risultati.) È dell'8 aprile invece il documento presentato alla Procura
della Repubblica di Milano da Carlo Smuraglia e Domenico Contestabile, i due
avvocati che tutelano gli interessi della famiglia del morto. Un altro documento
polemico in cui si accusa la Procura di sordità, immobilismo e scarsa
iniziativa. Per quale mai ragione, per esempio, non viene permesso al collegio
di difesa dei familiari Pinelli di costituirsi parte civile contro ignoti? E
poi, una volta per sempre, la morte del Pinelli va considerata suicidio o defenestrazione?
Per tentare di stabilirlo, si chiamino sociologi, neurologi, psichiatri, capaci
di indagare a fondo sulla personalità del ferroviere per cercare di capire
se era o no un tipo votato all'autodistruzione. E si interroghino anche dei
tecnici circa le modalità della caduta: nessuno si è mai preoccupato
di misurare la distanza tra la finestra e il punto dove si trovava il Pinelli,
né si è mai valutata la parabola di caduta in rapporto alla spinta
che il corpo può aver ricevuto per impulso proprio o altrui. La difesa
chiede inoltre di vedere gli atti dell'istruttoria, di potere andare sul posto
a compiere tutti gli accertamenti necessari, di poter ricostruire il tragico
evento con l'aiuto di un manichino dello stesso peso e statura del Pinelli (esperimento,
questo, comune in America in casi analoghi). È vero, infine, che allegati
agli atti ci sono i verbali di interrogatori firmati da Pinelli? Allora si sottoponga
a perizia calligrafica la sua firma: è noto infatti che durante la famosa
conferenza stampa del questore più di un teste sentì dire che
gli interrogatori non erano stati verbalizzati.
Inutile quindi, continuano gli avvocati, che per negare la costituzione a parte
civile la Procura si ostini a definire questa fase un'indagine preliminare di
polizia giudiziaria, mentre è perlomeno un'istruttoria sommaria. Inutile
anche rifiutare alla difesa la costituzione di parte civile contro ignoti, dal
momento che si tratta di una prassi ammessa solitamente nei processi che non
scottano. Nemmeno a farlo apposta, pochi giorni prima, uno dei due avvocati
del collegio di difesa, precisamente il professor Carlo Smuraglia, s'era costituito
parte civile contro ignoti in un processo addirittura finito con l'archiviazione.
Riprendendo lo scritto di Dall'Ora ci son altri che trovano assurda la stabilità
dei funzionari di polizia protagonisti della notte fra il 15 e il 16 dicembre;
che non siano stati almeno temporaneamente rimossi, che non abbiano sentito
da soli il bisogno di uscir di scena a istruttoria in corso, finché sia
fatta luce sul loro conto. (Procedimento seguito in altri casi, vedi l'allontanamento
di quel funzionario responsabile a suo tempo di non aver ritirato il passaporto
a Felice Riva, per non parlare del commissario Juliano sospeso dalla carica
e dallo stipendio per aver troppo indagato sui fascisti.) Rieccoli invece tutti
dov'erano, tutti in posti chiave da dove può essere anche possibile un'azione
di inquinamento delle prove.
Saranno poi coincidenze, ma proprio in questa fase delicata vengono a galla
certe grossolane iniziative della polizia. Alla sottile campagna di calunnie
su Pinelli, ora si affianca una campagna parallela contro le sue donne. Viene
interrogata una vicina di casa circa le abitudini della madre; pare che a un'altra
vicina col figlio nei guai, attraverso una forma di disdicevole pressione, se
ne prometta il proscioglimento se troverà qualche cosa da riferire contro
le sue casigliane; cominciano a circolare inoltre delle insinuazioni sulla moralità
della vedova.
Lo scopo? Sgretolare il mito della grave e animosa compagna dell'anarchico,
e con ciò trovare un altro motivo per la sua svogliatezza di vivere:
falliti gli ideali, saltati gli alibi, non c'è più nemmeno la
famiglia che lo consoli, tanto vale finirla buttandosi dalla finestra. Ma son
manovre a vuoto, perché di giorno in giorno sta prendendo addirittura
valore di simbolo il contegno della vedova che, così schiva e coraggiosa,
vuol far giustizia a ogni costo.
Ed ecco che finalmente il 20 aprile Calabresi esce (od è costretto a
uscire) allo scoperto: si decide cioè a sporger querela per diffamazione
contro Pio Baldelli, il direttore di "Lotta continua" (anzi "per
diffamazione continuata ed aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato,"
come a dire la defenestrazione di Pinelli), e in qualità di pubblico
ufficiale è tenuto a dare ampia facoltà di prova.
È una querela che Balzelli si aspettava da tempo. Lui è incaricato
di storia e critica del cinema all'Università di Firenze, e titolare
della cattedra di teoria e tecnica delle comunicazioni di massa all'Accademia
di Perugina, è biondo, alto, ha quarantatré anni, è diventato
direttore di "Lotta Continua" quando Bellocchio vi dovette rinunciare.
"Non m'importa di pagare di persona," egli dichiara, "continuerò
a firmare il giornale, e ad esserne il responsabile di fronte alla repressione."
Basta che il commissario depositi la sua querela perché si ritorni a
parlare con insistenza di una vicina se non imminente richiesta d'archiviazione
dell'istruttoria da parte del PM: se così avvenisse, vuol dire che nessuno
saprà mai cosa ha accertato il giudice, che la Procura della Repubblica
non ritiene esistano elementi per procedere nell'istruttoria, che i1 PM avvalora
la tesi del suicidio, che tutti quegli infiniti perché non troveranno
mai risposta.
Può darsi che a dare un colpo d'acceleratore a questa decisione negativa
sia proprio la querela sporta da Calabresi. Ed è abbastanza straordinario
il fatto che, presentata il 15 aprile, a quasi un mese di distanza, la sua querela
non sia ancora assegnata a nessun magistrato, ma continui a giacere sul tavolo
del procuratore Enrico De Peppo, mentre tutti gli altri procedimenti che portano
quella data sono stati da tempo assegnati al magistrato competente. Comunque
una cosa è sicura: che "Lotta continua" cercherà di
trasformare il processo per diffamazione in un'istruttoria pubblica sul caso
Pinelli.
Come difensore Calabresi si sceglie l'eminente e costosissimo avvocato Michele
Lener, che oltre ad aver difeso Felice Riva, l'ammiraglio Trizzino e Guareschi
al tempo della querela di De Gasperi, al processo di Reggio Emilia ha difeso
i poliziotti accusati di omicidio nei confronti di sette operai. Gli avvocati
di Baldelli saranno invece Marcello Gentili, allievo di Pisapia e difensore
dell'Isolotto" e Bianca Guidetti Serra, certo l'unica penalista donna a
livello nazionale, che ha difeso alcuni imputati del processo Trimarchi, Bobbio
e Viale del "Movimento studentesco" di Torino e Giorgio Bellocchio.
Ambedue decisi a chiedere al tribunale di acquisire tutte le prove, di sentire
tutti i testimoni, di elencare tutti gli clementi raccolti sulle circostanze
relative al fermo e alla morte dell'anarchico, tentando così di chiarire,
nei limiti del possibile, quanto in quella misteriosa notte di dicembre è
avvenuto in questura. Proprio per questo processo, oltre che per tutti i processi
politici in programma fra poco, in questo momento è teso e diviso l'ambiente
di palazzo di giustizia.
Va poi notato che contro i numeri di "Lotta continua," dal 14 gennaio
in poi, esiste una quantità di altre denunce (sia da parte della questura
di Torino, come da parte di quella di Milano; anche Allegra aveva presentato
un esposto alla Procura per via di due numeri specialmente insolenti, ma è
stato archiviato quasi subito), tutte affidate al sostituto procuratore, dottor
Emilio Maria Guicciardi, un tipo di gentleman vagamente pomposo di origine valtellinese,
buon sciatore di mezza età, il magistrato che ha rinviato a giudizio
Bellocchio, noto anche perché quando non è in udienza, anche se
sta nel suo studio a consultare documenti e a ricevere colleghi, è solito
tenersi in testa il tocco nero col suo bel fiocco (teme le correnti d'aria,
si saprà quando inizia il processo).
L'archiviazione, come si è detto, era nell'aria? Benissimo, il 21 maggio
si materializza. È il PM dottor Caizzi a rompere i1 silenzio facendo
sapere di aver chiesto l'archiviazione del caso "non ravvisando nei fatti
gli estremi per un'azione penale," e trasmette il fascicolo al giudice
Amati.
Abbiamo detto che il ben ondulata PM è sornione di sguardo e di gesti?
Non trova di meglio infatti che ricorrere a un trucchetto che però funziona:
rende infatti nota la sua decisione il primo giorno di un lungo sciopero dei
giornali, una bella settimana di silenzio della stampa di consumo quotidiano
e così la decisione non la pubblica, non ha echi non fa clamore: finché,
a sciopero ultimato, uscirà una notarella sbiadita, cinque righe al massimo
per una notizia stantia, non più di attualità. Lo sciopero finisce,
i malpensanti digeriscono la notizia senza far commenti o con un sospiro di
sollievo: "be', almeno non si sentirà più parlare di questa
faccenda..."; quanto ai meglio orientati, si pensa che son stati lasciati
all'oscuro un periodo di tempo sufficiente perché le loro reazioni risultino
attutite.
Ma i giornali di sinistra cominciano a sparare la loro indignazione ("un
epilogo, se la richiesta verrà accettata, scandaloso e inaccettabile,
come le premesse e gli sviluppi dell'intero caso. Diciamolo pure: una bancarotta
per la giustizia e le stesse forze dell'ordine"). E perfino il tiepido
"Il Mondo," che finora su questo quadrante non si è mai impegnato,
accoglie un'intervista col bollente e inascoltato Dall'Ora. È avvenuto
precisamente quello che lui temeva e che pochi giorni prima aveva scongiurato
che non avvenisse.
"Sembra incredibile," egli dichiara, "che in una città
come Milano un individuo muoia nel cortile della questura, mentre avrebbe diritto
al massimo della tutela, proprio perché il `fermato' appartiene alla
giustizia ed è in un certo senso un uomo pubblico. A questo punto non
si potrà mai sapere perché Pinelli sia morto. Se le ricerche son
durate tutti questi mesi, vuol dire che si trattava di indagini complesse: e
quindi era il caso di aprire un'istruttoria formale." E critica l'istruttoria
e l'atteggiamento del PM che "avrebbe dovuta valutare l'opportunità
di fare un processo, quanto più possibile alla luce del sole, e trasmettere
gli atti al giudice istruttore."
Alla domanda "se data la disparità nei tempi e nei modi seguiti
nel caso Pinelli è possibile che siano intervenute preoccupazioni di
carattere politico," Dall'Ora risponde: "Il sospetto che nasce è
che, più o meno consciamente, ci sia stata una tendenza ad evitare, come
fatto sommamente inopportuno, che un ufficiale di polizia giudiziaria fosse
in qualche modo coinvolto nella vicenda. Ora, questo è proprio il modo
più efficace per incrementare i sospetti, e, certamente, il peggiore
per tutelare l'onore e il prestigio della polizia giudiziaria."
Mette in dubbio inoltre l'ipotesi, del suicidio, ribadisce che in Italia "il
rapporto cittadino-giustizia/cittadino-polizia è da molto tempo un rapporto
di sfiducia. Da una parte, il cittadino interpreta in maniera negativa il comportamento
dell'autorità; dall'altra, il comportamento dell' autorità pare
fatto apposta per essere interpretato in maniera negativa. E allora si instaura
fatalmente una relazione che assomiglia non tanto a quella che intercorre normalmente
tra il cittadino e lo stato in un regime di diritto, ma a quella che intercorre
tra il suddito e il potente... Ci si dovrebbe preoccupare sempre di evitare
anche i sospetti infondati, di evitare perfino che i sospetti nascano. II sospetto,
di per sé, è già un male." La signora Pinelli parla
poco, dice soltanto: "Caizzi non ha avuto coraggio."
Insomma le ombre si moltiplicano con la richiesta d'archiviazione, "il
caso Pinelli diventa un simbolo emblematico della crisi della giustizia e dell'intera
società italiana," dichiarano gli avvocati Smuraglia e Contestabile,
che "si riservano comunque di battersi con ogni mezzo e con ogni strumento
perché piena luce sia fatta sul drammatico episodio e sia data una risposta
veramente seria all'opinione pubblica, ai cui pressanti interrogativi non è
pensabile di poter rispondere con un provvedimento di trasmissione degli atti
d'archiviazione."
Con la bella pensata di Caizzi non si fa che rinfocolare dunque tutti i dubbi
e gli inquietanti perché del caso, tanto si dà già per
scontata la decisione del capo dei giudici istruttori, dottor Antonio Amati,
responsabile della montatura organizzata ai danni di Braschi, Faccioli, Pulsinelli
e Della Savia, e dell'insensata istruttoria dove sono ascoltati quasi con reverenza
dei testimoni fabbricati dalla polizia. Così finisce nel "cimitero
della giustizia" quello che è giustamente considerato uno dei casi
giudiziari più torbidi e misteriosi degli ultimi anni.
Milano è tesa di nuovo, la campagna elettorale si sta svolgendo in un
clima difficile. Sui muri della città ogni mattina appaiono nuove scritte
che accusano la polizia e difendono Pinelli e Valpreda, anzi le targhe stradali
in via Brera sono state cambiate: da una parte si legge "via Pinelli"
e dall'altra: "via Valpreda". Gli anarchici sono in agitazione e confessano
agli amici di sentirsi isolati come in un ghetto. Anche una loro manifestazione,
sciolta dalla polizia la sera del 23 maggio, è stata quasi un segno di
patetica impotenza. Una manifestazione ch'era venuta dopo un affollatissimo
dibattito di politici, avvocati e giornalisti riunitisi in massa nel pomeriggio
di quel giorno al circolo Turati.
Presentando gli oratori, Carlo Ripa di Meana aveva cominciato col dire che "per
noi il caso Pinelli non sarà mai archiviato: in un caso così non
sono possibili il silenzio e l'oblio." Poi era stato Ferruccio Parri ad
aprire la discussione, sottolineando il fatto che, in coincidenza con le bombe
del dicembre, è stata immediatamente costruita una verità ufficiale
e ormai molto difficile da sgretolare, senza coinvolgere chi sta troppo in alto.
"La magistratura insiste per la costruzione di una verità giudiziaria
che salvi la polizia, perché la polizia è lo stato. Se si sgretola
la polizia si sgretola lo stato che sta a Roma, coi suoi prefetti e coi suoi
ministri, lo stato che ha funzione centrale, piramidale e figurarsi cosa succede
se crolla."
Mentre Corrado Stajano tra l'altro racconta come di recente ad Atene egli abbia
cercato di incontrare Zerzetakis, il giudice istruttore che ha fatto luce sull'omicidio
di Lambrakis e di cui si parla nel film "Z" Espulso dalla magistratura,
oggi egli vive poveramente alla periferia della città. "Ebbene,"
ha concluso il giornalista, "per ora in Italia ai magistrati aver coraggio
costa molto meno." Dopo un intervento dell'avvocato Luca Boneschi, che
ricostruiva in chiave politica le innumerevoli contraddizioni della magistratura
e della polizia applicate al caso Valpreda-Pinelli - una sequela di dati così
incredibili da diventare sconvolgenti e che portano a due conclusioni: il non-suicidio
di Pinelli e l'innocenza di Valpreda - aveva infine preso la parola l'avvocato
Marcello Gentili, quello che difenderà Baldelli nel processo intentatogli
da Calabresi. Messe subito in discussione le dichiarazioni del PM Caizzi, che
all'atto di richiesta archiviazione ha definito la morte di Pinelli "un
fatto del tutto accidentale" ("se la lingua italiana ha un senso,"
ha sottolineato Gentili, "ciò significa che suicidio non c'è
stato"), Gentili ha quindi proseguito dicendo che se Pinelli è morto,
la prima volta in questura e la seconda con l'archiviazione, ora non deve morire
per la terza volta. Cioè deve venir celebrato davanti ai giudici e al
popolo il processo "Calabresi-Lotta continua," perché almeno
in questa occasione la gente possa sapere e giudicare.
Sono i giorni in cui, recandosi al lavoro, la vedova Pinelli trova i muri della
metropolitana tappezzati con una fotografia fino allora inedita del marito.
La sua testa avvolta nelle bende, e, sotto, il viso martoriato, chiazzato, graffiato.
Una fotografia tremenda ma non agghiacciante. In quel viso c'è infatti
qualcosa di composto e solenne, perché è come l'immagine di un
martire, morto in nome di un ideale, che chiede giustizia.
Se, come è opinione corrente, il consigliere Amati depositerà
il decreto d'archiviazione sul caso Pinelli, troverà anche lui un modo
di far scivolar via la notizia in giorni morti, durante un lungo "ponte,"
o in un'altra giornata di sciopero dei poligrafici, o addirittura quando gli
italiani saranno distratti, immersi in quel grande mito contemporaneo che sono
le vacanze? Probabilissimo, dicono gli scettici, staremo a vedere. Quasi certo,
afferma la signora Licia, che vedo ogni tanto, una presenza perfino consolante,
dato il suo lucido rigore, la sua dignità senza uguale, il sorriso spesso
ironico, l'osservazione pertinente.
E gli scettici ci azzeccano: Amati trova anche lui il giorno più adatto
per depositare il suo decreto d'archiviazione. Lo deposita infatti la sera di
venerdì 3 luglio senza comunicare la notizia alla stampa, e così
il sabato si evita il grosso titolo sui giornali (forse a fine settimana la
gente parla di più?). Nessun resoconto neppure all'indomani, domenica,
perché per fortunata combinazione, che è sempre la stessa, anche
questo avvenimento lo si fa coincidere con lo sciopero dei poligrafici, e sabato
4 nel palazzo di giustizia non si trova nessun giornalista. I pessimisti avevano
ragione: nelle cinquantacinque pagine di Amati non si fa che riportare gli accertamenti
fati dal sostituto procuratore Caizzi; e questo, secondo lui, equivale a renderli
pubblici; ma può anche significare che con ciò egli ha voluto
evitare di pubblicare i testi originali con le loro contraddizioni e incertezze.
Comunque anche lui sostiene che non esistono estremi per promuovere l'azione
penale; ma dà anche per certo che Pinelli si é gettato dalla finestra,
dopo aver saputo che Valpreda era stato arrestato. Sebbene scontato dai più,
il decreto d'archiviazione rimane un fatto gravissimo. Vuol dire che la magistratura
non intende nemmeno accertare quel modesto reato costituito dal comportamento
colposo di chi aveva il dovere di sorvegliare Giuseppe Pinelli, un nulla in
confronto a1 mistero della sua morte. Invece dà una mano alla questura
e aiuta un bel po' il Calabresi.
"Così, concludendo, ritiene in coscienza il giudice istruttore,
che egli abbia potuto fare piena luce sul caso Pinelli e diradare quei dubbi
e quei sospetti che il gruppo degli avvocati del PSI affermava e nutriva unitamente
a tanta buona gente del popolo italiano..." Sono queste le tranquillizzanti
parole con cui il consigliere Amati suggella l'ultima parte del suo fascicolo
pronto per essere sepolto in archivio e, naturalmente, non si accorge che a
lettura finita questa sua frase suona come la boutade di una farsa, la frase
conclusiva di un protagonista che dell'intreccio ha capito ben poco. Basta scorrerlo
anche in fretta, questo grigio fascicoletto, e una cosa salta subito agli occhi:
non dirada i dubbi ma, come tutto quello che viene dall'alto in questa vicenda,
invece di far luce, moltiplica le ombre e aumenta il buio e l'incertezza, mentre
si aggroviglia la matassa, si infittiscono i nodi, saltano le maglie fra trama
e ordito, si fa inestricabile la giungla delle contraddizioni, e continua a
rimanere più che perplessa "tanta buona gente del popolo italiano."
(Nuova definizione dell'opinione pubblica.)
Non fa che convalidare infatti la tesi della polizia basandosi quasi esclusivamente
sulla deposizione dei suoi funzionari; e la prima impressione, ma molto viva,
che se ne ricava, è quella di leggere una comparsa, cioè uno scritto
difensivo, contro il quale la più immediata reazione è il durissimo
comunicato dell'indomani, a cura degli avvocati del Comitato di difesa e di
lotta contro la repressione.
A parte il linguaggio gonfio e antiquato, a parte quel pomposo parlare curiale
in terza persona, a parte che i testimoni a favore (Mario Magni e Mario Pozzi,
i due che convalidarono l'alibi del Pinelli), si tende già a presentarli
poco credibili in quanto "invalidi" o "vecchi pensionati, malfermi
in salute" (come se i testimoni a favore dovessero essere soltanto giovani
e sportivi), il documento trabocca di particolari saltati fuori soltanto adesso,
mentre in alcune parti è gravemente lacunoso, in altre straripa di contraddizioni,
inverosimiglianze, contrasti interni, goffi saltafossi.
E, a leggerlo, si prova un sentimento di pena profonda, di amaro sgomento. Se
è vera infatti la teoria sostenuta qua dentro secondo la quale Pinelli
si è tolto volontariamente la vita, da ogni riga risulta che è
stato proprio il gioco crudele e ricattatorio dei funzionari di polizia a portarlo
al malaugurato cedimento, cioè la loro sinistra insistenza nel dirgli
una sequela di bugie intimidatorie. Questa anche la conclusione del giudice
Amati che, disposto a riconoscere nel Pinelli un tipo ragionevole e mite, e
nei suoi inquisitori la determinazione ad emettere notizie false e inventate
lì per lì, finisce invece col condannare l'uno ed assolvere gli
altri.
Ecco dunque le maggiori lacune. Silenzio sul fatto che Pinelli era stato fermato
illegalmente e illegalmente trattenuto in questura dopo che i termini massimi
del fermo erano largamente scaduti; nessun appunto ai metodi della polizia che
intimidisce gli interrogati con accuse subdole, false e diffamatorie. Silenzio
totale sulle dichiarazioni del questore Guida che smantellano l'intero documento,
non smentite né da Allegra né da Calabresi.
Mancano poi nel decreto d'archiviazione alcuni importanti pezzi dell'istruttoria:
tanto la parte della perizia che riguarda le mani intatte e quindi contrasta
col salto volontario, come tutta la ricostruzione dinamica della caduta, duale
il nesso di casualità fra le lesioni riportate e il tipo di tonfo dall'alto.
Totale anche l'assenza dei documenti sequestrati alla Croce Bianca sull'orario
della chiamata dell'autoambulauza, benché il lettighiere Peralda nel
decreto dichiari d'esser stato sollecitato (precisamente dai vigili avvisati
dai carabinieri a loro volta chiamati dalla questura) tra le 23,56 e le 23,58
(quando dai cronisti presenti e quindi dai giornali risulta che il volo è
avvenuto qualche minuto dopo mezzanotte). Né Amati ha sentito il bisogno
di interrogare chi materialmente eseguì la chiamata. Terzo buco: mancano
il verbale di sopralluogo e il confronto tra Calabresi e Valitutti che figuravano
invece nell'istruttoria Caizzi. Calabresi che dice d'esser uscito dalla stanza
poco prima che Pinelli si gettasse, Valitutti che invece non lo vede passare,
e sente uscir di là rumor di sedie smosse e di colluttazione, Calabresi
che subito dopo gli dice: "Non capisco perché l'abbia fatto, lo
stavamo interrogando scherzosamente su Valpreda."
Molte e variate le novità. Per esempio Pinelli che a sentir l'autista
di Calabresi, tale Oronzo Perrone, tenta già di uccidersi il giorno prima.
("Voleva aprire un po' la finestra per via del fumo e nello stesso tempo
di scatto si è slanciato verso questa cercando di aprirla. Io mi sono
un po' spaventato e l'ho bloccato, dicendogli che l'avrei aperta io come ho
fatto.") Ma è un tentativo di suicidio o soltanto un'impressione
di Oronzo? E perché questo episodio non è stato raccontato subito
per avvalorare il salto volontario? Se no da allora perché non hanno
raddoppiato la sorveglianza? E soprattutto, se è vero questo primo tentativo,
dove va a finire la tesi del subitaneo raptus? Clamorosa marcia indietro quindi
circa le dichiarazioni caparbiamente rilasciate ad ogni livello di questurini
e ad ogni persona che chiedesse (compreso il medico del Pronto Soccorso) dal
15 dicembre in poi: circa mezzanotte l'ora, l'ufficio di Calabresi il luogo,
"Valpreda ha parlato!" l'annuncio di Calabresi, "È la
fine dell'anarchia!" la risposta di Pinelli che "con uno scatto felino"
si slancia dalla finestra.
Perché adesso, alla distanza di sei mesi, il luogo e l'orario non son
più gli stessi. In questo documento infatti, come se niente fosse, Calabresi
dichiara che la frase su Valpreda, cioè quel trucco poliziesco di sapore
fumettistico grossolano e scoperto, lui l'ha detta a Pinelli verso le otto;
che, sentendola, Pinelli si turba ed esce in quella tale esclamazione ma non
si butta a capofitto (sono appena le otto), e si riprende per raccontare i suoi
non buoni rapporti col ballerino, così il suo raptus avverrà a
scoppio ritardato.
Mentre poi il brigadiere Vito Panessa, campione nel dir le cose sbagliate nel
momento sbagliato, ripeterà ad Amati la primitiva versione corale (è
mezzanotte, Calabresi dice la sua bugia, Pinelli grida la sua delusione saltando
dalla finestra e Panessa si sforza invano di trattenerlo), quindi, in una successiva
deposizione sempre dello stesso giorno, dirà quella che hanno detto gli
altri ma, avendo capito poco le indispensabili istruzioni d'emergenza, interrogato
per la terza volta si esprimerà in modo sibillino, come dire: "Ho
fatto sì certe ammissioni, naturalmente le confermo, però adesso
le cambio."
Il perché di questa retrocessione dell'ora sottolineata anche dal brigadiere
Caracuta, sulle prime non si riesce ad afferrare. (Andava così bene quel
nome di dinamitardo buttato là, verso mezzanotte, e quella tremenda delusione
che spinge al gran salto.) Ma basta riflettere un attimo e tutto si fa chiaro.
Siccome la frase sarebbe stata detta in seguito a una contestazione, e siccome
la contestazione non poteva farla che Calabresi, se di mezzanotte e del suo
ufficio si tratta, lui rimane inchiodato sulla scena, a un passo dalla finestra,
e al preciso momento del salto; circostanza dalla quale ora decisamente rifugge.
(Specialmente da quando in questura si è diffusa la voce che i fermati
lo chiamavano familiarmente "comm. Finestra.")
Quale allora, secondo Amati, la determinante del suicidio di Pinelli, se non
è la falsa dichiarazione su Valpreda? È un altro ingiustificato
saltafosso, questa volta ad opera del capo dell'ufficio politico, Antonino Allegra.
"Io sono intervenuto solo dopo le 23," egli dice esprimendosi in un
linguaggio che non brilla per finezza, "quando entrai nell'ufficio di Calabresi,
dissi al Pinelli: `Lei ci ha preso per il sedere,' " intendendo con questo
che l'anarchico gli aveva mentito dichiarandosi estraneo agli attentati della
fine del '68. Gli chiese inoltre quanti fossero a Milano i ferrovieri anarchici,
e quando Pinelli rispose che lui era il solo, "sulle basi di una notizia
confidenziale," Allegra concluse: "Allora è stato lei a mettere
le bombe alla stazione centrale." Sorriso di Pinelli, codicillo di Allegra:
"Stia tranquillo che le porterò le prove" (in base certamente
a un'altra soffiata), quindi uscita di Allegra e, chi sa perché, tonfo
di Pinelli.
Si sorvoli ora sul contrasto fra questa deposizione e le dichiarazioni del questore
Guida nella notte fatale, tra la sua affermazione: "naturalmente non si
è verbalizzato niente" (detta anche all'on. Malagugini) e quei tre
verbali che compaiono oggi, due dei quali firmati dal Pinelli; e poi quell'altra
contraddizione interna che riguarda la finestra socchiusa per un attimo (prima
versione), e socchiusa da due ore ("per permettere il cambio dell'aria,"
dice oggi Calabresi), per arrivare alle motivazioni che Amati dà del
suicidio.
Certo in preda a "chok intimo" (scritto proprio così)
per la falsa confessione del Valpreda (ma, veterano in fatto di interrogatori
in questura, Pinelli ormai conosceva bene Calabresi e i suoi metodi); per il
crollo del suo alibi (che non era crollato); per l'accusa fattagli da Allegra
e da lui accolta sorridendo ("quando mai si era parlato di una responsabilità
di Pinelli nel caso della complicata e lunga istruttoria contro gli attuali
detenuti?" si chiede piccato il giudice Amati che ha condotto così
brillantemente l'istruttoria permettendosi di criticare l'inframmettenza del
capo della Politica); per l'angoscioso timore di perdere la stima dei superiori
perché proprio lui ferroviere mette le bombe alle ferrovie (ma se non
si è mai sognato di metterle!); e per quell'altra grossa paura di perdere
il posto (timore caso mai originato dalla bugia che gli aveva fatto dire Calabresi
secondo la quale in quei giorni al lavoro non ci andava perché malato
in un primo tempo, perché fermato in questura in un secondo); allora,
"dopo l'uscita del dottor Calabresi, valutato il pro e il contro della
sua posizione, decise di farla finita." (Ma quali pro e contro?)
Queste tutte le cause sussiegosamente prodotte da Amati come se fossero vere.
(Il sugo è invece: "Pinelli si è ucciso perché si
è ucciso.") Né qui si elencano, per un senso di rispetto
verso chi in circostanze così oscure e nel fiore degli anni ha perso
la vita, tutte le nozioni di psicologia spicciola e di psicanalisi da fumetto
di cui fa sfoggio il giudice, ricorrendo a testi italiani e francesi, pubblicati
da studiosi che conosce soltanto lui, intorno al 1928 o '32, per spiegare una
volta di più il suicidio di Pinelli. Tutto un susseguirsi di "come
annota il De Fleury, così aggiunge 1'Altavilla e sottolinea anche il
Brissaud," tutto uno studio approssimativo che, elencando i vari tipi di
persone che hanno tentato il suicidio e rinchiuse nei manicomi, distingue fra
suicidio ed idea fissa, suicidio ossessivo e suicidio impulsivo ed automatico.
Per decidere che forse Pinelli apparteneva a chi questo atto lo compie "nell'indifferenza
sorridente dell'impulsivo." ("Questi deve essere spesso assicurato
perfino con collare, per evitare che si morda, mentre non rileva alcuna sofferenza;
eppure, lasciato libero, può spaccarsi improvvisamente il cranio o lanciarsi
dall'alto, quasi che una furia distruttrice ghermisse od azionasse, alla sua
insaputa, i suoi muscoli. Il suo gesto non germina quindi dal delirio,
perché è il logico prodotto di un motivo irreale, ma è
la espressione di una scarica nervosa motoria, che dissocia il movimento da
ogni elemento di coscienza.") Dunque, per chi non lo sapeva né poteva
immaginarselo, secondo Amati, il gesto di Pinelli non è germinato dal
delirio, ma la furia distruttrice ha ghermito i suoi muscoli.
Proprio il caso di Pinelli, sembra commentare il giudice improvvisatosi psichiatra.
Ma c'è una differenza: che Pinelli non era rinchiuso in un manicomio,
ma in una stanza della questura di Milano. "Fosse stato in manicomio (diretto
naturalmente da un tipo come 1'Altavilla)," scrisse con amara ironia Giorgio
Manzini su "Astrolabio," "lo avrebbero almeno assicurato con
un collare e non sarebbe successo nulla."
Una nota finale: dato il nulla assoluto a carico di Pinelli che emerge dalla
lunga istruttoria, lì dentro si vuol forse sottolineare una frattura
fra Allegra e Calabresi (da una parte il meridionale di tipo borbonico, questurino
all'antica e dall'altra lo scattante Calabresi che è capace anche di
frequentare i contestatori). Amati sostiene Calabresi e il suo scudiero Panessa,
mentre mette in luce meno benevola Allegra (non bisogna dimenticare che Calabresi
è l'uomo che ha eseguito i mandati di cattura di Amati e lo ha abilmente
aiutato a intorbidire le acque di quella caotica istruttoria sugli anarchici,
interrogando la Zublena, teste incredibile e crollata al dibattito, sulla quale
si fondava tutta l'accusa).
Totale il discredito che un documento del genere getta tanto sulla magistratura
(le sue plateali deduzioni, i pezzi mancanti della precedente istruttoria, gli
interrogatori e i confronti dimenticati), quanto sulla polizia. Tutte in contraddizione
fra loro le deposizioni di agenti e funzionari; e tutte diverse da quelle famose
dichiarazioni fatte a botta calda e a versione frettolosamente concordata dal
questore mendace.
Sconcertante inoltre, per puntellare la versione della polizia, secondo cui
il Pinelli al momento della caduta era in perfette condizioni e non già
incosciente, 1'affermazione del tenente Lo Grano che avrebbe udito Pinelli,
dopo il volo dal quarto piano, esclamare: "Ah, che dolore! Sto male, sto
male!", quando altri testimoni (Palumbo, Peralda e Mancia; affermano che
Pinelli rantolava senza proferire parola. Contraddizioni che salteranno fuori
ad una ad una al processo, ma sulle quali Amati non si sogna nemmeno di soffermarsi,
magari leggermente interdetto. Scagiona gli indiziati sulla base delle loro
stesse dichiarazioni, senza indagare sui legami tra l'episodio Pinelli e gli
attentati del 12 dicembre. Ultima domanda: come mai il giudice Amati non ha
ritenuto di dover riprendere la tesi di Caizzi che, pur chiedendo l'archiviazione,
aveva concluso per "una morte accidentale"? Il caso dunque rimane
aperto.
Ma non per il consigliere istruttore che, tutto pomposo, si mette la coscienza
a posto con la sua perorazione finale. "Vuole aggiungere [sempre lui] che
la Giustizia è uguale per tutti e la Legge va applicata nei confronti
di chicchessia, inesorabilmente: che, ove un solo dubbio avesse nutrito sulle
cause della morte del Pinelli, non avrebbe certamente omesso di far ricorso
ai mezzi consentitigli dalla Legge processuale penale incriminando chiunque
si fosse reso colpevole di un delitto terribile, forse peggiore della strage
di piazza Fontana, perché il Pinelli era un fermato inerme, che, di fronte
alla violenza, non avrebbe potuto opporre la minima resistenza e nessuna difesa,
e quindi il delitto sarebbe stato ancora più abominevole e turpe."
Già, peccato che almeno un dubbio sulla fine del Pinelli non gli abbia
mai sfiorato la mente, e che, non indagando a dovere, egli non abbia potuto
far ricorso a quei tali mezzi consentitigli dalla Legge processuale penale.
Comincia appena l'estate, il giudice Amati sta per partire per le vacanze, mentre
Caizzi tarda qualche giorno. Ma per questo sua ritardo c'è una ragione
ben precisa, una delle solite ragioni suggerite dalla prudenza che dimostrano
gli alti papaveri a un certo riguardo. E se ancora qualcuno avesse dei dubbi
su come il mistero circa la fine di Pinelli, con tutto quell'alternarsi di inverosimiglianze,
zone oscure e silenzi improvvisi continui ad appassionare l'opinione pubblica,
basterebbe fargli notare una volta di più da quante cautele sono circondate
al loro apparire le notizie che a questo proposito ufficialmente opacizzano,
ritardano e insabbiano.
Ma cosa mai si può ancora insabbiare in questa vicenda? Ci risponde Caizzi
che tarda un po' ad andare al mare per andarci a cuor leggero di lì a
poco. Il 15 luglio nessuno va più in tribunale perché finiscono
le udienze, ed ecco che il guardingo PM (e par di vederlo, coi suoi gesti aggraziati
da gran gattone sul grigio-blu) il giorno 17 vi deposita quasi clandestinamente
un'altra richiesta d'archiviazione. Precisamente quella che riguarda la querela
per diffamazione dei familiari Pinelli contro il questore Marcello Guida. Il
che vuol dire che solo a distanza di due mesi diventerà pubblica la richiesta
d'assoluzione per chi, subito dopo la morte dell'anarchico, lo ha dichiarato
complice degli assassini di piazza Fontana, anzi così implicato da arrivare
al suicidio.
Richiesta ingiusta e che, nonostante l'attuale clima di sfiducia verso la magistratura,
ben pochi si aspettano, anche fra gli addetti ai lavori. Dato che da anni in
Italia si stanno smarrendo i margini di autonomia tra magistratura e potere
esecutivo e burocratico, è chiaro che un organo di stato come il PM non
può andare contro un altro organo di stato, cioè contro il questore
(benché qualche tempo prima si fosse arrivati all'incriminazione di uno
di loro, cioè di Grappone). Erano quindi pochissimi quelli che, congetturando
sulla conclusione della querela, vedevano Guida incriminato, mentre i più
avevano fatto un'altra previsione, ugualmente ingiusta ma più accomodante:
che, sopprimendo qualche aggravante, si cercasse di far passare Guida fra le
maglie dell'amnistia.
Invece ora se ne chiede la completa assoluzione, rendendo perplessa una volta
di più la gente; e siamo così arrivati al mese di settembre e
all'appello redatto da uomini di cultura (per lo più professori universitari)
ed esponenti politici democratici per protestare contro tutte queste chiusure,
per sollecitare la ripresa di un aperto dibattito su tutta la questione. I firmatari
sono Marino Berengo, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giovanni Giolitti, Giulio
A. Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin,
Mario Spinella: l'appello pubblicato sull' "Espresso" suona così:
Pino Pinelli, ferroviere, è morto nella notte tra il
15 e 16 dicembre 1969, precipitando da una finestra della questura di Milano.
Non sappiamo come. Sappiamo soltanto che era innocente.
Marcello Guida, questore, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, aggrediva
Pinelli con accuse infamanti, ne dichiarava caduti gli alibi, lo definiva ormai
preso dalla legge, ne annunciava la morte come una confessione. Non sappiamo
perché. Sappiamo soltanto che mentiva.
Rosa Malacarne, madre, e Licia Rognini, moglie di Pino, il 27 dicembre 1969
hanno chiesto alla giustizia di far luce su quella morte e verità su
quelle parole, credevano che almeno questo fosse dovuto alla memoria di Giuseppe
Pinelli e all'avvenire delle sue bambine. Non sapevano che la giustizia glielo
avrebbe negato. Perché Giovanni Caizzi, procuratore della repubblica,
ha chiesto e ottenuto l'archiviazione dell'inchiesta del ferroviere? Ora chiede
1'assoluzione per le diffamanti parole del questore. Dobbiamo rispetto al magistrato,
ma non possiamo non attribuirgli la stessa responsabilità di chi ha ucciso
un'altra volta Giuseppe Pinelli inchiodandone il ricordo a colpe che non aveva
commesso, e la responsabilità, abbastanza grave, di chi uccide in noi
la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può
riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini.
A questa coscienza facciamo appello perché levi alta la sua voce. La
voce di quanti intendono che chiedere oggi la verità per Pinelli significa
difendere quei valori, senza i quali, domani, la nostra società non potrà
più dirsi civile e la nostra repubblica democratica.
D'altra parte non c'è bisogno d'essere particolarmente scettici per considerare
un fatto come questo di ordinaria amministrazione. Oltretutto non si sottolinea
mai abbastanza con quanta regolarità tanto nell'affare Pinelli quanto
nell'altro "giallo" ad esso collegato, ogni volta che uno spiraglio
si apre (una persona che parla, una testimonianza che vale, un'ipotesi che attrae),
si mette subito in moto un meccanismo di chiusura (cambiano le deposizioni,
i verbali non ci sono, la perizia é segreta, il caso é archiviato).
L'ultimo esempio? Non a caso la richiesta d'assoluzione per il questore precede
di poco il processo intentato dal commissario Luigi Calabresi contro il direttore
di "Lotta continua," professor Pio Baldelli. È un processo
in cui molti discorsi si dovranno riaprire: ebbene, più se ne chiudono
prima e meglio è, e benissimo se a un certo punto calano saracinesche
da ogni parte. Quando il processo sta per cominciare, infatti, è già
archiviata la parte concernente il suicidio e adesso si chiude anche quella
che riguarda "le imprudenze" verbali del questore (gravissime dato
il momento in cui son state fatte e il peso che hanno avuto sull'opinione pubblica
e sul dibattito politico).
Siamo alla vigilia dell'apertura (la prima udienza è fissata per il 9
ottobre), è un processo ben diverso da tanti altri, perché intende
essere soprattutto un atto di accusa
tanto contro i ruoli che ha avuto la polizia nelle vicende seguite all'autunno,
come contro la magistratura che ne ha continuamente coperte le prevaricazioni
e anche contro i partiti politici, nessuno dei quali si è impegnato a
fondo per ottenere giustizia.
Si sa per ora che si aprirà alla prima sezione penale, presieduta dal
giudice Carlo Biotti, un magistrato d'antico stampo, un temporeggiatore coi
baffi bianchi, proprio il tipo di giudice distinto dei film italiani, moderato
in tutto fuorché nella sua passione che è il calcio (è
consigliere del Milan); PM sarà Emilio Guicciardi, quella tal faccia
da ritratto di antenato, che si occupa quasi sempre di reati d'opinione per
rinviarli a giudizio.
Due i difensori di Baldelli: l'avvocato Marcello Gentili, che dal 18 dicembre
'69 segue con ardore il caso Pinelli, alto, magro, con gli occhi turchini, estremamente
partecipe, dai modi cortesi, e la logica ferrea, e Bianca Guidetti Serra, che,
insieme, formano un duo a corrente alternata di garbo insinuante e di aggressiva
secchezza. Quanto a Calabresi, da un pezzo si sa che s'è scelto Lener,
difensore dei ministeri e delle cause collegate al potere. Imprudentemente nell'articolo
per l'Espresso che inquadrava il dibattimento (settembre '70) l'avevo descritto
d'eloquenza ottocentesca, spesso aggressivo, qualche volta rissoso, d'aspetto
un po' "lugubre." (Senza rendermi conto che avrei potuto insistere
senza offenderlo sulla sua parlata démodé e sul suo carattere
ringhioso, ma, essendo lui napoletano, non avrei mai dovuto definirlo "un
po' lugubre d'aspetto." Da quel giorno infatti mi votò un'antipatia
quasi fisicamente avvertibile; e come si vedrà, non mi risparmierà
poi le sue velenose frecciate.) Da allora non mi rivolse mai il saluto, anzi
girava la testa al mio arrivo. Io avevo voluto soltanto dire che, così
severo, accigliato, l'occhio costantemente malcontento e la bocca in giù,
non era fatto per metter di buonumore il suo prossimo.
Son calate quelle tali paratie, si è detto, ma pare difficile che in
un processo del genere non venga di nuovo a galla tutto 1'iter della tragica
notte, ed è per ciò che la causa è importante. È
certo che si discuterà su tutto quanto non è mai stato pubblicamente
discusso, a partire dal fatto che la notte del 15 Pinelli non avrebbe dovuto
essere in questura perché il suo fermo era illegittimo; e insieme su
tutte le incongruenze e le lacune che affollano il decreto d'archiviazione oltre
alle provocazioni, alle contraddizioni e alle bugie degli interroganti, alla
retrocessione dell'ora, alla mancanza di verbali, al mistero di quel segno d'agopuntura
nel gomito sinistro, quindi avanti con decine di altri interrogativi che scottano;
perché, nel decreto d'archiviazione, mancano alcuni pezzi dell'istruttoria
a proposito di perizie, sopralluoghi e confronti, perché l'autista di
Calabresi ha aspettato tanto a dire che secondo lui Pinelli il giorno prima
aveva già tentato di uccidersi?
Per forza dunque si dovrà parlare dei fatti che, con le archiviazioni,
si vogliono considerar fuori gioco. A meno che, in vena di nuove chiusure, il
tribunale non intenda usare una giurisprudenza diversa, limitando l'ambito delle
indagini; cosa gravissima, e che finora nei processi per diffamazione a Milano
non è mai avvenuta.
Vigilia del processo. Ora si sa una notizia in più sulla composizione
del tribunale, e non è positiva. Della prima sezione penale che giudicherà
Pio Baldelli doveva far parte, insieme al presidente Biotti e al giudice Flavia,
anche il dottor Domenico Pulitanò, che però ha un torto dei più
gravi per ambire a quel posto. È uno degli elementi di punta di "Magistratura
democratica"; in più ebbe a suo tempo il coraggio di affermare che
nel corso degli incidenti di via Larga (morte dell'agente Annarumma) fu la polizia
a caricare e senza nessun motivo. (Il dottor Pulitanò era presente ai
"fatti del Lirico.") E' dunque un magistrato dei più scomodi,
si sa che è polemico, lo si immagina pignolo, potrebbe funzionare da
controllo, essere una spina nel fianco del collegio giudicante, dare alla sentenza
"un tono particolare."
Come permettere che un tipo così dica la sua a un processo del genere?
Ed eccolo sostituito con la dottoressa Pia Cardona, una giovane donna che esercita
la professione di giudice da un anno e mezzo, che proprio quest'anno ha avuto
il suo primo bambino, e quindi il suo stato di servizio si riduce a pochi mesi
d'attività. La parte democratica del palazzo di giustizia non esita a
parlare di discriminazione politica, dando già per scontato l'esito del
processo. Sarà un gran polverone, si ama ripetere, saranno riaccese le
polemiche, ne verrà certo una maggior sensibilizzazione dell'opinione
pubblica (proprio da qualche settimana la gente si pigia al film Un cittadino
al di sopra di ogni sospetto e "Lotta continua" ha già
accostato la biografia di Calabresi a quella del commissario biecamente tratteggiata
da Gianmaria Volonté). Sono tanti inoltre che in Il re buono di
Ugoberto Alfassio Grimaldi hanno letto del suicidio giù da un ballatoio
della questura dell'anarchico Romeo Frezzi nel 1897. Suicidio rivelatosi infondato:
infatti la perizia di un medico coraggioso aveva accertato che l'avevano ucciso.
E molti occhi distratti sono stati snebbiati da due altri libri interessanti:
tanto da Le bombe di Milano, ricco di testimonianze di giornalisti di
più di una testata borghese sull'autunno caldo, le bombe e i casi Valpreda
e Pinelli, come da La strage di stato, una vasta e minuziosissima controinchiesta
a cura di un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare. Ci saran
magari anche momenti di febbrile tensione, ma son poche le speranze. Quel che
è stato detto sul caso è stato detto, inutile sperare che qualcuno
dei protagonisti della notte di dicembre, il coordinatore, il commissario efficiente,
gli agenti goffi, picchiatori e smemorati, come si dice a Milano "si mettano
una mano alla coscienza." Sarà sempre più difficile riuscire
a sapere come mai, estraneo com'era ai fatti, Pinelli si trovasse in questura
la sera del 12 dicembre, perché era stato illegittimamente privato della
sua libertà, illegittimamente trattenuto, qual era la sua funzione presso
la polizia in quei tre giorni in cui gli inquirenti giravano a vuoto; come mai,
robusto di fisico e sano di mente, è morto solo tra decine d'agenti,
quando non aveva più scelta tra il rimanere e l'andarsene.
Saltan subito agli occhi le clamorose disparità, il patente squilibrio
tra le parti in causa: Baldelli processato per aver lasciato scrivere che Calabresi
è un assassino, e Calabresi invece che si presenta in aula praticamente
già assolto da questa imputazione (nel famoso decreto all'archivio non
si sostiene forse la tesi del suicidio da raptus?) e anche perché dopo
aver additato nel Pinelli un complice degli assassini di piazza Fontana, il
questore di Milano sta per essere assolto senza processo dall'accusa di diffamazione.
Proprio in questi giorni viene trasferito da Milano e messo a disposizione dei
ministero degli Interni: non è pensabile infatti che continui a stare
in via Fatebenefratelli, mentre tutt'intorno a palazzo di giustizia, durante
il processo si son schierate le forze dell'ordine che ha sempre comandato lui
e dentro non si farà che deplorare il suo operato nella notte del 12.
Non a caso infine, la vigilia dell'udienza di apertura, è stata resa
pubblica l'incriminazione di Generoso Petiella, il segretario generale di "Magistratura
democratica." Comunque, sempre alla vigilia, torna a farsi sentire la voce
dell'ala sinistra intellettuale. Quattro medici e psicologi (Renato Boeri, Elvio
Fachinelli, Giovanni Jervis, Giulio A. Maccacaro) firmano e mandano ai giornali
il documento dal titolo Pinelli: una morte inaccettabile (esame critico del
procedimento d'archiviazione) che verrà poi pubblicato parzialmente
sull' "Espresso" e intero su "Astrolabio," un lucidissimo
scritto in cui si rilevano con ironico spicco tutte le bolsaggini e le false
conclusioni dei famosi fascicoli di Caizzi ed Amati, e dove si attacca inoltre
l'incompletezza della perizia medico-legale, fatta a Pinelli subito dopo la
morte, dai professori Luvoni, Falzi e Mangili.
Di questa incompletezza il primo responsabile è Caizzi che ai periti
per prima cosa chiede precisamente se "le lesioni riscontrate nel corso
dell'autopsia siano compatibili con le modalità di precipitazione prospettate
in atti e se siano state riscontrate lesioni di altro tipo, precisandone l'eziologia."
Vuol sapere dunque se le lesioni sono compatibili col tipo di caduta descritta
da funzionari ed agenti di polizia, al che "i periti fanno il loro mestiere,
a volte triste mestiere, e a domanda rispondono come vuole la legge. `A domanda
sapiente, risposta accorta' e sillogismo conseguente. Primo: in taluni casi
le lesioni da precipitazione sono dovute a suicidio, secondo, Pinelli presenta
queste lesioni; terzo, ecco che Pinelli si è suicidato. (Mentre trattati
medico-legali contemporanei, debitamente citati, distinguono tutti i tipi di
precipitazione, propongono sopralluoghi, ispezioni in loco e la conoscenza precisa
di tutte le altre circostanze precedenti la caduta "per decidere se si
tratta di suicidio, disgrazia o omicidio.")
I cinque medici contestano quindi altre parti della perizia, deplorando che
"di quella tal area grossolanamente o volare sulla superficie posteriore
del torace, alla base del collo," non si dia alcuna spiegazione particolare,
benché, come lesione, sia diversa da tutte le altre riproponendo quindi
il problema della modalità contusiva che l'ha indotta."
Mentre i medici stilano il loro documento, sempre alla vigilia del processo,
un bel numero di giornalisti milanesi e romani mandano per conoscenza il loro
alla prima sezione del tribunale. Essi "rivolgono un appello alla magistratura
invocando che sia fatta piena luce sulla morte di Pinelli, sottolineando che
finora nessuna risposta è stata data a tutti i dubbi del caso, ormai
fatti propri dalla stragrande maggioranza dell'opinione pubblica." Una
volta di più si vuol sapere come e perché è morto Giuseppe
Pinelli, si è convinti che questa sia l'unica strada non solo per render
giustizia a un galantuomo e alla sua famiglia, ma anche per fare un reale passo
avanti nell'indagine sulle responsabilità degli attentati di dicembre.
E non son da meno quarantatrè gruppi redazionali di riviste politiche
e culturali che anche loro prendono posizione nell'imminenza del dibattimento:
Sicure che Pinelli non si è suicidato, tutte queste riviste (comuniste,
socialiste, cattoliche) sono portate a considerare questo processo un fatto
politico di ampie proporzioni che "al di là della diversità
di linea politica e di atteggiamento delle riviste sottoscriventi rispetto al
giornale `Lotta continua,' reclamano più di una semplice solidarietà
con un giornalista colpito nell'esercizio delle sue funzioni direttoriali in
virtù della legge vigente." Esigono anche loro che "sia fatta
piena luce sulla morte dell'anarchico, risalendo alle più ampie responsabilità
connesse con gli attentati di Milano e di Roma: dichiarano che finché
non verranno date esaurienti spiegazioni sulle numerose infrazioni alle procedure
stabilite dalla legge, continueranno ad additare alla pubblica opinione gli
uffici inquirenti come responsabili dei gravi dubbi e incertezze che gravano
sui fatti, riservandosi altresì ogni possibile iniziativa per chiarire
gli aspetti oscuri e conturbanti degli avvenimenti di Milano e di Roma nel dicembre
1969."
"Che sia fatta piena luce," è la frase che si legge e si sente
ripetere .più spesso. E la ripete anche il PM Guicciardi il 9 mattina,
ad apertura di processo, quando è ancora tutto morbido e accattivante.
Per assicurare che vuol far luce anche lui, cita la rigida educazione ricevuta
dal padre e dal nonno; uomini per cui la verità era sacra. Si vuol luce
piena, verità, giustizia per quell'assente che egli, addirittura commosso,
commemora (giusto che Guida stia facendo i bagagli), descrivendolo: "un
uomo mitissimo, un idealista, alieno dalla violenza, di cuore onesto e mani
pulite." (Anche nell'istruttoria Valpreda il giudice Occorsio lo ha già
definito al di sopra e al di fuori di qualsiasi sospetto.)
Giustizia sarà dunque la parola che qui dentro echeggerà più
spesso, ed eccola in persona, di spropositate proporzioni e assai poco convinta
quanto a espressione, che appare nell'affresco sovrastante la corte, mentre
col suo mantello ripara un gruppetto di diseredati. Né ispira di più
quell'altra enorme statua che sta ritta in cortile. Ha la faccia dell'Italia
sui francobolli, l'hanno scolpita in tempo fascista, e francamente, con quella
spada e quel rotolo della legge branditi sopra il suo peplo, non promette niente
di buono.
Il 9 ottobre comincia a svolgersi quel rituale a cui dovrò assistere
per mesi: seduti i giornalisti e gli avvocati, che leggono, scrivono, chiacchierano;
tutti in piedi, perché sta entrando la corte; campanello; cenno di saluto
da parte del presidente; tutti seduti di nuovo i privilegiati (sempre in piedi
invece e assiepato là in fondo dietro lo steccato un pubblico intenso
ed estremamente partecipe, mentre nello spazio dei privilegiati stanno anche
degli uomini in nocciola o verdino, ci sono poliziotti in borghese tutti tesi
in una spasmodica attenzione a sentire cosa si dice in giro e cosa esce dalla
bocca dei loro colleghi). E svolazzano le toghe, si increspano gli jabots, scricchiola
la penna del cancelliere, ronza in un angolo il registratore.
Ma cosa mai sta succedendo nella zona di porta Vittoria? si chiedono i cittadini
distratti, visto che intorno al palazzo di giustizia e in tutte le strade adiacenti
par che ci siano le grandi manovre: file di gipponi, agenti in uniforme d'attacco
e difesa (borsa coi candelotti, manganello, scudo ed elmo con visiera), decine
e decine di autopompe "sufficienti," come scrive Guido Nozzoli, "a
irrigare tutta la Bassa." Sono tutti in assetto di guerra per l'inizio
del processo. E nemmeno dentro si scherza: cordoni dovunque al punto che il
grigio del palazzo è diventato grigioverde. Prima di entrare in aula
si vede un carabiniere che stacca da una colonna un manifesto con la testa di
un criminale, baffetti alla Hitler e svastica in fronte. "WANTED"
c'è scritto sopra, e sotto si spiega quale sarà la somma in dollari
che si guadagnerà chi cattura vivo o morto Calabresi. Per strada e nei
corridoi si accalca una quantità di anarchici e di studenti che non hanno
trovato posto nell'aula.
In prima fila nel pubblico vedo una vecchia conoscenza, dall'occhio cerulo,
la faccia triste e un po' spiegazzata: è Rachele Torri, zia di Valpreda
che vuol vedere bene in faccia chi, a un'ora e mezzo dalla strage, ha fatto
per primo il nome di suo nipote; seduta su una panchetta impassibile e composta
come al solito la signora Pinelli, e accanto il suocero, col bottoncino d'invalido
all'occhiello. In maglione e colletto celeste aperto che spunta fuori, quel
gran Sigfrido umbro che è l'imputato Baldelli, di madre finlandese e
buon passato di lanciatore del disco, autore della dichiarazione che leggerà
all'inizio dell'udienza.
Dichiara di non aver partecipato in alcun modo alla redazione degli articoli
su Pinelli e la sua morte, ma di esser d'accordo sulla posizione assunta dal
giornale. Ecco tutti i motivi per cui non crede nemmeno lui al suicidio (e li
elenca tutti), ecco la particolare situazione politica italiana che ha determinato
e poi avallato tale versione. "Mi trovo dunque qui, al rendiconto del tribunale,
perché sono persuaso che l'intellettuale, insegnante o scienziato o giudice
o prete o altro che sia, possa essere utile oggi alla causa del proletariato,
e quindi alla causa della giustizia, solo riconoscendo l'identità della
sua situazione con quella delle classi oppresse e impegnando la sua coscienza
civile ad analizzare questa situazione di violenza quotidiana e a partecipare
alla sua trasformazione rivoluzionaria." Gli avvocati si conoscono già:
la toga sta benissimo a Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra, fautori del
processo-verità, massimo approfondimento e maggior numero possibile di
testi; scende invece a mezza schiena all'avvocato Lener dal cranio nudo color
burro, che, in seguito a un incidente, cammina appoggiandosi a due bastonistampelle;
gli sta sempre a fianco il suo giovane di studio Giuseppe Melzi che gli porta
la borsa e gli porge i documenti; e Lener pare il più tranquillo di tutti,
quasi già sappia come andrà a finire la faccenda e dia tutto per
scontato.
Ventidue sono i testimoni citati dalla parte civile, in prevalenza funzionari
della questura: altrettanti quelli della difesa (addetti alla Croce Bianca,
giornalisti; anarchici, amici e parenti di Pinelli, il Valitutti, il medico
di guardia, l'on. Malagugini, i due detenuti Faccioli e Braschi, competenti
in violenze subite in questura, Nino Sottosanti che fece colazione in casa Pinelli
la mattina del 12 dicembre e poi se n'andò a incassar un assegno della
"Croce Nera," il questore Guida): La difesa chiede anche di acquisire
gli interrogatori resi dal tassista Rolandi e dal professor Paulucci durante
l'inchiesta sulla strage di Milano. Tutti e quarantaquattro vengono ammessi
dalla Corte, benché Lener si riservi di controllare la "pertinenza"
di ognuno.
Pare proprio che la partenza sia buona, e all'insegna del più conciliante
fair-play. Il dato eccezionale di questo processo è subito colto da Gentili,
che, parlando di "cittadini consapevoli" da cui sono arrivate indicazioni
utili sulla morte dell'anarchico, conclude: "Di solito sono i cittadini
che si rivolgono alla questura per risolvere un delitto: qui, per risolvere
un delitto, proprio loro hanno raccolto dei dati contro la questura." La
prima ironica risata, chi l'avrebbe mai detto, la strappa, naturalmente senza
volerlo, proprio Lener l'arcigno, perché, opponendosi all'acquisizione
degli atti che hanno portato all'archiviazione, esce in una battuta delle più
infelici: "Non si può far entrare dalla finestra quel che è
già uscito dalla porta." E parlare di chi entra dalla finestra in
un processo montato su uno che ne è uscito con violenza, e probabilmente
non di sua iniziativa, suscita sì il riso, ma anche una salva di fischi.
È quando comincia a parlare Baldelli che dai corridoi arrivan rumori
di corse e inseguimenti, prima si sente cantare, poi urlare. Sono gli anarchici
e gli studenti che non sono riusciti ad entrare in aula, e fuori dalla porta
cantano l'Internazionale e La ballata del Pinelli, o scandiscono
slogan contro Calabresi, finché il vicequestore Luigi Vittoria, il più
cremisi quanto a colorito, fra tutti i funzionari della Politica, che fuori
e dentro dirige il servizio d'ordine, decide di allontanare i disturbatori,
e li allontana coi suoi soliti modi bruschi, non proprio una carica, ma una
caccia serrata ai riottosi. La prossima udienza è fissata per mercoledì
24, grande l'attesa per la deposizione di Calabresi.
Ci siamo; ed è certo la costante scorta armata a rallentare nei giorni
di udienza la sua naturale andatura western, è l'aria del tribunale ad
appannargli di colpo l'alone di altera sicurezza a lui solita sul lavoro: né
l'antico prestigio più affiora quando pare passare in rivista tutto quell'esercito
movimentato apposta per lui dentro e fuori al palazzo di giustizia. E sì
che, presentandosi al processo, il commissario Luigi Calabresi gioca sul sicuro.
È a lui che in qualità di querelante spetta la prima giocata;
non solo, ma due robusti bastioni son già da tempo alzati a proteggerlo:
il decreto d'archiviazione e la richiesta di assoluzione senza processo del
questore Guida, immediato e temerario accusatore di Pinelli. E sempre sua è
stata anche la scelta del campo, cioè il rivolgersi alla magistratura
in questo preciso momento, quando è noto che si trova a una svolta conservatrice,
quando i giudici che manifestano la loro opinione democratica sono delegati
a trattare cause insignificanti, tipo liti fra prostitute, furti e accattonaggio,
quando il giudice Marrone è incriminato per aver detto che la giustizia
in Italia + una giustizia di classe, il giudice Marco Ramat per avergli offerta
la sera solidarietà, l'avvocato Dino Leon per reato d'opinione.
Perciò Calabresi poteva anche non immaginare di vedersi di colpo trasformata
da querelante in imputato (lo hanno infatti aggredito di contestazioni come
si fa con gli imputati, e come un imputato lui stesso si è difeso, scaricando
sugli altri le sue responsabilità), in un allucinante processo in cui,
mentre gli officianti sommessamente o subdolamente interrogano, dal di fuori
arrivano le cadenze di canzoni malinconiche o rivoluzionarie, oppure grida confuse,
echi di tonfi, corse e pestaggi, un processo in cui il vero protagonista è
l'anarchico morto.
E chi segue questa vicenda da vicino (come adesso) e da lontano (fin da quella
fosca notte di dicembre) non può non esser turbato da come è cambiato
il tono nei suoi riguardi: cancellate le accuse infami e i cocenti rimorsi che
l'avrebbero spinto al suicidio, eccolo invece completamente riabilitato già
fin dalle prime battute. Tutto diverso naturalmente anche il commissario, da
com'era quella tal notte in questura, quando, muovendosi con autorità
da primo attore, e sempre facendo di sì con la testa a quanto diceva
il questore ("fase di contestazione, pesantemente indiziato, agitatissimo,
alibi caduti"), gli faceva come da grave controcanto (a Roma si stava puntando
sul Valpreda, il Rolandi l'aveva riconosciuto nel pomeriggio; quindi, per meglio
incastrarlo, in serata andava benissimo anche un suicida).
No, davanti ai giudici, Calabresi non è più il prestigioso personaggio
di allora. Ha sì il suo pullover a collo alto, sotto il completo rigato
gangster, sempre debole il mento, ben curata la basetta, ma ogni tanto nei momenti
di tensione un irrefrenabile tic gli fa premere la già risoluta mascella.
Ha perso l'aria di superiorità a lui solita, (anche perché al
suo apparire il pubblico scatta in grida ritmate: "Ass-a-ssi-no! Ass-a-ssi-no!"),
e alla pari del più modesto brigadiere appare un semplice esecutore di
ordini, è soltanto un oggetto in mano ai superiori. Gli ordinano di andare
in via Scaldasole a prendere gli anarchici e lui ci va e li prende; gli ordinano
di andare il giorno dopo a Basilea a interrogare il tale e lui esegue; lunedì
15 lo incaricano di interrogare Pinelli, ma solo sui suoi rapporti con Valpreda,
guai a sconfinare, e lui non sconfina. Sulla posizione di Pinelli non sa niente,
e tantomeno sui suoi alibi. ("Non ero a conoscenza, ero all'oscuro, non
toccava a me interessarmi"), non sa perché deve interrogarlo solo
da qui fin lì, né gli viene in mente di chiederlo, si guarda bene
dal contestargli qualcosa, finché, a verbale ultimato, prende il verbale
per portarlo dal dottor Allegra, e il suo compito è finito.
Se allora sapeva che Pinelli era un poco di buono, adesso sa anche lui che era
una gran brava persona con la quale si descrive nei migliori rapporti: gli regalava
libri, gli offriva caffè, con lui "aveva scambi di idee e di vedute,"
e l'interrogatorio non era un interrogatorio ma un dialogo, magari costellato
di battute. Una bugia ammette sì di avergliela detta durante il dialogo,
e non certo verso mezzanotte ma quattro ore prima, però era più
che altro "una frase a effetto," era "Valpreda ha parlato!"
e nonostante il pallore e la drammatica risposta, in serata Pinelli era sempre
stato sereno e disteso. ("Sì, ma per terra!" urla il pubblico
che appena può lo rimbecca.)
Prima che apparisse Calabresi, aveva parlato Lener, per sollevare la prevista
eccezione sulla testimonianza dell'ex questore Guida che, secondo lui, non può
esser sentito in quanto tuttora imputato di diffamazione e di violazione del
segreto d'ufficio. Niente on. Malagugini perché il suo potrebbe essere
soltanto "un soliloquio." (Ma perché? Non era stato il primo
a ricevere le confidenze del questore? "...Aggiunsi che mi permettevo di
sottolineargli la grave responsabilità che si assumeva dichiarando che
il Pinelli si sarebbe suicidato perché raggiunto da gravi indizi"
aveva detto il deputato quella notte al questore, "e che una dichiarazione
di quel genere avrebbe offerto al linciaggio morale e non solo morale chiunque
fosse stato ritenuto appartenente a circoli anarchici... A tale mia osservazione
il dottor Guida rispose che un funzionario della sua anzianità e del
suo grado sapeva assumersi le responsabilità richieste dalle circostanze";
così dalla deposizione a Caizzi la mattina del 6 aprile 1970.) Niente
Rolandi e Paulucci perché già testimoni del processo Valpreda,
niente anarchici Braschi e Faccioli in quanto imputati nel processo per gli
attentati del 25 aprile.
La figura di funzionario che non guarda gli orologi e non è nemmeno tanto
spedito nel dire bugie, a Calabresi gliela fan fare gli avvocati Gentili e Guidetti
Serra, ma lui non si scompone: chissà, forse la frase: "Questa è
la fine dell'anarchia!", Pinelli può averla ripetuta anche negli
ultimi momenti, tanto lui non c'era. La bella figura gliela vuol far fare Lener,
naturalmente, quando a proposito delle cortesie usate al ferroviere il Natale
1968, rivanga l'episodio del libro di Emanuelli, e ahimè per colpa sua,
in aula si ride ancora. "Allora Pinelli lo aveva contraccambiato con un
altro libro: era Spoon river," dice testualmente il virtuoso partenopeo
della parola, quindi "un'antologia di canti negri," aggiunge, per
offrire una nota di cultura in più. Dato poi che il gioco dello scaricabarile
è la specialità di Calabresi ("...esulava dalle mie competenze,
chiedetelo ad Allegra!") il pubblico irriverente sbotta: "Calabresi
buttati, ché Allegra ha parlato! "
Da notare anche in questo primo giorno la marcia indietro fatta dal Calabresi,
oltre che sul noto orario, anche sulle dichiarazioni che fece alla stampa la
notte degli at tentati. Allora aveva detto che per lui i terroristi andavano
cercati negli ambienti anarchici e di estrema sinistra, oggi invece afferma
che parlò di "indagini in tutte le direzioni." Ha una voce
bassa ed educata, per dire che arresta uno, dice che "lo fa accomodare
in questura" e quando non sa, dice che "sconosce." Ma si guarda
bene dal girar l'occhio all'intorno, perché se lo fa, e s'imbatte nel
pubblico, da dietro lo steccato l'ira scoppia e parte 1'ingiuria.
Quando questo succede, Lener incita il presidente a procedere a degli arresti
per oltraggio permanente a pubblico ufficiale, "ma come faccio ad arrestare
sessanta o set tanta persone? " fa lo sconcertato milanista e invita alla
calma, minacciando di sgomberare l'aula, mentre nei corridoi questa volta si
scatena il pandemonio. Per oggi Calabresi ha finito di deporre, ma non lo lasciano
uscire, e resta fermo con la mascella che gli vibra davanti alla Corte in mezzo
a due carabinieri; e intanto il vicequestore Vittoria, con la fascia tricolore
a tracolla, ordina la carica contro qualche centinaio di giovani che urlano
slogan o cantano inni: nella carica vengono coinvolti avvocati in transito e
innocenti segretarie, cadono in frantumi alcune vetrate, si arresta un ragazzo
e se ne denunciano una dozzina a piede libero, fra cui il Valitutti.
Molti del pubblico vorrebbero uscire a vedere quel che succede fuori, ma per
paura che anche qui al chiuso irrompa il caos, gli agenti hanno chiuso a chiave
la porta
d'uscita; così gridano anche questi qui, spingendo e protestando, e per
vendicarsi scandiscono il loro, di slogan interno, rivolto al commissario che
sta in piedi di tre quarti a fissarsi quella catenella a forma di manetta che
gli brilla sui mocassini. "Ass-assi-no, ass-assi-no! " gli gridano,
chi gli lancia contro dei giornali, chi qualche monetina, il presidente scampanella
furioso, la seduta è sciolta, un usciere apre frattanto la porta al pubblico,
ma Calabresi lo fanno aspettare. E resta lì solo in aula con la sua scorta,
finché fuori cala il silenzio.
Mentre alla terza udienza la calma ritorna (nei corridoi ci sono soltanto gli
agenti, niente più traccia di dimostranti), in chi si trova nell'aula,
dove si attacca a interrogare i testi oculari di quella notte, e precisamente
quelli che dovrebbero aver qualche cosa da dire sul tuffo di Pinelli, comincia
a serpeggiare qualcosa che porta a un disagio diffuso, a un senso di esasperata
stupefazione, e perfino alla collera. Di ora in ora, attraverso le parole dei
protagonisti, il pubblico si rende conto infatti che quel che vogliono fargli
credere è assurdo, che tutte le ricerche sono atrofizzate, che ogni tattica
e strategia di difesa mostra a un certo punto una falla, un buco, uno sbandamento,
e sulla pedana dei testimoni si sta snodando un crescendo di bugie, che forma
come un tessuto, però falloso, dappertutto cedimenti, nodi ed intoppi.
Arriva l'ex tenente e da poco capitano dei carabinieri Savino Lo Grano (sopracciglia
boscose, tendenza al raddoppiarsi del mento, batter di tacchi, sempre su i guanti),
che in quella notte agli ingenui giornalisti circondati da questurini, apparve
l'unico lievemente turbato, e sul conto del quale qualche giorno dopo s'era
diffusa la voce che, parlando con un suo superiore, aveva dato una versione
diversa da quella generale: che il Pinelli cioè, colto da malore per
lo sfibrante interrogatorio, si sarebbe avvicinato alla finestra, precipitando.
Chi pensava che forse da lui sarebbe potuto trapelare qualcosa di diverso da
quell'imparaticcio corale a base di parole che son sempre le stesse ("sereno
e disteso," "sbiancò in volto," "recepii la notizia"),
non può che restare amaramente deluso, perché il signor capitano
appare durissimo, addirittura disumanizzato, e il tragico momento, completo
di seguito e d'antefatto, lo descrive tale e quale a una manovra militare.
Anche Lo Grano si ricorda un Pinelli "sereno e disteso," insieme al
fatto che non gli stavano contestando un bel niente. Perché mai è
questa la tesi dei due primi testi,
e non si fa fatica a pensare che sarà la stessa di quanti si trovavano
quella notte nella drammatica stanza? Perché a furia di contestazioni,
l'uomo illegalmente fermato avrebbe potuto esser spinto alla disperazione e
quindi al salto, e allora i funzionari potevano essere accusati di istigazione
al suicidio. O anche di omicidio colposo, se l'eccitato turbamento di Pinelli
fosse stato così evidente da esigere una stretta sorveglianza.
Ma proprio per evitare queste accuse (e sottolineare la tesi del raptus), adesso
sono tutti d'accordo sul suo buonumore e anche sulla retrocessione dell'ora:
tutti i tempi oggi sono arretrati di circa trenta minuti; mentre, come ben si
sa, il momento della frase: "Valpreda ha parlato! " fa un salto indietro
di quattro ore, e cambia anche la stanza; che non è più quella
di Calabresi. E ciò perché dalle prime versioni (frase echeggiata
intorno a mezzanotte; sconsolato grido e salto di Pinelli), non solo Calabresi
risulterebbe nella stanza con lui, ma risulterebbero anche le contestazioni
e un Pinelli turbato fino alle estreme conseguenze.
Circa gli altri orari, la fine dell'interrogatorio viene ora spostata da mezzanotte
(istruttoria di Caizzi) alle 23,30; dalle 23,30 alle 23 l'intervento di Allegra;
dalle 22 alle 21,30 l'ingresso di Lo Grano. Per dimostrare e convincere anche
gli ottusi che, uscito Calabresi alle 23,40 e rimasto dai cinque agli otto minuti
nella stanza del capo della Politica, si arriva alle 23,50 (o 55), ora del tonfo,
ed è quindi logico che l'ambulanza la si chiami alle 23,58. Si vuol dimostrare
appunto che la caduta è avvenuta prima della chiamata; ché se
il corpo cade a mezzanotte (come dai primi verbali) vien fuori che il Pinelli
stava male prima, e per questo l'avviso all'ambulanza è stato dato in
anticipo sulla caduta.
Diversa quindi dalla sua iniziale come da quella degli altri presenti, la sua
versione attuale del salto. Lui che va e che viene dalla stanza dell'interrogatorio,
ma che ci sta di seguito dalle 23 in poi, mentre arriva Allegra a dir la sua,
Calabresi interroga, Caracuta verbalizza, Mucilli, Panessa e Mainardi sorvegliano.
Sei in tutto in una stanzetta di tre metri per quattro (come aveva detto Calabresi).
Gran fumo, finestra socchiusa, libere le due ante, interrogatorio reso un po'
difficile dalla labilità di memoria del morto, ma si arriva al verbale
e Pinelli firma. "Firma anche il primo foglio," fa diligente il commissario,
"magari, dopo, noi potremmo cambiarlo," e il Pinelli sempre fiducioso:
"Non siete gente da fare queste cose." (Risatacce nel pubblico.)
Via Calabresi dalla stanza, Pinelli fuma, due brigadieri stanno ai lati della
finestra, uno di qui e l'altro di là, Pinelli getta il mozzicone attraverso
le ante accostate. E non è proprio in questo momento ("fino ad allora
l'avevo sempre guardato") che Lo Grano si distrae? Le sue orecchie però
sentono un gran rumore, come di legno sbattuto; alza lo sguardo torna alla finestra
che ora è spalancata. Inquadrate al centro nel vuoto le suole di Pinelli,
imprigionaci e impotenti dietro le ante i due angeli custodi, allora il tenente
dei carabinieri grida subito: "Si è buttato, si è buttato!
" e lo comunica a Calabresi e ad Allegra che accorrono concitati; si dirige
all'ascensore, ma poiché l'ascensore non arriva, "subito lasciai
l'ascensore e andai giù con le scale, dal quarto piano."
Mentre nella sua prima versione, nell'interrogatorio reso a Caizzi all'indomani
della caduta, Lo Grano vede Pinelli che salta e un brigadiere che tenta di acchiapparlo;
e tutti gli altri affermano che solo un battente risulta aperto e quell'altro
è chiuso, anzi c'è la maniglia che lo assicura. Allora disse precisamente:
"All'improvviso ho norato il Pinelli scattare versa la finestra, e dopo
averla aperta, saltare oltre la ringhiera. Ho visto nello stesso istante il
sottufficiale che era vicino al termosifone slanciarsi addosso al Pinelli e
sporgersi pericolosamente oltre alla ringhiera dopo che era riuscito quasi ad
afferrare le gambe del Pinelli."
Adesso va avanti a raccontare la sua visita all'ospedale, dove Pinelli stava
morendo, e, benché laureando in fisica, non riesce a dire quello che
gli stavano facendo, annaspa un po' per decidersi a dire "tracheometria."
Un'altra sua strana ammissione è infine quella che fa dopo la corsa in
cortile dove raccoglie le ultime parole di Pinelli ("Ahi che dolore! "
o qualcosa di simile), dove cerca di tirarlo su ma lo lascia ricadere per tornarsene
al quarto piano. Quando l'avvocato Gentili infatti gli chiede se può
descrivere la posizione del corpo, dice che proprio non può farlo, e
alla domanda: "era bocconi o supino?" risponde che non è in
grado di dire neanche questo.
Sconvolgente anche una delle reazioni di Calabresi sempre nella stessa notte.
A sentir lui, che torna sulla pedana, non vede cadere Pinelli, e son cinque
minuti che sta parlando con Allegra quando dalla stanza sente venire "un
trambusto, un tonfo, un grido," mentre i sottufficiali corrono come pazzi
nel corridoio: "Si è buttato!" urlando a gran voce. E cosa
fa allora chi continua a dichiararsi in ottimi rapporti col morto, chi, a sentir
lui, da sempre lo stima e non sente nei suoi riguardi né rancore né
stizza?
Non si precipita in cortile, come sarebbe logico ed umano, per vederlo e aiutarlo,
ma resta su negli uffici della Politica a telefonare alla Volante (chiamano
anche da giù, naturalmente), anzi, se corre da qualcuno, è da
Valitutti che corre, l'uomo che data la posizione della sua stanza, può
aver visto gli spostamenti delle persone e sentito bene certi rumori e certe
grida. Corre da lui, come dice a chiusura della sua seconda deposizione, perché,
evidentemente temendo un'epidemia di suicidi, una catena di volontarie defenestrazioni
("temevamo che si abbandonasse anche lui a gesti insani," spiegherà
il brigadiere Caracuta), vuole scortarlo in un locale più interno; e
anche (o forse soprattutto) perché vuole sapere di preciso cos'ha visto
e sentito.
Il 27 e il 28 ottobre son due giorni di udienze incredibili, in cui senza un
briciolo di vergogna viene ricostruito dai testimoni oculari quel che avvenne
la notte del 15 dicembre in quel corridoietto striminzito, tutto tappezzato
di uomini (sei per la verità oltre a Pinelli, e uno stava sulla porta),
tutti robusti, uno solo con gli occhiali: e benché quasi tutti a contatto
di gomito, nessuno vide, nessuno previde, nessuno evitò. È quella
famosa stanzetta del quarto piano della questura che i testimoni hanno evocato,
tentando di ricostruire il tragico gioco dei cinque cantoni con al centro Pinelli,
in un fuoco di fila di incongruenze, contraddizioni, ammissioni confuse e perfino
risate, col risultato di rendere prima sbalorditi e poi pieni di vergogna i
cittadini presenti, interessati e responsabili.
Come una commedia degli equivoci, quasi una farsa insomma a base di uomini inclini
alla corpulenza che restano imprigionati da ante larghe sessanta centimetri,
di fragori udibili a due camere di distanza e sempre provocati dalle stesse
antine (una sola anzi a sentire gli ultimi testimoni), di impensate catene della
solidarietà (uno che precipita, un altro che lo afferra, un terzo che
abbraccia il generoso, anzi lo "cintura" (perché per un caso
malaugurato non debba cascar giù anche lui), e di brigadieri che non
contestano ma conversano con la vittima perché vogliono coltivarsi anche
un po', per esempio aver coscienza "di cos'è l'anarchia. "
Una comica finale in cui gli incastratori restano incastrati.
Mentre dopo il fatto, tra questi uomini, quale robustissimo, quale curioso di
ideologie, ce n'è uno che piange, le mani sulla faccia e la faccia sull'étagère,
un altro che si accascia sul tavolo nello stanzone dei fermati, un altro ancora
che si lascia cadere sul divanetto di fronte all'ascensore, così nessuno
corre in cortile a vedere cosa si può fare per l'anarchico precipitato
(eccetto quel tal coriaceo carabiniere, che però non sa dire in che posizione
è caduto, limitandosi a constatare che "deve aver qualcosa di rotto").
Il tutto poi condito da quel linguaggio comune tanto ai capi che ai subalterni,
in cui non si interroga ma si procede all'espletamento dell'interrogatorio,
a un tratto ci si rende edotti, ma non si vale a precisare, quindi si recepisce
nel tempo e si percepisce nell'immediatezza, se no ci si astiene precipuamente,
sempre ci si premura, appena possibile si incastra, e l'uomo è un elemento,
la macchina un'autovettura, il suicidio è il lamentato gesto, il "ricattino"
è all'ordine del giorno, la vittima è il sopraddetto, le carte
son scartoffie e i piedi estremità.
Così piccola dunque è la stanza (e in più ci sono tre sedie,
la scrivania, la libreria-ètagère, la stufa, il mobiletto portatelefono),
che diventa insostenibile la tesi dell'avvocato Lener: escludere cioè
nei funzionari qualsiasi tipo di responsabilità per mancata sorveglianza.
E allo stesso modo, nonostante la tesi parallela che sottolinea l'atmosfera
amichevole e al massimo permissiva dell'interrogatorio (in contrasto con le
prime notizie: situazione tesa, fase di contestazione), attraverso le arru$ate
deposizioni dei testi, ri sulta evidente il clima pesante in cui si svolgono
gli interrogatori in questura. Esempio: il Pinelli non era fermato, ci si affanna
a dire, e allora perché lo tenevano lì da tre giorni interrogandolo
anche di notte? E se era un ospite non indiziato di reato, perché gli
facevano delle contestazioni, dei "ricattini," delle minacce? No,
che non gliele facevamo, rispondono in coro; eppure, benché platealmente
retrocessa, resta sempre la provocazione su Valpreda che ha detto tutto, e per
ammissione stessa del capo dell'ufficio politico Allegra il suo infelice sillogismo
sul numero dei ferrovieri anarchici a Milano, quindi la colpa di Pinelli e la
promessa di portargliene le prove. (Che si aspettano ancora.)
È stato soprattutto Allegra, così scuro in faccia per quell'ombra
di incorreggibile barba, ma così eternamente sorridente, a voler sempre
alleggerire ogni circostanza: il fermo che non era considerato tale, il saltafosso
sulla bomba alla stazione che oggi egli giudica del tutto irrilevante ("non
gli. potevo dare una grande importanza, perché non era controllabile"),
ma era allora un elemento base "per incastrare il Pinelli, per vedere che
effetto gli faceva." Mai sognato inoltre di ledere il suo onore (è
i rapporti alla Procura di Roma che sottolineano la sua partecipazione agli
attentati di aprile, agosto e dicembre?); né mai fatta all'anarchico
la minima minaccia. (Ma gli avvocati Gentili e Guidetti Serra hanno in serbo
due testimoni che affermano il contrario.)
Secondo Allegra non ha importanza nemmeno il primo rapporto, anzi l'unico sulla
morte di Pinelli, diretto alla Procura di Milano all'alba del 16 dicembre, in
cui l'ora della caduta è fissata a mezzanotte e un quarto, mentre Calabresi
sta procedendo all'interrogatorio. Ebbene sì, la firma è la sua,
ma a scriverlo è stato un sottufficiale di cui non ricorda nemmeno il
nome, e lui, guarda un po', non ha dato peso alla stesura di un documento di
tale importanza, in quanto lo considerava soltanto una letterina di accompagnamento.
Accompagnamento di che cosa? Dei verbali di Pinelli e delle testimonianze sull'alibi.
(Non accompagnava un bel niente invece, perché quei documenti andarono
da Caizzi con un bigliettino di Calabresi, sei righe in tutto. Comunque lo scritto
che che manda a monte le tesi difensive di oggi, allora Allegra 1o firme senza
leggerlo, così come egli afferma, e si tratto secondo lui "di un'inesatta
informativa."
È poi sempre Allegra a introdurre in aula la fantomatica presenza dell'ispettore
Catenacci. Come capo della Politica, gli chiede la difesa, non ha pensato di
promuovere
un'indagine circa i fatti di quella notte? L'indagine l'ha disposta il ministro
degli Interni, è la risposta, e lui ignora come sia andata a finire,
ne era incaricato comunque un certo dottor Catenacci. Quindi, nel corso delle
udienze, si noterà che citando l'ispettore, per via di quel cognome da
commedia faceta, i testi sorridono o sobbalzano, ma nessuno l'ha mai visto né
sentito, nessuno è stato mai interrogato da lui.
Calmo il capo della Politica nel minimizzare tutto col sorriso, allarmato invece
il brigadiere dattilografo Giuseppe Caracuta nel descrivere l'attimo fatale.
Lui sta riordinando dei fogli, così si volta solo al rumore dell'anta
e quel che vede è il brigadiere Panessa "che si sporge a metà
fuori dalla finestra" cercando di prendere qualcosa, di afferrare qualcosa
che non poteva essere che il Pinelli. Bene, però i1 1° dicembre al
giudice Caizzi egli aveva descritto "il balzo repentino verso la finestra,
che era socchiusa, e cioè con il battente di sinistra appena aperto:
ha spalancato quest'ultimo, buttandosi nel cortile sottostante." Invitato
alla coerenza, adesso nervosamente precisa che "ha visto qualcosa come
se schizzasse, come una saetta, e subito dopo il Panessa." Ma è
una contestazione che gli fa perdere la memoria su tutto il resto: sa solo che
la finestra non doveva essere aperta da molto, perché l'aria gli finiva
direttamente nella schiena, e contraddice così il Calabresi che la dichiara
aperta da due ore a causa del fumo. (Nel rapporto a Caizzi il Caracuta aveva
descritto interrogatorio e salto come avvenuti tutti e due nella stanza di Calabresi:
ora invece la prima metà con la contestazione su Valpreda la fa avvenire
in un altro ufficio: e a legger bene il decreto d'archiviazione, si vede che
anche allora, a sei ore di distanza, l'interrogato aveva già cambiato
deposizione. Sei ore sono passate, gli altri hanno deposto in un certo modo
e si allinea anche lui: "...aggiungo che l'affermazione fatta dal dottor
Calabresi al Pinelli per vedere la sua reazione e cioè che i1 Valpreda
aveva parlato è avvenuta in un altro ufficio, posta un po' avanti e spostato
rispetto a quello del dottor Calabresi... ") È il Caracuta che oltretutto
aveva iniziato per primo l'interrogatorio chiedendo al Pinelli "che cos'è
quest'anarchia, in quanti gruppi si divide, di che gruppi si tratta, si parlava
dell'anarchia in genere, una conversazione amichevole, un colloquio."
Nemmeno il brigadiere dei carabinieri Attilio Sarti vede quella che viene chiamata
la dinamica del salto; benché sia sulla soglia e la porta sia solo semiaperta,
a un tratto riesce a scorgere i piedi del Pinelli inquadrati nella finestra,
Panessa che si sporge e Mucilli che a sua volta trattiene Panessa (sebbene affermi
che quello che conosce bene è soprattutto Mucilli ma qui lo scambia per
Mainardi, e non si riesce a capire più niente, impossibile comunque che
in quel suo spicchio di visuale rientri anche Panessa). Mucilli, invece (alto,
grosso, faccia larga, con gli occhiali sotto una selva di capelli neri), sta
mettendo a posto una cartella nella libreria, ed ecco che anche lui si volta
al rumore ("della finestra, bran bran"), ma non ha la stessa visione
del 15 notte ("Il Pinelli che si tuffa oltre la ringhiera, e,ho notato
il brigadiere Panessa sporgersi a sua volta per acchiapparlo") perché
adesso, oltre alla ringhiera, vede solo "la metà delle estremità
inferiori." Quindi mostra al tribunale stupefatto 1a sua reazione di allora
a quella vista: strette le labbra sottili, seppellite testa e occhiali fra le
mani e un "no! no"' soffocato che vien fuori da tutti quei capelli,
tale il terrore che precipitasse anche l'amico Panessa.
Quanto al brigadiere Carlo Mainardi, un uomo grosso, calvo, rauco, col profilo
da pugile (l'unico comunque a parlare con accento settentrionale), entra per
caso anche lui nella stanza c, dopo che Calabresi se n'è andato coi verbali,
offre da fumare al Pinelli, gli fa una domanda sulla composizione dei treni
ed ha la sua risposta. Ma mentre il 16 dicembre dice d'aver visto subito dopo
il Pinelli che "con uno scatto fulmineo apre il battente sinistro e si
butta di sotto, così che corso alla ringhiera lo vede cadere insieme
alla brace della sua sigaretta," oggi racconta che Pinelli, messa la mano
nello spiraglio, di colpo gli sbatte in faccia l'anta, e allora, sebbene sia
di notevolissima stazza, lui non può muoversi, anzi per portarsi alla
finestra "deve fare il giro dell'anta per tutta la sua lunghezza"
(ricordiamo che è larga sessanta centimetri), e, fatto il giro, altro
non gli resta che "cinturare" il Panessa, versione in contrasto con
quella di Lo Grano, secondo il quale due sono gli imprigionati impotenti, cioè
Mucilli e Mainardi. Notare inoltre che nella deposizione a Caizzi, udito la
prima volta alle nove del giorno 16, Mainardi parla di ufficio di Calabresi,
di verbali firmati, di andata via di Calabresi e lancio del Pinelli, ma, risentito
alle 18,20 dello stesso giorno, aggiunge il particolare dell'entrata di Allegra,
con là estemporanea domanda se fosse lui l'unico ferroviere anarchico
a Milano. E: "lui rispose affermativamente, ma non ricordo altri particolari,
né il giorno preciso in cui sono state pronunciate queste parole."
(Memoria delle più infedeli, confusione fantastica, come fa a non ricordare
il giorno preciso a ventiquattr'ore di distanza?)
Insomma non c'è proprio nessuno che sappia descrivere come fa il Pinelli
a gettarsi a pochi centimetri dai suoi angeli custodi. (Prende la rincorsa?
Ma come faceva in uno spazio così esiguo? Fa un salto sulle punte o si
mette a cavalcioni della ringhiera?) Non lo sa nemmeno il brigadiere Vito Panessa
che allora aveva parlato di "scatto felino," e la sua deposizione
è la più calamitosa di tutte. Panessa si può definire un
caso limite e Lombroso l'avrebbe incluso in una categoria ben definita. È
un'ora di deposizione, durante la quale i funzionari di PS presenti in aula
non respirano più , una volta scatta anche il giudice Biotti che di solito
usa rallentare la tensione dell'udienza con la sua bonaria mediazione. ("Mi
scusi, ma non capisco perché le venga sempre da ridere parlando della
finestra" e a un certo punto esplode: "Lei parla troppo, brigadiere.")
Grosso, quadrato, facilissimo a passare dalla grinta al sorriso conciliante,
dotato inoltre di mimica eccessiva e insignificante, Vito Panessa (che dice
prima d'essere alle di pendenze di Calabresi, poi di Allegra, e di "lavorare
su ordinazione" come Sparafucile), al pari di tutti gli altri, a un certo
punto sconfessa il superiore. Quella notte nessuno aveva una sua funzione nei
confronti del Pinelli, come invece afferma il commissario, ma eran tutti lì
per caso, di passaggio o per curiosità. E chi lo interrogava sulla formazione
dei convogli, o sull'anarchia, lo faceva per desiderio di cultura personale.
Dunque, secondo Panessa, da calmo che era e soltanto desideroso di buttare via
la cicca, Pinelli all'improvviso dà un colpo all'anta e vola giù,
sfiorandolo col piede nell'attimo in cui lui si volta: ed ecco che sta per essere
trascinato anche lui (dal piede che sfiora?). Tutto qua, fra risate frequenti,
compiacimento per quello che dice, sguardi all'ingiro quasi a chiedere approvazione,
e infine la descrizione minuziosa del suo choc personale: "ci è
voluto," egli dice, "un po' perché si rianimasse"; quando
poi vede il Valitutti è ancora "in fase di rianimazione."
Si arriva così alla famosa frase sulla confessione del Valpreda, e conseguente
grido del Pinelli, e val la pena di rendersi conto di tutte le sue confusioni,
ritrattazioni, fra si pasticciate e incomprensibili. Questa frase, nella deposizione
del 16 dicembre, risulta pronunciata sul tardi nell'ufficio del commissario.
("Ha solo avuto uno scatto verbale quando ha appreso dal dottor Calabresi
che il Valpreda aveva parlato. Egli ha infatti esclamato: `È la fine
dell'anarchismo!' Era circa mezzanotte, quando allontanatosi il Calabresi, all'improvviso
il Pinelli..." e qui lo scatto felino, quindi: "mi sono slanciato
per afferrarlo, sporgendomi oltre la ringhiera e riuscendo quasi ad afferrare
il piede destro, che. ho poi mollato per le grida alle mie spalle...")
Ma a distanza di poche ore, sempre il giorno 16, si corregge: "Prendo atto
che risulta dalle dichiarazioni del brigadiere Caracuta che la circostanza sull'affermazione
del dottor Calabresi fatta al Pinelli che il Valpreda aveva parlato si è
svolta non nell'ufficio del dottor Calabresi e molto prima del mio intervento.
Preciso che, pur confermando le precedenti dichiarazioni fatte alla S.V.,
che non sono in grado di escludere, ho riferito tali circostanze nell'immediatezza
in ufficio." Quindi, ancora poco dopo, ma sempre il giorno 16: "Ho
assistito all'interrogatorio del Pinelli Giuseppe la sera del 15 scorso nell'ufficio
del dottor Calabresi, che ha detto al Pinelli, per vedere quali reazioni aveva,
che il Valpreda aveva parlato. Ciò penso sia avvenuto dopo circa mezz'ora
o un'ora che io ero intervenuto. Ero presente altresì quando il dottor
Allegra, circa mezz'ora prima della caduta del Pinelli, chiestogli chi fosse
il ferroviere anarchico e saputo che era lui, gli contestò... Il Pinelli
respinse l'accusa senza scomporsi..." e avanti con la versione ufficiale.
Sentiamolo adesso in aula il 27 ottobre 1970: "Ora nell'interrogatorio
che ha fatto il dottor Caizzi, a cui sono stato sottoposto, devo aver detto
di aver sentito, prima o dopo o durante, la famosa frase `Valpreda ha parlato,'
o qualcosa del genere. Poi, a richiesta del dottor Caizzi, pur prendendo
notizia che quella frase era stata detta all'inizio, così come mi
affermava il dottor Caizzi, non potetti escludere che quella frase io avessi
invece potuto sentirla nell'immediatezza di qualche dichiarazione resa dal Pinelli,
o appena sono entrato nella stanza o dopo; ed in particolare su questo io non
fui preciso, non sono preciso; forse non sarei nemmeno preciso se... ho tentato
di raccogliere...! ma certe cose sfuggono, anche perché, come ho detto
poco fa, io ero sì interessato ad aggiungere alle notizie che già
avevo qualche altra notizia che potesse venir fuori, ma non ero interessato
come verbalizzante, in quanto l'interrogatorio veniva condotto da tempo, non
so se da un'ora prima o da due, non lo so, perché sono entrato quando
era in corso l'interrogatorio."
Solo parole in libertà. Anche Biotti appare sconvolto, e dopo un po'
torna sull'argomento: "Il giorno 16 lei fu sentito dal dottor Caizzi? "
Panessa: Sissignore; siamo stati invitati per la mattina, ma io credo
di essere stato sentito la sera, il pomeriggio. Sono rimasto... Non ricordo.
Giudice: Lei vorrebbe rettificare una imprecisione nella quale crede
di essere incappato...
Panessa: Ma io credo di non essere in grado; è questo che volevo
dire; non sono in grado di rettificare, di precisare esattamente se io l'ho
sentita perché mi è stata riferita, perché è stata
ripetuta, quella frase. Siccome io credo di aver detto di averla sentita,
perché è stata ripetuta, quella frase. Siccome io credo di aver
detto di averla sentita, di averla recepita direttamente; poi, raccogliendo
un pochino, non credo di averla sentita. Però non sono in grado
di escludere che mi sia stata riferita durante...
Giudice: Quindi, poiché sappiamo che questa frase fu detta subito
dal dottor Calabresi, appena iniziato l'interrogatorio, lei non era presente?
Panessa: Non ero presente all'inizio; dopo, dopo qualche giorno si
è discusso su questo particolare, e poi vengono fuori esattamente
delle imprecisioni. Imprecisioni dovute a perfetta buona fede, tenuto conto
anche del fatto - che io ho partecipato come... in quanto ero presente, ma posso
averla sentita nel corso dell'interrogatorio, perché è probabile
che sia stata riferita dal dottor Calabresi ancora una volta, ancora due. Devo
averla fatta propria: quindi mi sarà rimasta quella parte... Dopo
tre o quattro giorni è stato possibile stabilire quando è stata
detta in effetti; è stato stabilito, poi, nel tempo, che quella frase
è stata detta all'inizio. Nel tempo; perché per un certo periodo
di tempo non se n'è parlato più fra di noi, perché ognuno
ha badato... non le so dire se dopo dieci giorni o quindici, o dopo un mese
o dopo un giorno. Nel tempo!
Allora la Guidetti Serra: Vorremmo che il teste dicesse qualcosa di più,
perché lui dice: "nel tempo." Il giorno 16 dicembre, in modo
preciso invece ha detto: io [io udito la frase. Allora ci dica quando l'ha sentita,
direttamente o indirettamente.
Gentili: La risposta di Pinelli l'ha sentita o non l'ha sentita?
Giudice: Sente queste contestazioni? [legge il verbale]. E allora oggi,
sotto il vincolo del giuramento, cosa dice?
Panessa: Credo che in quell'occasione io ebbi notizia del momento in
cui questa frase è stata detta; non ricordavo, e quindi nel prendere
notizia dissi va be'... In un primo interrogatorio dissi al dottor Caizzi di
aver sentito quella frase. Poi, presi notizia, qualche tempo dopo, dal dottor
Caizzi, che questa frase era stata detta dal Calabresi all'inizio dell'interrogatorio;
io non ero presente all'inizio, sono arrivato quando era in corso. Allora risposi
che potetti averla sentita e accettata come se l'avessi sentita io, tenuto conto
anche del trauma psichico...
Adesso chi ricorda i fratelli De Rege e i loro dialoghi, può paragonarli
a quello che deve essere avvenuto tra Pancssa e Caizzi (Caizzi che insiste per
far dire quello che è bene dire a Panessa, e Panessa che non riesce a
capire, nonostante le precise istruzioni).
Giudice: Lei non è stato presente né alla frase né
alla risposta del Pinelli?
Panessa: Dopo si è stabilito che non ero presente.
Giudice: Però non esclude...
Panessa: Che possa esser stata ripetuta.
Giudice: Sia la domanda che la risposta!
Panessa: Non escludo che mi sia stata riferita e quindi devo averla
recepita come se l'avessi sentita io.
Guidetti Serra: Chiedo al teste se non sia vero che il l.6 gennaio lui
ha ribadito la stessa circostanza come appresa direttamente.
Panessa: Ho detto che non sono in grado di fare delle precisazioni; però,
grosso modo, si tenga presente che non è che c'è stata una
versione concordata e quindi c'è stata una verifica di quello...
Ognuno di noi è andato dal signor giudice Caizzi e ha dato quella versione
che...
Giudice: Signor Panessa, lei parla troppo! Dica se questa frase l'ha
appresa direttamente o se l'ha saputa dopo:
Panessa: Non sono in grado di precisarlo; non ricordo. Non fui in grado
allora, perché dovrei essere in grado oggi di precisare?
Giudice: Cos'è questa storia della versione concordata?
Panessa: Non è che c'è stato uno scambio di idee fra noi
che eravamo presenti: ognuno il giorno successivo è venuto dal gìudice
ed ha raccontato quello che ricordava.
Inutili insomma le contestazioni. E per chi avesse fatto un po' di fatica a
seguire questi interrogatori d'allora e, di adesso, la conclusione che emerge
è questa: che Panessa non è in grado di precisare se la frase
determinante l'ha percepita direttamente o "recepita nel tempo"; che
in un secondo tempo lui ha sentito da Caizzi che il Calabresi la avrebbe pronunciata
all'inizio dell'interrogatorio e in un'altra stanza. Ed è a quel punto
che lui "deve averla fatta propria," non escludendo però d'averla
sentita allora come non esclude d'averla sentita prima, comunque dev'essersene
persuaso al punto da riuscire a sentirla davvero. Né sa mai riferire
gli orari, perché, proprio in quei giorni, "non ho mai guardato
l'orologio."
La signora Pinelli ascolta sempre pallida e rigida nel suo atteggiamento di
attentissima statua: confesserà poi che per la prima volta ha dovuto
trattenersi e fare uno sforzo su
se stessa, perché durante la deposizione di Panessa ha avuto l'impulso
irresistibile di alzarsi, traversare l'emiciclo e andare a dargli due schiaffi.
(Segue a questo punto una mia ritrattazione: qualche volta avevo deplorato il
contegno dei due giudici a latere, scrivendo anche a proposito della signora
Cardona "che la si sarebbe detta impagliata, come se portasse la toga per
errore." Mentre ho saputo molto più tardi, e dal giudice Biotti,
che durante la deposizione di Panessa, la giovane donna, che pareva sempre così
assorta in pensieri tutti suoi, seguitava, scandalizzatissima, a tirargli la
toga.)
Qui si invoca un'altra volta l'esercizio della logica da parte del lettore:
solo Amati e Caizzi potevano prendere per buone queste deposizioni. Chi, degli
altri, infatti, leggendo la registrazione dell'interrogatorio di Panessa non
vien preso da un sentimento molto vicino all'ira? Chi non vede sotto questa
confusione di parole un misto ambiguo di connivenze e corruzione?
È sempre stato imponente durante queste due ultime udienze lo spiegamento
di forze dell'ordine dentro e fuori il palazzo di giustizia: vietato a chi in
questo palazzo è di casa il godimento di quei diritti elementari goduti
fino al giorno prima; è stata cioè proibita all'interno l'assemblea
degli avvocati sulle incriminazioni di magistrati e colleghi per reati d'opinione,
quindi minacciati di carica dal solito Vittoria, questi hanno dovuto radunarsi
a parlare sui gradini del tempio, malamente disturbati dal rumore del traffico
e dei passanti curiosi. Ritirato poi proprio in questi giorni il passaporto
al professor Baldelli, quindi rifiutato tanto il nullaosta quanto il perché
del rifiuto dal procuratore Enrico De Peppo. E per finire, davvero troppo silenzioso
il PM Guicciardi, la cui funzione, come ebbe a dire all'inizio, era "il
fine precipuo di far luce," e il cui dovere c' quello di perseguire i reati,
quindi avrebbe dovuto attaccare a fondo i testi reticenti,, trasognati e bugiardi.
Mentre di luce non se ne vede nemmeno un raggio, e i testi reticenti, trasognati,
bugiardi, nessuno dotato d'almeno un briciolo di classe, vanno via soddisfatti,
magari complimentati dai loro colleghi, a suon di grandi manate sulle spalle.
Ma non si creda che, mancando per qualche udienza i testi clamorosi (Panessa
resterà l'esempio quasi demenziale dello scandalo e gli altri testimoni
oculari dietro), vada appannandosi l'interesse del processo "Calabresi-Lotta
continua," perché in ognuna di esse, sia pure in fatto d'incongruenze
e di passi falsi, qualcosa salta fuori, sempre lo stesso, mentre da parte del
duo Gentili-Guidetti Serra si fanno alcuni passi avanti.
La difesa ha infatti ottenuto il sopralluogo in questura, ha presentato a Biotti
un documento che è un vero e proprio ben nutrito catalogo delle molte
contraddizioni, mancanze di memoria e discordanze in cui sono incorsi, durante
le loro testimonianze, commissari, tenenti e brigadieri; ha ottenuto di poter
esaminare quel massiccio librone su cui la questura registra la permanenza dei
fermati nelle camere di sicurezza; ha chiesto di poter controllare gli accertamenti
medico-legali sulla morte di Pinelli.
Utilissimo è stato il sopralluogo in questura durante il quale non soltanto
i giornalisti sono stati colpiti dall'esiguità dello spazio e dalla difficile
agibilità di quella stanza (m 4 X 3,40, sei uomini dentro, più
uno sulla porta), ma anche il presidente Biotti rimane impressionato. "È
molto più piccola di quanto pareva," esclama varcandone la soglia,
e probabilmente rendendosi conto anche lui che diventava così falsa quella
piantina fatta a suo tempo per il PM dalla questura (dove le misure sono quelle
che sono, eppure il locale appare assai dilatato, per via di certi particolari,
per esempio le sedie che, riportate in scala, sarebbero larghe cm 20 X 20, cioè
dei sedili inattendibili, buoni soltanto per cagnolini ammaestrati. (Grande
lacuna: non aver portato lì i testimoni oculari, disponendoli nelle posizioni
in cui si trovavano quella notte.)
Altrettanto utile la lettura del sinistro librone, con le annotazioni che, secondo
il gergo della questura, stavolta "incastrano" Allegra. Da lì
risulta che il Pinelli è entrato nella camera di sicurezza il 13 dicembre
alle 22,30. Adesso infatti appare chiaro che non si trattava di "invito,"
come ha sempre sostenuto il capo della Politica, ma di "fermo" vero
e proprio; che il fermo era illegittimo (non c'erano indizi nei confronti del
Pinelli, né sospetto di fuga); che non è esatto, come dice questo
funzionario, che lui l'aveva chiesto il 14 insieme alla convalida; che quando
Pinelli morì nella notte fra il 15 e il 16 dicembre era inoltre scaduto
il termine di 48 ore previsto dalla legge.
Ed ecco la raccapricciante annotazione finale fatta da una anonima guardia al
colmo della distrazione, che con un cerio imbarazzo esce da sotto i baffi bianchi
del giudice-presidente: è alle ore 12 del 17 dicembre che Pinelli risulta
messo 117 libertà (ed era già morto da trentasei ore).
Mancano invece un paio di minuti alla mezzanotte del 15 quando, passando per
il cortile, la guardia Antonio Manchia vede una sagoma d'uomo cader giù
dalla finestra. Corre accanto al caduto, tenta di sollevarlo, poi va u dare
l'allarme. Un teste oculare, dunque, che per una delle solite stravaganze di
questa vicenda, vien sentito, anzi scoperto dal PM Caizzi solo a cinque mesi
dal fatto. E diventa importante, perché accanto al corpo afferma di non
aver visto il giornalista Aldo Palumbo, smentendo così il teste che,
fin dalle prime ore, afferma d'aver sentito il Pinelli "venir giù
come uno scatolone" e di averlo visto a terra per primo.
Manchia lo descrive "con la guancia a terra, il fianco o (erra, il ventre
in su." L'avevano visto ancora vivo e seduto le guardie Gangemi e Caparelli
che per motivi di servizio erano entrate due volte ciascuna nella stanzetta
dell'interrogatorio: anche secondo loro l'ambiente era tranquillo, l'anarchico
appariva sereno.
Su tutti ì fronti ha dunque stravinto la tesi della serenìtà
del Pinelli, mentre è stata definitivamente accantonata la prima, secondo
la quale il salto dalla finestra doveva considerarsi un gesto di autopunizione.
La si accantona al punto che dal PM viene richiesta l'archiviazione del procedimento
per diffamazione contro Guida, e per lui viene chiesta 1'assoluzione "perché
il fatto non costituisce reato." Unico esempio nella storia giudiziaria
italiana, che in un caso di querela per diffamazione si assolva in istruttoria
per mancanza di dolo. (Una causale che di salito si accerta in dibattimento.)
E senza aver mai interrogato l'imputato.
Insomma, così aveva concluso il solito Caizzi, il questore disse, sì,
cose diffamatorie, ma, quel che conta, non voleva diffamare: del salto dalla
finestra era stato messo al corrente dai suoi collaboratori senza però
rendersi ben conto della successione dei fatti. In quel particolare "momento
d'orgasmo" era poi difficile "emettere un giudizio che sintetizzasse
un convincimento," e lui ha sintetizzato su riferimenti marginali, che
a suo parere sarebbero gli indizi e gli alibi caduti: di qui, tout-court, l'assoluzione,
e Guida si allontana per sempre dal banco degli imputati.
Né manca in questo dossier un documento gustoso: la memoria difensiva
che in data 11 maggio 1970 il questore Guida firmò presentandola al PM;
la firma è sua, ma la stesura è dell'avvocato Lener, manco a dirlo,
suo difensore. Oltre a contenere infatti tutti gli elementi di diritto e di
fatto usati da Caizzi nella sua richiesta d'archiviazione (compresa la "parentesi
d'eccitazione e di orgasmo"), è scritta in quel tipico linguaggio
curiale e pieno di luoghi comuni e disseminato da punti di sospensione tipico
del principe dell'enfasi napoletano, il cui fondo ottocentesco è continuamente
fiorito di citazioni e di termini tecnici, decisamente insoliti per un questore.
Ecco "i misteri insondabili dell'animo umano" (il perché del
salto), le "piccole occupazioni e i futili conversari" (pensate un
po', vi erano immerse le guardie al momento del salto), il ridicolo timore di
"cascare..: dalla padella nella brace" e i "copiosi articoli"
che dopo ne sono risultati: ecco 'l'errore scriminante," la mancata "voluntas,"
il fallito "animus diffamandi," il predicato di relazione, la denegata
ipotesi; tutte cose di cui, secondo le frequenti citazioni, scrive il Manzini,
annota lo Spasari, sottolinea il D'Onofrio, afferma il Fisichella. Conclusione:
i subalterni l'hanno informato male, povero questore Guida, lui era in stato
di confusione (proprio non pareva confuso quella notte); quando è emozionato,
"il questore non può permettersi uno stile da nota diplomatica,"
e i giornalisti hanno esagerato; ce n'è uno che il 16 mattina scrive
Calabrese al posto di Calabresi "indicandolo addirittura... fra virgolette!"
(Colpa dei giornalisti, allora.)
Immediata è la risposta del professor Smuraglia e dell'avvocato Contestabile,
difensori delle parti civili costituite nel processo penale a carico di Guida,
una sdegnata me moria rivolta al tribunale. Vi si mettono in evidenza le ragioni
giuridiche e di opportunità che rendono illegittima tanto la richiesta
di proscioglimento quanto il trattamento speciale riservato a un cittadino che
evidentemente e a torto viene considerato tutto diverso dagli altri, al punto
che non è stato nemmeno sentito dal magistrato inquirente.
Ben più grave ancora il fatto che si chieda di assolvere questo imputato
"pur riconoscendo l'obiettiva lesività delle dichiarazioni"
a suo tempo rese alla stampa, arrivando a cavillare sul dolo per escluderlo,
per trovare giustificazioni, dimenticando la gravità di quel che disse,
vere a: proprie accuse infami, a danno di un morto, tanto la notte di fronte
a molte persone, come il giorno dopo davanti ad altre ancora e alla stampa intera.
E si ricordi, canclude la memoria, che il Guida insistette nelle sue calunnie
anche dopo che un deputato (l'on. Malagugini) gli ha sottolineato a più
riprese le gravi responsabilità che si assumeva con quelle dichiarazioni,
tutto ciò per avere in risposta la celebre frase sul come sa assumersi
le sue responsabilità un funzionario della sua anzianità e del
suo grado.
I due avvocati concludono che nell'intento di arrivare al proscioglimento per
mancanza di dolo, il PM ha domato richiamarsi a teorie del tutto superate o
disattese dal la migliore dottrina e giurisprudenza; che è insensato
parlare di "commozione" e di "concitazione del momento,"
perché è tipico dei delitti contro l'onore la ricorrenza di tali
elementi. Per queste ed un'infinità di altre ragioni meticolosamente
elencate, viene dimostrato con assoluta evidenza che il dottor Guida dev'essere
rinviato a giudizio. "È compito della giustizia imporre il rispetto
dei vivi, ed anche quello dei morti. È compito della giustizia imporre
a chiunque (sia o meno il questore) il rispetto della legge." Così
sparisce da Milano in direzione di Roma un questore pieno di buone speranze
e perciò promosso ispettore capo di PS, mentre da Bologna ne arriva un
altro, il dottor Ferruccio Allitto Bonanno, che se avesse potuto scegliere,
in questo momento avrebbe scelto qualsiasi. altra città ma non Milano.
È nato a Gesso, vicino a Messina, è stato questore a Vercelli,
a Ferrara, a Bolzano (nel periodo degli attentati altoatesini), quindi a Padova
e infine a Bologna, è quel signore argentato e massiccio presente anche
lui al sopralluogo in questura. Me lo avevano mostrato da lontano, lo vedrò
invece molto da vicino la sera stessa in casa di amici (che mi hanno invitato
proprio su richiesta del signor questore, desiderosa di conoscere, secondo le
sue precise parole, quella che nel suo ambiente viene considerata da tempo la
rompiscatole Nel, e verso la quale, a causa degli articoli che scrive, i suoi
dipendenti nutrono una profonda avversione).
Ed eccomi seduta a tavola di fronte a quest'uomo dai modi piacevoli ma nei miei
riguardi francamente indagatori (quella mattina, durante il sopralluogo, è
scomparso un libro dall'étagère di Calabresi, precisamente Le
bombe di Milano con annotazioni fatte in rosso dal commissario. Possibile
che io non ne sappia niente?). Ecco che, prima di interrogarmi con una certa
alacrità, comincia a rimproverarmi tra una portata e l'altra con un garbo
che a poco a poco si fa sempre più appannato, finché al dolce,
ha almeno temporaneamente esaurito la sua riserva di sorrisi propizi:
Premesso che è molto scontento di essere stato nominato a Milano, piazza
da lui ritenuta delle più imbarazzanti e pericolose per un questore,
messo in chiaro all'inizio che ha fatto il partigiano, che è stato in
carcere durante la Resistenza, che i fascisti gli danno un fastidio quasi fisico,
entra subito nell'argomento che gli sta a cuore: come mai, con l'aspetto che
ho, non certo da passionaria, m'interesso con tanto calore al caso Pinelli?
Sono forse anarchica anch'io, se no comunista, maoista, lottatrice continua,
marxista-leninista?
Ma no, e a questo punto interviene l'amico padrone di casa, che vuol dissipare
ogni equivoco; secondo lui, sono soltanto una giornalista democratica, per nulla
convinta di una certa verità ufficiale, che fa quello che pensa sia il
suo dovere per tentare di capir qualcosa in una vicenda a suo parere troppo
carica d'ombre. Ma il mio difetto è sempre stato quello di ascoltare
una sola campana, riprende il questore. Questo proprio no, rispondo, le ho sentite
tutte, per esempio la prima è stata la campana stonata del suo predecessore
in quella notte di mezzo dicembre. E poi molte altre ne ho sentite pochi giorni
prima di questo pranzo, tutti i funzionari di via Fatebenefratelli, alti e bassi
di grado, tutti scordati uno più dell'altro, un concerto che invece di
risultare unitario e concorde, era risultato zeppo di note false, errori marchiani,
disgustose dissonanze e tasti sbagliati.
Dopo un paio di profondi sospiri, era cominciato allora il grave recitativo
del questore: certo l'altro aveva parlato troppo, e troppo avventato era stato
un giovane commissario aggiunto oltremodo sicuro di sé; e per passare
all'ordine pubblico, certo quel tal vicequestore paonazzo in volto era stato
sempre troppo impulsivo, mentre sul fronte della polizia erano stati commessi
errori gravissimi a partire dal corteo di Annarumma e dalle violenze del 21
gennaio. Come mai però una donna come me poteva pensare che in questura
(un corpo che in Italia conta quattrocento laureati) esistessero dei picchiatori?
E poi perché, essendo donna, non mi occupavo di altri argomenti, dei
travestiti per esempio (di cui era stata fatta una recente retata e gli avevan
requisito due armadi di parrucche), di rapimenti di ragazzi, dei problemi della
scuola? Grazie, mi dà delle idee, avevo risposto al questore Allitto;
ma non fu l'incontro con lui a farmi smettere di occuparmi del processo Pinelli:
Un processo che va avanti a singhiozzo; e il solito oscuro presepio ogni volta
si ricompone nell'aula disadorna della prima sezione: ogni volta ci si aspetta
che vada a posto qualche pezzo di questo gran gioco di pazienza, e per la verità
raramente si è delusi, perché ogni volta c'è un angolino
che a un certo punto si schiarisce, l'atmosfera c'è tutta, e i dettagli
inediti continuano a spuntare da ogni parte in attesa che si metta a fuoco la
scena centrale. Ogni giorno insomma c'è qualcosa da imparare.
Attraverso i vari testimoni ora si vede quello che potrebbe far da sfondo al
gioco di pazienza. Ecco quel che succede a chi è fermato o solo "invitato"
in questura. Il panino con la mortadella per cena verso le dieci di sera; il
sonno che manca ("se ci appisolavamo nello stanzone, venivamo subito svegliati
da un agente con la frase: "questo non è un dormitorio," dice
Sergio Ardau, e: "di lì a poco ebbi modo di sentire il dottor Pagnozzi
che dava disposizioni atte a tener sveglio il Pinelli tutta la notte,"
depone il Valitutti; quindi la semibonaria intimidazione: "Se ci dici qualcosa
su Valpreda, potrai star tranquillo, non ti darci-no più fastidio,"
sempre secondo l'Ardau.
Col permesso degli agenti, il fermato può anche avere un caffè
attraverso quella macchina che sta proprio nello stanzone dove lui è
in sosta: e a proposito di caffè da qual
che giorno si è saputo cosa vuol dire andare a berne uno in compagnia
di un funzionario della questura. "In quell'occasione l'ho invitato a prendere
un caffè con me, e al bar abbiamo avuto uno scambio di idee," aveva
detto nella sua prima deposizione il commissario Calabresi, ricordando l'incontro
con Pinelli in piazza Aquileia l'8 settembre 1969, durante la manifestazione
a favore degli anarchici detenuti a San Vittore.
Un incontro che aveva impensierito Pinelli, ha dichiarato invece al tribunale
il suo amico Cesare Vurchio, che si era trovato con lui un paio di giorni dopo.
Perché a un certo punto a Pinelli si era avvicinato Calabresi chiedendogli
di sciogliere la manifestazione. Non poteva scioglierla, dato che non era stato
lui ad organizzarla, aveva risposto il Pinelli; in più i manifestanti
avevano la sua solidarietà. "Pinelli, stai attento," aveva
ribattuto Calabresi, "ché alla prossima occasione te la faccio pagare."
Ma il commissario non avrebbe potuto fargli niente, era stata la replica, lui
era a posto con la coscienza, non aveva niente da nascondere. Finché
con la frase: "Ricordati che noi ti possiamo metter dentro con una scusa
qualsiasi, per esempio se attraversi col rosso," era finito lo "scambio
di idee." E questa volta Pinelli aveva l'aria preoccupata: gli pareva che
Calabresi fosse diventato un suo persecutore.
Né si era limitato a minacciarlo Calabresi, perché ci si era messo
anche il capo della Politica, Allegra. È il 10 dicembre dell'anno scorso,
mancano cinque giorni alla sua morte, e nella sede del circolo Ponte della Ghisolfa,
al compagno Ivan Guarneri, Pinelli appare pensieroso: ha l'impressione che la
questura ce l'abbia con lui. Ed è più che un'impressione la sua,
in quanto è stato Allegra a dirgli: "Caro Pinelli, fra poco t'incastreremo
per bene." Nella sua deposizione, il Guarneri si ricorda benissimo questa
frase, mentre è meno sicuro dell'aggiunta: "Una volta per sempre.
"
Sono questi i gravi fatti venuti a galla nelle udienze di novembre, ed eccone
altri, non meno sconcertanti. Risulta chiaro infatti che, oltre a non ammettere
periti di parte
all'autopsia, a non accorgersi che è infedele la piantina allegata agli
atti, a non prendere nessun provvedimento "cautelativo" anche temporaneo,
nei riguardi dei funzionari di polizia implicati nell'affare e a chiedere 1'assoluzione
del questore Guida per mancanza di dolo, il sostituto procuratore Caizzi non
verbalizza volentieri alcune testimonianze.
Non deve forse insistere la madre del Pinelli perché egli metta a verbale
la frase che, ripetuta due volte da Allegra, l'ha molto colpita in questura
il giorno 15 durante
la visita al figlio cioè: "contro di lui non c'è niente,
ma abbiamo forti pressioni da Roma"? Solo perché lei lo esige, in
fondo vengono aggiunte le due righe al riguardo. (Del resto, per quel che mi
concerne, anch'io avevo dovuto fare aggiungere alla fine del mio verbale d'interrogatorio,
quanto era stato sorvolato al momento giusto, cioè che il tenente Lo
Grano era stato l'unico, a mio parere, a sembrare un po' turbato la notte fra
il 15 e il 16.) Quindi è sempre lo stesso magistrato a non dare importanza
a quel che gli fa notare Pasquale Valitutti durante il primo sopralluogo in
questura, che cioè quel giorno nella stanza dei fermati non era più
a1 suo posto la scrivania alla quale lui sedeva la notte del 15, ed eccone ancora
l'ombra sul muro. Quella natte la scrivania stava proprio di fronte all'apertura
oltre la quale era possibile veder bene il corridoio e la gente che passa di
lì. Ma nel giorno del sopralluogo appare spostata quasi completamente
contro il muro, così da ridurre un bel po' la visuale.
Altri interrogatori, quindi altri brandelli da cucire insieme, altre testimonianze
e nuovi ambienti su cui piove un po' di luce. Un elenco di malinconiche telefonate:
Pinelli dalla questura, la signora Pinelli in questura: "Stai calma che
qui ci sto poco; no, non ancora, mi chiedono di gente che non conosco; adesso
pare che non mi confermino l'alibi" (mentre da dietro qualcuno zittisce).
E poi l'avvocato che avverte che forse lo porteranno a San Vittore, un agente
che suggerisce la scusa per le ferrovie, il commissario che chiede il libretto
chilometrico, fino all'ultima ben nota e tragica telefonata della signora Licia
a Calabresi all'una di notte del 16: "È vero quel che mi dicono?
E perché non mi ha avvisata?" le due domande, e la canagliesca risposta
del commissario indaffarato.
Poi un elenco di visite scoraggianti; la mamma in questura la mattina dell'ultimo
giorno ("Mamma, io ho...") e l'agente: "Su questo non puoi parlare"
e allora lui, col viso tirato, ma gli occhi tranquilli: "Quando mi lasciano,
ti racconto tutto"; i giornalisti a casa la notte ad annunciare per primi
la caduta, la corsa della madre all'ospedale, dove nessuno vuol dirle niente.
Tanto gli agenti che il tenente dei carabinieri le assicurano che si trovano
lì per altri affari, e Pinelli nessuno lo conosce, come se sull'intera
vicenda gravasse un teso segreto. Non c'è nessuno che la porta a vedere
il figlio che agonizza a pochi metri di distanza; e quando nella stanzetta in
cui l'hanno relegata viene qualcuno a reclamare il modulo per la denuncia in
Comune, lei capirà che è morto il suo Pino.
Non sola dalle deposizioni della moglie e della mamma, ma anche da quelle altrettanto
calme e gravi dei suoi amici operai, sindacalisti, assistenti universitari (tra
cui Bruno Manghi, Marino Livolsi, Amedeo Bertolo), in seguito balzerà
fuori a tutto tondo la figura del Pinelli, allegro, attaccato alla famiglia
e alla vita, estremamente libero al punto che le sue bambine, poiché
a loro piaceva, andavano tranquillamente all'oratorio. Così in aula si
è potuto gettare un'occhiata su quell'interno rassicurante che era l'unica
stanza da stare nella casa popolare dove i due coniugi discutevano con gli amici,
mentre le bambine facevano i compiti, magari interloquendo anche loro quando
l'argomento le interessava, per esempio sul suicidio di Palach. "Era uno
schema di vita, direi, più caldo di quello che c'è normalmente
nelle famiglie, e c'era un notevole legame affettivo," dice Bruno Manghi
nella sua deposizione.
A. proposito del suicidio di Palach, benché molto colpito, Pinelli aveva
detto d'essere contrario a questo tipo di protesta. "Chi si suicida fugge,"
aveva dichiarato. "Chi rimane, in qualsiasi situazione rimanga, lotta per
la sua idea." E alla madre che un giorno gli raccomandava di essere più
cauto perché intorno al circolo di via Scaldasole aveva visto aggirarsi
dei carabinieri ("stai attento ché l'anarchia rappresenta..."),
lui non l'aveva nemmeno lasciata finire: "Mamma, l'anarchia non è
quella che ti hanno insegnato in collegio. L'anarchia oggi non è violenza;
è libertà. "
E poi come stava bene, di fisico e di nervi (lo esigeva fra l'altro il suo mestiere
di caposquadra manovratore), come non era mai depresso, come gli piaceva invitare
gli
amici all'improvviso (non che la moglie fosse sempre entusiasta di queste sue
rumorose sorprese e qui sulle sue labbra appare la pallida imitazione di un
sorriso), come non nutriva una gran stima per Valpreda pur non considerandolo
nocivo, com'era diverso insomma dall'ingenuo sognatore descritto da molti, perché
da vent'anni lottava
con passione contro lo sfruttamento. Come per dovere d'ufficio e per aver seguito
i processi dei compagni, conosceva tutte le possibili provocazioni della questura,
come anzi ai giovani militanti, fra le prime cose insegnava a resistere ai vari
sistemi usati dalla polizia per stancare e deprimere.
Insomma non rispondeva mai con lo scoraggiamento alle difficoltà più
o meno gravi; anche davanti a un'esibita confessione di infamia di un compagno,
mai e poi mai
avrebbe reagito con uno choc. Sapeva che le esigenze di libertà e di
uguaglianza sono profondamente radicate nell'uomo, quindi la frase: "È
finita l'anarchia!" non può assolutamente averla pronunciata.
Era certo stanco, ma come a1 solito padrone di sé, dice il Valitutti
che lo vide nello stanzone dal 13 pomeriggio fino al momento che uscì
per l'ultimo interrogatorio.
Fu sempre il Valitutti a sentire, poco prima della caduta (un quarto d'ora o
mezz'ora prima, non sa precisare) dei rumori che l'avevano messo in agitazione,
"come qualcosa che cadesse o degli oggetti che si urtassero insieme."
Allora era stato bene attento se per caso nel corridoio passasse qualche funzionario,
ma non aveva visto nessuno, nemmeno un sottufficiale. Fino al momento in cui
(era già avvenuto il cambio della guardia, doveva essere mezzanotte),
udì dei passi concitati, udì gridare una frase in seguito alla
quale lui chiese chi mai fosse caduto dalla finestra, e allora venne preso per
le spalle da cinque uomini e portato in un'altra stanza.
"Non capisco perché l'abbia fatto." gli aveva detto di lì
a pochi minuti il Calabresi, così precisando: "Lo stavamo interrogando
scherzosamente sul Valpreda" (ma come? era dunque presente all'interrogatorio?
E chi mai un quarto d'ora dopo lasciò capire ai giornalisti che in quella
stanza si stava scherzando?). E, tanto per non smentirsi, il brigadiere Panessa
invece: "Se l'ha fatto, avrà avuto i suoi motivi: era un delinquente,
aveva le mani in pasta dappertutto." Tutto qui il necrologio per il Pinelli,
riecheggiato dopo dal questore, che, interrogati i suoi uomini, parla coi giornalisti.
Battaglia quindi nelle udienze a cavallo tra la fine di novembre e i primi di
dicembre, sul fatto di citare o meno l'ex questore Guida, l'on. Malagugini,
gli anarchici Faccioli e Braschi. La difesa di Baldelli esige questi testimoni:
ma alla loro audizione Lener si oppone con violenza, adducendo i motivi legali
già esposti un'altra volta (imputato in procedimento diverso ma connesso
con questo qui Guida, testimone nel processo a carico di Guida l'onorevole,
imputati in altro processo i due anarchici); e a lui si associa il PM.
Repliche vibrate della difesa, sostenuta tanto da argomenti di legge come da
ragionamenti di buon senso ("Forse che una volta sulla pedana si offuscherebbe
l'onore del Questore?" chiede l'avvocato Gentili. "Ma è solo
come testimone che verrebbe sentito, in qualità di dirigente della questura
che deve riferire su fatti accertati da lui." Eppure il suo legale evidentemente
teme che, come Calabresi, anche il questore, una volta in aula, finisca col
fare la figura dell'imputato).
Allo stesso modo non si vogliono sentire i due anarchici detenuti Braschi e
Faccioli, che dovrebbero rispondere sulle violenze che dicono d'aver subito
in questura, tali da costringerli a firmare delle false confessioni. Sulla questione
deciderà il tribunale. Una cosa ormai è chiara e tangibile: che
una volta di più la verità fa paura.
Fa paura al punto che a una settimana di distanza il tribunale ribadisce quel
che aveva già implicitamente affermato la Procura della Repubblica e
l'ufficio istruzione milanese, cioè che la polizia può far tutto
quello che vuole e i cittadini possono solo protestare (entro certi limiti,
s'intende).
Il tribunale si chiude in camera di consiglio per ben due ore ed ecco il risultato:
il Guida non può essere citato per la ragione che si è detta,
cioè perché imputato in un procedimento connesso a quello in corso
(benché per tale imputazione Caizzi abbia già chiesto per lui
il proscioglimento con formula piena); i due anarchici nemmeno, perché
non possono essere imputati nei processi degli anarchici e testimoni qui. Quanto
all'on. Malagugini, non metterà piede in aula nemmeno lui, non solo perché
testimone nel procedimento contro Guida, ma, ecco un passo avanti, perché
potrebbe anche essere imputato a sua volta per "aver istigato o determinato
l'allora questore a violare il segreto istruttorio." (Assurda e minacciosa
ipotesi ripresa tale e quale dagli argomenti della parte civile.)
Toccato con mano dunque quali sono i diritti dei questori, si confrontino ora
con quelli della famiglia Pinelli: non le garanzie di legge quando arrestano
lui, non la partecipazione dei familiari all'istruttoria sulla sua morte; non
la possibilità di ricorrere contro l'archiviazione, non la condanna del
Guida per diffamazione e quindi la riabilitazione ufficiale del loro caro, non
infine il processo pubblico che oggi si celebra soltanto perché altri
cittadini redattori di "Lotta continua," accusando d'assassinio il
Calabresi, hanno tirato per i capelli quest'ultimo perché sporgesse querela.
Il diritto dei Pinelli dunque? Uno solo: star buoni in un angolo, piangere e
tacere.
E così malinconicamente commentano i difensori: "È con profonda
amarezza che dobbiamo constatare che ha degli insospettati limiti il ripetuto
impegno del tribunale ad accertare la verità sulla morte di Pinelli!
"
Mentre a sbugiardare ancora una volta il questore e ì suoi accoliti arriva
subito dopo il medico Nazzareno Fiorenzano, che, di guardia quella notte al
Fatebenefratehi, prestò le ultime e purtroppo inutili cure all'anarchico
morente. Dopo aver raccontato questi suoi sforzi, egli afferma testualmente
che tanto i carabinieri e i poliziotti di scorta al Pinelli in ospedale, come
poi il questore Guida in persona, rifiutarono di fornirgli le generalità
del ferito sostenendo che non le sapevano. Che alle sue domande sul come fosse
avvenuta la caduta, quelli avevan risposto che nel corso di un interrogatorio,
all'anarchico era stata contestata precisa imputazione (vale a dire la falsa
confessione di Valpreda); che allora egli aveva esclamato: " È la
fine dei Movimento! " e si era gettato dalla finestra. Che inoltre il questore
gli aveva raccomandato di fare ogni sforzo per salvare il ferito, in quanto
questi era "assai importante" per le indagini sulla strage di piazza
Fontana.
All'aria quindi, anche attraverso questa testimonianza, la tesi sostenuta in
un secondo tempo dal coro di funzionari che la famosa frase senza conseguente
suicidio fosse stata pronunciata quattro ore prima. Non solo, ma cade così
anche la dichiarazione dell'appuntato Antonino Quartarone, segretario di Allegra,
che aveva affermato di essere andato anche lui all'ospedale e di essere rimasto
nella stanza (lei Pronto Soccorso fino alla morte del Pinelli "per fornire
le generalità del ferito." Ebbene, non aveva fatto niente di simile:
il medico era riuscito a saper il nome dell'anarchico soltanto da una giornalista
arrivata lì a prender notizie, precisamente dall'autrice di questo libro.
Chiaro che i poliziotti hanno mentito: ma il PM Guicciardi non chiede nemmeno
un confronto, e il presidente 13iotti, che ha già ammonito il teste ad
attenersi ai fatti (unico monito rivolto finora ai testimoni), perfino un tantino
seccato, chiede al medico: "Ma chi precisamente le ha detto le cose che
ci ha riferito?" Risposta delle più calme: "Il dottor Guida
che conoscevo di vista, e che mi fece chiamare, e gli accompagnatori giunti
prima di lui, che usarono quasi le stesse parole."
Ma ancora non basta. Viene portato in aula un documento della Procura della
Repubblica, il quale conferma che la convalida del fermo (mai segnalato) del
Pinelli fu chiesta dalla questura alla Procura il 14 dicembre, e cioè
due giorni dopo che l'anarchico era stato prelevato, e un giorno e mezzo prima
che morisse; e quindi che il fermo era illegale. Era stato quindi fatto un rapporto
alla Procura generale di cui la Procura della Repubblica non conosce l'esito.
E la Procura generale, benché invitata ormai da dieci giorni dal tribunale
a farne sapere i risultati, non ha ancora risposto. Allo stesso modo non ha
risposto il ministero degli Interni circa quell'inchiesta amministrativa sulla
morte di Pinelli (quel tale Catenacci che non interrogò nessuno dei testi
oculari).
Ancora l'esibizione di un documento da parte dei difensori Gentili e Guidetti
Serra: un parere tecnico firmato dai professori Benedetto Terracini, libero
docente di anatomia ed istologia patologica di Torino, ed Enrico Turolla, libero
docente di anatomia ed istologia patologica e primario delle stesse specialità
all'ospedale di Legnano, sull'accertamento medico-legale compiuto sul cadavere
di Pinelli, nel corso dell'inchiesta di Caizzi, e finita con l'archiviazione.
I professori affermano che quell'accertamento è, assolutamente insufficiente
per stabilire le cause della morte, e ciò perché il magistrato
pose i termini in modo equivoco, perché gli esami furono incompleti,
i risultati lacunosi e contraddittori, perché non è stato approfondito
l'esame di una lesione riscontrata alla base del collo (quella che diede origine
all'ipotesi del colpo di karaté), e perché le conclusioni favorevoli
alla tesi del suicidio erano del tutto infondate. Per questo i difensori si
accaniscono nel chiedere una nuova perizia, in particolare per stabilire se
il Pinelli, quando precipitò dalla finestra, era già in stato
di incoscienza il che evidentemente escluderebbe il suicidio. (Né vengon
nascoste le difficoltà di una nuova perizia completa dopo tanto tempo
e su reperti selezionati.) Al tribunale comunque la risposta.
Intanto un anno è passato dalla morte di Pinelli. Il penoso riassunto
di quanto da allora è successo vien esposto in modo più che esauriente
da Pier Luigi Gandini sull' "Unità," mentre sempre il 16 dicembre
sul "Giorno," per iniziativa del Comitato dei giornalisti per la libertà
di stampa e contro la repressione, esce un'intera pagina di annunci funebri
in memoria del ferroviere. Oltre alla famiglia ricordano e commemorano la vittima
innocente una quantità di giornalisti, appunto i compagni del morto,
infinite sezioni dei partiti socialisti, comunisti e psiuppini, professori,
architetti, magistrati e insegnanti democratici, organizzazioni di partito,
nuclei aziendali, gli amici del "Torchietto," intere redazioni di
riviste avanzate, cattoliche e socialiste, gruppi di assistenti sociali, gli
studenti della scuola di sociologia che non vogliono dimenticare; e negli annunci
ricorrono spesso le parole "rispetto, solidarietà, rimpianto, onore
alla memoria, sacrificio, tragica e oscura morte, una morte che chiede di non
essere dimenticata, la repressione non passerà."
Tutta diversa la commemorazione che fa la magistratura. È proprio in
quella data (16 dicembre) che il giudice istruttore di Milano deposita la sentenza
istruttoria con cui assolve l'ex questore Guida dall'accusa di aver diffamato
Pinelli e violato il segreto d'ufficio. Le affermazioni più assurde della
sentenza sono queste: 1) Guida non intendeva diffamare Pinelli, bensì
esaltarne la coerenza di anarchico che, di fronte ai gravissimi indizi, ha scelto,
così signorilmente, la via del suicidio; 2) a carico di Pinelli erano
effettivamente emersi gravi indizi, riassumibili in sostanza nella supposta
inconsistenza del suo alibi (che viceversa era stato confermato); 3) il fermo
presuppone gravi indizi di colpevolezza; Pinelli era in stato di fermo, quindi
doveva essere gravemente indiziato (con questo semplice sillogismo si fa finta
di non sapere che il fermo non era stato convalidato dal magistrato nei termini
di legge); 4) non può esser stato violato il segreto d'ufficio perché
la morte di Pinelli aveva ormai chiuso il caso. E si torna così al punto
di prima, come se il processo non ci fosse mai stato, come se il PM non avesse
dichiarato all'inizio l'assoluta innocenza di Pinelli, come se le testimonianze
dei funzionari non fossero state tutto quell'arruffato garbuglio che sappiamo.
Gli anarchici scelgono ancora un altro modo per commemorare il compagno. In
un composto corteo sfilano in duemila davanti al portone della questura gettando
fiori
sul drappo nero che vi hanno steso davanti, dove c'è scritto: "In
ricordo di Pinelli, ucciso dalla polizia." Vietato a chiunque salire sul
marciapiedi della questura: davanti al portone il questore con gli occhiali
neri, il vicequestore Vittoria con le sue guance color peonia, il commissario
Allegra che con la sua adiposa invadenza cerca di allontanare chi si avvicina
un po' troppo; e, ultimo tocco di lugubre gusto poliziesco, ecco che tra i grossi
funzionari schierati lì davanti si vede che proprio quell'abete davanti
al quale era caduto l'anarchico, oggi è trasformato in gioioso albero
di Natale, tutto luci e colori per la ricreazione e gli auguri ai funzionari
di ogni rango.
Si sa che come niente ci si abitua alle cose più strane; eppure, mi sembra
sempre un fatto dei più singolari che io mi sia quasi acclimatata in
quell'ambiente sinistro, proprio del tribunale (o forse son capitata in un angolo
dei più bui?), a questi continui dialoghi tra sordi, alla conclamazione
ininterrotta delle bugie e delle più demenziali decisioni, ai vari e
aggrovigliati metodi per soffocare lo scandalo, per insabbiare la verità,
allo spettacolo dei generosi continuamente battuti dai meschini insolenti. Ed
è certo soltanto ingenuità la mia, ma ormai è da troppo
tempo che son dentro il labirinto giudiziario per non rendermi conto che in
quei tortuosi meandri la giustizia è un lussò soltanto.
Mi sono andata abituando anche al gergo del tribunale; quello legale, fatto
apposta per rendere oscura qualsiasi decisione, anche delle più semplici;
quello dei verbali, particolarissimo, che anch'esso non chiama mai le cose col
loro nome, e quello del giudice presidente che, siccome ha letto verbali tutta
la vita, detta al cancelliere le frasi dei testimoni tutte tradotte a modo suo,
e con un tantino di eleganza in più, in confronto a come parlano i subalterni.
"Avevo l'abitudine," dice semplicemente il teste o l'imputato, ed
"ero uso" traduce il giudice. "Mi tornarono a dire di seguirli"
diventa "un'altra volta mi rivolsero siffatto invito." Quindi: "tornavano
sempre a dirmi la stessa cosa" è "mi rivolgevano sempre il
suaccennato discorso." Mentre "fatto com'era ce l'avrebbe detto di
certo," viene dettato "data la sua essenza non si sarebbe astenuto
dal farcene partecipi.." "In quel periodo" si trasforma in "in
quel torno di tempo," "quando" è sempre "laddove";
"misi dentro la testa" è "allora feci capolino" (anche
se si tratta di on muscoloso brigadiere col testone); "mentre riponevo
le carte" si trasforma in "mentre accudivo al riporre," e "per
trovarlo" è tradotto "al fine del rintraccio."
Cosa fa poi un poliziotto quando torna in questura? "' Rientra nella sua
sede naturale." Quando guarda l'ora? "Compulsa l'orologio." Quando
va al gabinetto? "Si porta nel locale adibito a toilette." Qualcuno
arriva in un posto? "Guadagna il locale." Se mangia un panino? "Lo
consuma." Se mette in dubbio l'autenticità di una firma? "Non
riconosce la paternità della grafia." Quando un infermiere tenta
la prima rianimazione di un moribondo? "Esibisce un lieve massaggio."
Quando un altro crede di aver sentito l'urto fra due macchine (e invece è
il tonfo di un uomo che sta cadendo dalla finestra)? "Pensai a due mezzi
che avesser colliso." Quando uno non ricorda, "non vale a precisare";
quando va dietro a un altro?. "Si adopera per seguire"; se uno parla
non fa che "comunicare alcunché al riguardo." Si vuol cominciare
a interrogare? Allora "si dia la stura alle domande." Mentre la minaccia
"di cambiar la sede al processo" è "uscir dal naturale
alvo dell'aula:"
E ora attenzione a quest'altro bel pezzo di prosa (legale): "...Per un'erronea
valutazione da parte dell'organo di polizia del termine di decorrenza dello
stato di fermo si era determinato un ritardo nella possibilità di addivenire
al perfezionamento formale del relativo provvedimento. Per questa irregolarità,
vagliati i chiarimenti di polizia e avuto riguardo alle eccezionali circostanze
in cui l'ufficio di polizia si era trovato a dover operare, si è ritenuto
giustificato un richiamo all'ufficio stesso." Un esempio di oscurità
e giravolte varie, che cade proprio a proposito, perché letto in aula
dal giudice Biotti durante l'udienza del 18 dicembre, e tratto da un documento
che anche lui affossa, insabbia e dichiara non responsabili chi aveva invece
fior di pesanti responsabilità: è il procuratore generale dottor
Domenico Riccomagno che, sollecitato a far conoscere l'esito della sua inchiesta,
risponde finalmente insieme col ministero degli Interni, che da tempo era stato
sollecitato anche lui.
Secondo il ministero degli Interni e la Procura generale di Milano la morte
di Pinelli è da considerarsi un evento in cui la polizia non ebbe alcuna
responsabilità, nemmeno per omessa vigilanza; e il fermo illegale è
stato un semplice errore di calcolo da parte dei poliziotti. Cosí hanno
risposto questi altissimi organi di stato, e la conclusione? Pinelli si è
suicidato. L'ha mandata a dire Restivo, attraverso quel tale ispettore generale
del ministero, che si diceva fantomatico, perché nessuno fuori di Allegra
l'aveva mai visto né sentito, ma ora ne sappiamo anche il nome: "Elvio."
È proprio Elvio Catenacci che ha potuto accertare la mancanza di responsabilità
dei funzionari di questura nella morte di Pinelli, e quel che è strano,
senza neppure aver interrogato gli stessi agenti testimoni oculari della morte.
(Erano stati loro, una volta smentiti dal tribunale, a dire di non esser mai
stati interrogati dal Catenacci, anzi di non sapere nemmeno che esistesse un'inchiesta
amministrativa.) A sentire Riccomagno, invece, tanto Guida che Allegra e Calabresi
avevano sbagliato a calcolare i termini del fermo e non avevano potuto quindi
"perfezionarlo." (Strano invece che Allegra avesse negato l'esistenza
del fermo, sostenendo che era "un invito," e solo il 14 dicembre la
stessa questura aveva chiesto alla Procura la convalida del fermo, che non esisteva.)
La difesa di Baldelli chiede che siano acquisiti gli atti delle due inchieste,
compresi i verbali degli interrogatori, che non esistono (e gli avvocati insistono
proprio per questo), quindi si riserva di chieder nuovamente la citazione di
Guida come testimone, dato che se prima era imputato e non poteva,, adesso invece
è assolto (ma la sentenza non è ancora definitiva). Si può
immaginare la reazione di Lener, che in fondo dev'esser convinto anche lui del
suo compito imperioso: difendere il vero imputato qui dentro, cioè la
questura. Perciò, quasi ringhiando, si oppone.
Ministero e Procura avvalorano 1a tesi del suicidio, ma nella stessa udienza
il tribunale ordina una nuova e sia pur ristretta perizia medico-legale per
accertare le cause della morte. Nonostante le asserzioni che vengono dall'alto,
qualche dubbio infatti par che turbi le coscienze dei giudici. Non arrivano
ancora a decidere una perizia vera e propria su quel che rimane di Pinelli nella
tomba, ma nominano tre professori universitari, che accertino se la macchia
ovulare riscontrata a suo tempo sul collo del Pinelli sia la conseguenza del
rimbalzo del corpo sul cornicione o invece- di una violenza precedente la caduta.
E si aspetterà un pò più di un mese per convocare i periti
scelti dal tribunale, cioè il professor Aldo Franchini di Genova, il
professar Francesco Introna di Padova, il professor Vittorio (Chiodi di Firenze,
per farli giurare e dar loro i quesiti. Come consulenti di parte da convocare
per quello stesso giorno e poi da risentire ancora un mese dopo, la difesa I,
si é scelto il professor Enrico Turolla, dell'ospedale di Legnano, autore,
come si ricorderà, di un "parere" duramente critico nei riguardi
dell'accertamento ordinato a suo tempo dal PM conclusosi per il suicidio, e
il professor Ideale Del Carpio, dell'università di Palermo, noto per
aver messo in dubbio con i suoi esami la versione ufficiale della morte del
bandito Giuliano.
Meglio che niente, dicono gli ottimisti di questa decisione che dai più
viene considerata invece un mediocre compromesso: sono certo illustri i professori
convocati, ma la loro perizia si ridurrà a un'inutile commedia; eccolo
chino sulla carta questo trust di cervelli incaricato di far la perizia soltanto
sui verbali, le fotografie del cadavere, le valutazioni dei primi esperti frettolosi.
L'aula viene abbandonata per un bel po', ma di Pinelli, della sua morte, degli
oscuri intrighi che ci son sotto, della gente che gli è stata intorno
nelle ultime ore di vita (ricordare anche la deposizione di Mucilli: "Violenze
morali al Pinelli? Ma che so, un ricattino; non so, negargli una sigaretta,
negargli da bere se vuole. Un ricattino, non so, se tu non mi dici questo noi
ti incastriamo"), si continua a parlare e a discutere: troppi sono i fatti
che ci riportano alla memoria l'ambiente e il personaggio. (Senza contare le
continue barzellette su Calabresi. Dicono che stanno per trasferirlo a Pescara,
e che sulla facciata della questura della cittadina hanno scritto a grandi lettere:
"Qui non ci servi, il tuo ufficio è al primo piano.") Ma non
lo trasferiscono, spera anzi in una promozione, e non si illude, come si vedrà.
Altri fatti avvengono che hanno qualcosa in comune col nostro caso. Il 12 dicembre
1970, a un anno preciso dalla strage, muore lo studente Saverio Saltarelli,
la cui morte viene annunciata al paese dal ministro Restivo come provocata da
"arresto cardiocircolatorio" (mentre due giorni dopo cambierà
annuncio: è morto invece per schiacciamento di cuore ad opera di corpo
contundente, cioè candelotto della polizia sparatogli in pieno petto).
E come succede ormai con regolarità (vedi Ugo Paolillo a cui nel dicembre
'69 vien tolto il processo per portarlo a Roma, e anche lui seguiva l'istruttoria
con intelligente prudenza; vedi il giudice Pulitanò che viene escluso
dal processò "Calabresi-Lotta continua"), anche il sostituto
procuratore Guido Viola che si occupa del caso Saltarelli con estrema coscienza,
adesso con disinvoltura pari alla mancanza di forme, viene sostituito col collega
Guido Pomarici. Decisione gravissima presa del procuratore-capo De Peppo. E
perché? Perché Viola appartiene a "Magistratura democratica"
e ha le idee troppo aperte, mentre Pomarici è quello che fece incriminare
di falsa testimonianza i due testi che videro un giovane fascista sfilarsi un
coltello dalla manica e aggredire uno studente in piazza Santo Stefano. (Dopo
un po', forse data "la pressione dell'opinione pubblica" si richiama
il magistrato così bruscamente licenziato, ma solo per metterlo in un
cantuccio, affidandogli cioè soltanto gli accertamenti peritali sulla
morte del Saltarelli, mentre il Pomarici si occuperà delle testimonianze
e di tutta l'istruttoria.)
Da metà dicembre inoltre continuano affollatissime nel suo capannone
le repliche della commedia di Dario Fo dal titolo Morte accidentale di un
anarchico, nella quale si racconta un fatto veramente accaduto in America
nel 1921, quando un anarchico di nome Salsedo, un emigrante italiano, precipitò
da una finestra del quattordicesimo piano della questura centrale di New York.
Allora il comandante della polizia dichiarò trattarsi di suicidio. Poi
durante mia prima inchiesta e quindi una superinchiesta da parte della magistratura,
si scoprì che l'anarchico era stato letteralmente scaraventato dalla
finestra dai poliziotti durante l'interrogatorio, così spiega Fo nel
prologo. Quindi "al fine di rendere più attuale e più drammatica
la vicenda, ci siamo permessi di mettere in opera uno di quegli stratagemmi
ai quali spesso si ricorre in teatro. Cioè a dire: abbiamo trasportato
l'intera vicenda ai giorni nostri, e invece che a New York l'abbiamo ambientata
in una qualunque città italiana... facciamo Milano. È logico che
per evitare anacronismi, siamo-stati costretti a chiamare commissari i vari
sceriffi, questori gli ispettori, e cosí via."
Così, anche chi si è tanto malinconicamente appassionato al caso
Pinelli, nel capannone de "La Comune" finisce a ridere, almeno nella
prima parte, come di raro gli capita, tante sono le gags di questo spettacolo
che è una vera e propria farsa, per com'è bravo Fo nella parte
del matto che si finge il superispettore venuto da Roma a cercar di veder chiaro
nella faccenda del suicidio dell'anarchico. E quando conta i verbali davanti
al signor questore dice: "venticinque, ventisei, ventisette, Ventotene,"
quando incontra il giovane commissario sportivo dal maglione dolcevita, gli
chiede subito perché non si fa curare di quel tic fastidioso (quel massaggiarsi
di continuo la mano destra), quindi mette in opera tutto il ben noto rituale
della questura, inganni, trappole, saltafossi, trabocchetti, violenze morali,
ricattini, per "incastrare" a l'oro volta questore e commissario.,
per farli giocare a scaricabarile e far loro ammettere delle enormità
nel tentativo di ricostruire la notte del tuffo, facendogli giustificare la
retrocessione dell'ora, le tre scarpe, il colpo di karaté, e infine il
raptus. Finché riesce a condurli addirittura sul davanzale della finestra,
convincendoli che per loro è meglio, indiziati come sono, buttarsi di
sotto.
Ambientata nel '21 soltanto per gioco, la commedia non fa che alludere dunque
alle vicende di adesso, vi si trova "il commissario Cavalcioni," vi
si leggono le lettere dal carcere degli anarchici picchiati, -non manca "l'opinione
, pubblica che preme," la migliore amica della polizia che è la
magistratura, i vecchi imbecilli che spiegano cos'è il raptus, e avanti
avanti fino allo smascheramento del matto e al rientro nei ranghi, dopo tanti
choc, dei poliziotti colpevoli.
Alla fine di marzo comincia invece il processo contro i giovani anarchici imputati
di diciotto attentati oltre a quelli del 25 aprile e che sono in carcere da
quella data: e qui di udienza in udienza, sfumata la chiave satirica, ma non
troppo, tornano a far capolino, come direbbe Biotti, sempre gli stessi personaggi
e sempre affaccendati in manovre ambigue e fraudolente.
Identiche le costanti, tanto in questo procedimento come nei due grandi "gialli"
nazionali venuti dopo, i casi Pinelli e Valpreda. Qualcosa scoppia, e son gli
anarchici a venir subito acchiappati, anche se contemporaneamente e subito dopo
si moltiplicano gli attentati fascisti. Si acchiappano gli anarchici e restano
dentro, anche quando nel dicembre '68 giornali come 1`Observer" e il "Guardian"
pubblicano un documento segreto inviato al ministro degli Esteri di Atene (e
poi ripreso dall' Espresso"), in cui s'informa Papadopoulos sui risultati
della campagna di provocazione che da tempo il governo greco sta attuando in
Italia con la collaborazione dei gruppi fascisti. La campagna di provocazioni
va benissimo, "le azioni previste," vi si legge, "è stato
possibile realizzarle solo il 25 aprile. La modifica dei nostri piani ci fu
imposta dal fatto che era difficile entrare nel padiglione FIAT. Entrambi i
fatti [cioè anche le bombe della stazione] hanno prodotto effetti considerevoli."
("Ma che documento è mai questo?" si chiederà il presidente
Curatolo. "I giornali io non li leggo mai.")
E come se non bastassero le prove che almeno in parte scagionano gli attuali
detenuti, ecco, proprio di pochissimo tempo prima, il capo d'imputazione contro
l'editore Giovanni Ventura, il procuratore Franco Freda di Treviso, e Aldo Trinco.
"Per aver in concorso con altri, al fine di incutere pubblico timore, fatto
esplodere in Milano e Torino ordigni esplosivi nell'aprile-maggio '69 e in varie
località contro le ferrovie nella notte fra l'8 e il 9 agosto."
(Ma niente paura: siccome si tratta di fascisti, la loro detenzione è
delle più brevi.)
Se le piste seguite tanto il 25 aprile che il 12 dicembre sono le stesse, non
cambiano nemmeno i protagonisti. Ecco, primo fra tutti, il giudice Amati. Sappiamo
che è lui che, secondo il "Corriere," il 12 sera mette la polizia
sulle tracce degli anarchici e poi fa arrestare Valpreda il 15 all'uscita dal
suo ufficio: è lui che deposita quella perla di verbale d'archiviazione
e accoglie dal PM la richiesta d'archiviazione della querela contro Guida, finché
dopo due mesi ne chiede 1'assoluzione con un documento che non sta in piedi.
È sempre Amati che imbastisce 1'istruttoria del 25 aprile, su prove,
testimoni, riconoscimenti e perizie, destinati a crollare uno dopo l'altro,
finché, a furia di nullità e buchi procedurali, si riduce letteralmente
a brandelli: è dalle sue istruttorie che sbucan fuori le lampade Tiffany
(sono gli anarchici a farle, è in casa di chi le fa che si trovano i
fili di stagno, i saldatori e i famosi vetrini che diventeranno veri e propri
capi d'accusa). È lui che mette in prigione quelli che, a suo personale
parere, sono i due capibanda dinamitardi, cioè i coniugi Corradini, poi
scarcerati dopo sette mesi per mancanza di indizi.
Due i pilastri su cui si regge questa istruttoria traballante come quella del
Pinelli: 1) le perizie grafiche sui volantini trovati sui luoghi delle bombe
e attribuiti al Faccio li e al Pulsinelli; 2 ) l'implacabile accusatrice, la
supertestimone Rosemma Zublena. Ma le perizie risultano assolutamente negative,
e la Zublena presto si rivela una povera diavola affetta da delirio persecutorio,
definita da. molti una spia della polizia, al punto che se ne chiede l'incriminazione
come teste falsa e reticente. (Calabresi l'ha interrogata mandandola poi da
Amati, che la rispedisce alla polizia anche quando è lui che inizia gli
interrogatori.)
Nell"`affair" che scoppia adesso c'è anche il solito perito
balistico Teonesto Cerri che diventerà ancora più noto per la
sua brillante trovata di fare esplodere la bomba alla Banca commerciale. Il
Calabresi l'abbiamo già intravisto a proposito di Zublena, ma qui dentro
ha molte altre brucianti responsabilità. È lui che, sostituendosi
ai magistrati, va in carcere a far fare perizie calligrafiche ai, detenuti ed
estrae il Braschi da San Vittore per fargli riconoscere ad ogni costo la cava
fatale: è lui, che notifica i mandati di cattura rabbiosamente emessi
da Amati dopo l'ordinanza della Corte d'Appello. È lui che insieme ai
suoi tre fedelissimi percuote e minaccia Faccioli negli interrogatori, è
lui che, secondo le deposizioni e le lettere degli anarchici, non lascia dormire
né mangiare il Faccioli per tre giorni e tre notti e con un pretesto
lo porta fuori Milano in macchina per farlo scendere ed ordinargli di correre
avanti, mentre lui vien dietro a fari spenti ("Possiamo romperti le ossa
come niente, e poi dire che è stato un incidente..."); é
lui che, sempre secondo le deposizioni degli .imputati, picchia Braschi minacciando
di imprigionare sua madre e di infilargli della droga in tasca; è in
questo periodo che lo chiamano "i1 comm. Finestra"; è sempre
Calabresi che mette la sua firma alla deposizione della Zublena "dimenticandosi"
di farla firmare da lei: la deposizione riguarda le responsabilità dinamitarde
degli imputati Corradini che in dibattimento la Zublena dichiarava di non conoscere;
ed ecco che vien chiesta la incriminazione di Calabresi per falso ideologico
e subornazione di testimoni.
Poteva mancare Allegra in questo triste pasticcio? Naturalmente no: é
Allegra che nel giugno del '69 trasmette al giudice il verbale firmato da Calabresi
e non dalla Zublena, un verbale che tra l'altro ha causato l'arresto del Pulsinelli,
ma che è scomparso dagli atti dopo la scarcerazione dei Corradini, quindi
solo per 1'o.stinazione della difesa, è stato ritrovato e consegnato
al presidente. Del resto già il 24 aprile, secondo una sua precisa asserzione,
Allegra sapeva chi avrebbe arrestato per le bombe all'indomani, cioè
gli anelli più deboli della catena di sinistra. "Non si è
potuto fare questa azione prima del 25 aprile," dice il rapporto greco,
di cui il giornalista inglese Leslie Finer viene a Milano a confermare l'autenticità,
ma il 2 5 sono provvidenzialmente a Milano Faccioli e Della Savia. Mentre gli
attentati sui treni avvengono proprio la notte di agosto in cui Pinelli va a
Roma, mentre il 12 dicembre scoppiano le bombe alla banca, ed è quando
Amati chiama a Milano Valpreda; questo il collegamento che ormai sono molti
a fare, riunendo un processo all'altro, per spiegare perché e quando
è cominciata la strategia della tensione.
Sempre presenti inoltre là dove si picchia e si percuote, i brigadieri
Mucilli, Panessa e Mainardi, tutti promossi marescialli nella primavera del
'71: è Panessa che con un pugno spacca un labbro al Faccioli. In questo
processo emerge che anche Mucilli ha mentito e non è stato da meno il
Panessa: per il foglietto trovato in tasca al Faccioli esistono infatti tre
verbali e cinque versioni diverse.
Così si sgretola il processo degli anarchici, che su richiesta del PM
sono rimessi tutti in libertà, e intanto si ottiene un buon successo
nel dibattito Pinelli. Dall'incontro dei sei periti che hanno esaminato le carte
e le fotografie, è venuto fuori ben poco: secondo i periti della parte
civile 1a famosa macchia ovulare dev'essere soltanto una macchia dovuta alla
lunga permanenza sul tavolo dell'obitorio, mentre quelli della difesa non escludono
che possa essere il risultato di un colpo di karaté. Così (ed
è passato un anno e mezzo dal 15 dicembre), all'ultima richiesta degli
avvocati Gentili e Guidetti Serra, la prima sezione del tribunale decide che
si faccia pure la perizia medico-legale completa "onde stabilire in modo
incontrovertibile e definitivo com'è morto Pinelli": insomma sia
costretta a subire un pubblico controllo la tesi del suicidio, imposta dalla
questura, dalla Procura della Repubblica, dalla Procura generale e dal ministro
degli Interni.
Decisione che manda sulle furie l'avvocato Lener, secondo il quale una richiesta
del genere mira soltanto "ad insabbiare il processo" e il sospetto
di esercitare una buona dose di humour involontario non lo sfiora nemmeno. Quanto
all'affermazione che al Pinelli è stata negata giustizia, "è
solo frutto di una campagna di vittimismo." Ma come facciamo a provare
il nostro assunto dicono gli avvocati della difesa se una perizia completa non
è mai stata fatta? Dall'accertamento legale compiuto subito dopo la morte
sono stati esclusi i consulenti della difesa, e risibile è l'affermazione
che due degli esperti della Procura fossero in realtà dei camuffati consulenti
di fiducia dei Pinelli: basta pensare che costoro non si recarono nemmeno sui
luoghi dell'interrogatorio e della caduta, né potevano disporre di rilievi
e di misurazioni sugli stessi, sulla traiettoria del corpo, sulla posizione
d'arrivo ecc., non sapevano se l'anarchico fosse morto all'ospedale o in cortile,
non parlarono col medico di guardia e si limitarono ad esaminare gli indumenti
intimi del morto, ma non la giacca e i pantaloni che potevano recar tracce corrispondenti
alle lesioni, quindi non furono chiamati a rispondere al quesito se queste ultime
fossero tutte successive alla caduta o se invece qualcuna fosse precedente.
Ecco perché gli avvocati ora si ostinano a chiedere una perizia completa
che abbia come base i resti della vittima, previa riesumazione, tutti i reperti
che si trovano all'Istituto di medicina legale e tutti i rilievi raccolti dal
tribunale. Questa perizia l'avevano chiesta in dicembre e se fosse stata ordinata
allora, sarebbe già compiuta e allora avrebbe dato certo qualche risultato
utile. Ma è ancora possibile disporla senza rinviare gli atti al giudice
istruttore, per cui l'accusa di insabbiamento da parte della difesa risulta
ridicola e offensiva.
Un'ora e mezzo di camera di consiglio, e il presidente del tribunale esce a
dire che la richiesta di perizia è accolta. A un anno e mezzo di distanza,
questa è senza dubbio la vittoria più grossa della difesa. E come
mai, ci si può chiedere il tribunale, con a capo il presidente Biotti,
ha concesso la perizia andando contro una così agguerrita parie civile,
in ciò associata a1 PM? Forse perché, decidendo w0sí, il
collegio giudicante ora si spoglia di un caso che cominciava a scottare un po'
troppo. Di giorno in giorno diventavano infatti sempre più rischiose
le richieste degli avvocati Gentili e Guidetti Serra: cercar di sapere per esempio
perché la questura di Milano, pur sapendo dov'era, per un mese non aveva
controllato l'alibi del Sottosanti(sentito in tribunale poco prima della decisione
della perizia: colazione da Pinelli la mattina del 12, andato ad incassare l'assegno,
preso l'autobus per andare in casa Pulsinelli a Pero).
Si chiedeva poi di mettere a confronto il Rolandi col professor Paulucci perché
si accordassero sul famoso tragitto in taxi (perché mai al professore
il Rolandi aveva dato una versione diversa?). Ed era sempre la difesa a fare
un'altra ipotesi: che secondo un disegno prestabilito un uomo così somigliante
al Valpreda come i1 Sottosanti (lo stesso Rolandi scambierà una sua fotografia
per una di Valpreda "un po' truccata") fosse salito sul taxi del Rolandi
in piazza Napoli per andare in piazza Fontana (e sarebbe così giustificata
la cifra del percorso). Continuando con le con,(letture, il Sottosanti sarebbe
dunque servito soltanto per la pantomima del taxi, tanto per mettere la bomba,
quanto per incastrare il Valpreda.
A perizia accordata, l'avvocato Lener ingoia amaro, anzi non digerisce affatto.
Così solleva "un incidente d'esecuzione" chiedendo al tribunale
di revocare l'ordinanza. Ed è una battuta a vuoto, perché, ritenendola
inammissibile, solo quattro ore dopo il giudice respinge l'istanza. Più
arrabbiato che mai, di lí a pochi giorni, Lener ne presenta un'altra
che si dovrà discutere alla ventunesima udienza, cioè il 29 aprile.
All'udienza ci vado insieme coi colleghi, ma non ha luogo. Temendo infatti di
sentirsi contraddetto un'altra volta, Lener si preclude perfino la possibilità
che venga messa in discussione la sua seconda istanza, e prima ancora dell'udienza,
usa l'arma della ricusazione (sulla quale dovrà rispondere la corte d'Appello
di li a qualche settimana).
Insomma, attraverso il suo patrono, il commissario Calabresi non vuole più
che sia Biotti a presiedere il consiglio giudicante. Come andargli a dire: "Non
voglio più che tu mi giudichi, perché ho scoperto che hai un interesse
specifico in questo processo, comunque non sei obiettivo." (Circostanze
che se fossero state vere, avrebbero dovuto causare fin dal principio l'astensione
del magistrato.)
Stupita incredulità, sorpresa smisurata. Come mai Lener, per motivi che
sulle prime rimangono misteriosi, vuole allontanare Biotti a cui è legato
da trent'anni di cordiale amicizia e col quale ha fatto una quantità
di processi per diffamazione a mezzo stampa, che è un uomo d'ordine e
persona prudentissima, noto a sua volta per essere estremamente conservatore?
E perché, mentre all'inizio tanto il PM quanto là parte civile
proclamavano in coro la necessità di far luce sul caso del "povero
Pinelli"; perché nel momento in cui il tribunale per la prima volta
accoglie l'istanza di una perizia seria sul corpo dell'anarchico, scatta questo
meccanismo di irrigidimento spropositato al punto che l'amico ricusa l'amico?
Se poi, come corre voce in tribunale, i fatti su cui si basa la ricusazione
(confidenze fatte da Biotti a Lener sulla conclusione del processo, telefonate
compromettenti, raccomandate che scottano) risalgono a qualche mese fa, è
a dir poco incredibile che un avvocato se li tenga in serbo per usarli solo
quando il giudice prende dei provvedimenti sfavorevoli a lui. (Lo fanno notare
gli avvocati Gentili e Guidetti Serra in una dichiarazione deposta subito dopo
la ricusazione, e naturalmente ne chiedono i motivi.)
E allora l'ipotesi che viene istintiva è una soltanto:
Anche a così lunga distanza, la difesa della questura e il querelante
sono presi dal panico all'idea della perizia medico-legale eseguita finalmente
sul corpo e non più su foto o verbali. Ma come possono far paura quei
poveri resti sotto terra da tanto tempo? "Fanno paura perché `quelli
sanno," è la laconica risposta della signora Pinelli. E perché
quella vecchia volpe di Lener ha agito così pur rendendosi conto che
l'accanimento nel non voler scoperchiare la tomba viene interpretato dall'opinione
pubblica nel Senso peggiore, cioè come paura, coda di paglia, complesso
di colpa?
Anche lui forse sa di aver fatto un passo falso, ma ceri n lo ha meditato. Può
darsi che non si aspettasse una difesa così agguerrita, comunque questo
è un modo per permettere a Biotti di sganciarsi dal processo e a lui
di iniziare un nuovo dibattimento con chi può rimediare a una situazione
già tanto compromessa. Se Biotti viene ricusato, arriva un altro presidente,
e sarà più facile attenuare gli errori di prima: se non altro
la perizia è evitata. La ricusazione infatti può essere l'arma
estrema in un processo - in cui sono state già date ampie prove almeno
di omicidio colposo (fermo illegale, piccolezza della stanza, violenze psicologiche
pesanti ammesse dagli stessi funzionari, e poi interrogatori notturni, costernanti
contraddizioni, oltre alla testimonianza di Valitutti).
Ma a questo punto, l'assommarsi dei vecchi fatti coi nuovi più straordinari
(ancora un commissario di polizia che querelando in modo arrogante un direttore
di giornale, è poi costretto ad una difesa affannosa e disordinata, e
infine, di fronte all'evidenza dei fatti, disperatamente si oppone alla prova-chiave,
che potrebbe essere l'apertura di una tomba), provoca uno speciale atteggiamento
nella maggioranza consapevole. A chi cioè sta a cuore che il nome e il
mistero della morte di Pinelli non siano dimenticati, non interessa più
tanto come andrà a finire il processo, come sarà la sentenza,
e se faranno o no la perizia.
Per costoro, secondo il tribunale della loro coscienza, oggi il processo potrebbe
considerarsi chiuso, perché è raggiunto lo scopo politico di chi
ha analizzato con attenzione ed esercizio di logica il comportamento della questura.
Se dal punto di vista giuridico, infatti, attraverso quel che è emerso
finora nessuno può negare che sia provato quanto meno l'omicidio colposo,
adesso è altrettanto chiaro che alla riesumazione del corpo la questura
si oppone perché di lì potrebbe emergere anche la prova del dolo.
Quindi per molti di quanti hanno seguito tutto fin dal principio con intensa
partecipazione, il processo appare finito, con totale successo della difesa
e decisa sconfitta della polizia.
A Musocco non sarà aperta la tomba di Pinelli? Una prova in più,
se ce ne fosse bisogno, di come ha indovinato la vedova nel far riprodurre sulla
lastra quella lunga epigrafe di Spoon River in memoria degli anarchici
impiccati a Chicago. Ed eccone il brano centrale:
Vidi una donna bellissima,
con gli occhi bendati,
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
Una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto un volto implorante,
nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia:
nella bilancia venivan gettate delle monete d'oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
E finisce pressappoco così: mentre di quella bella donna un uomo in toga
dice che "non guarda in faccia a nessuno," c'è un giovane dal
berretto rosso che le strappa di colpo la benda, e allora si vede che lì
sotto gli occhi della giustizia sono allucinati e per di più stan marcendo:
Va bene considerare chiuso e vinto il processo, ma ad accumulare un maggior
numero ancora di prove di cattiva coscienza e di inquinamento morale dalla parte
di chi tiene il coltello per il manico, concorrono i continui colpi di scena.
La ricusazione è stata chiesta: contro ogni previsione il 7 giugno la
Corte d'Appello l'accetta, e son venticinque pagine che l'intero palazzo di
giustizia giudica allucinanti, e che allontanano Biotti dal banco del tribunale,
dopo otto mesi di presidenza, gettando ombre sinistre sul suo equilibrio e sulla
sua onestà.
Finalmente vengono a galla le ragioni che hanno spinto Lener a un gesto così
clamoroso e la Corte d'Appello ad accettarle. Nel documento è scritto
infatti che in un colloquio chiestogli il 21 novembre del 1970, Biotti prima
gli avrebbe parlato dei suoi vari guai carrieristici e della pratica in corso
per la sua promozione, quindi gli avrebbe rivelato le pressioni a cui veniva
sottoposto dall'alto perché la causa si risolvesse in favore di Baldelli,
infine gli avrebbe confidato che "tanto lui che gli altri due giudici ci-ano
convinti che il famoso colpo di karaté fosse stato inferto a Pinelli
e gli avesse leso il bulbo spinale." La sua era insomma già una
sentenza; proprio per questa convinzione Biotti aveva aggiunto che sarebbe arrivato
a ordinare una vera perizia.
Al corrente di tutto ciò, Lener sta zitto per ben cinque mesi di processo,
ma quando Biotti ordina che sia fatta la perizia, quindi venga riesumata la
salma, lo ricusa. E l'ordinanza incredibilmente gli dà ragione, in quanto
non ricusandolo prima, nel corso del processo Biotti avrebbe anche potuto cambiare
idea.
Da tutto ciò cosa viene dimostrato? Che l'accusa di assassinio avanzata
dalla difesa non era poi tanto avventata, se vien perfino confermata dai tre
giudici, presidente compreso. Che Lener tiene nascosta la sua bomba per cinque
mesi perché spera, in questo frattempo di poter far pressioni sul giudice.
Che quando si accorge di aver persa la partita, pur di non accettare la perizia,
fa saltare il. tribunale. Che l'opinione pubblica a questo punto può
fare tutte le ipotesi che vuole, anche le più azzardate, dato che questo
sorprendente ingranaggio è scattato per il solo fatto che non si è
aperta una tomba: chissà che il genere di fratture ancora riscontrabili
alla base del collo non denunci chiaramente la crudele percossa, e, estrema
congettura, che una volta scoperchiata, la tomba non possa anche rivelarsi vuota.
Anche questa volta (come nel falloso, e quasi comico verbale di archivîazione,
come in quegli altri mútili e traballanti documenti che son tanto la
richiesta di archiviazione della querela per diffamazione contro il questore
Guida quanto la richiesta della sua assoluzione), si tratta di un fascicolo
assai sconcertante, un seguito di meschine confidenze, di tremori, pressioni
(di cui però qui dentro non vien data prova), di anticipazioni, ritrattazioni,
e aperte minacce, che,dà una catastrofica idea della giustizia e degli
uomini di legge italiani, il tutto rivolto una volta di più, a dilazionare
all'infinito il momento della verità.
Lo scandalo è gravissimo, la gente rimane sconcertata, i giusti si sentono
offesi.
Sull`Espresso" appare una lettera, aperta alla pubblica sottoscrizione,
scritta da un gruppo di uomini di cultura, in cui si riconoscono alcuni dei
più ostinati di sempre, precisamente da Marino Berengo, Anna Maria Brizio,
Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio A. Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci,
Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella. Eccone il testo:
"Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è
arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la
responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge
la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio,
Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile.
Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto
le trame di un'odiosa coercizione.
"Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso
di un questore, Marcello Guida, e l'indegna copertura nelle persone. di Giovanni
Caizzi e Antonio Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la
fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può
riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare
a questa fiducia senza la quale
Morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra
volta un atto di ricusazione.
"Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di
quella di diritto-rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori,
ai giudici indegni. Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di coloro
clic abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di conoscere î n loro qualsiasi
rappresentanza della legge, dello stato, dei cittadini." E grandinano le
firme, sono migliaia e migliaia, son altri intellettuali, uomini politici, artisti,
dirigenti sindacali, scienziati, registi, scrittori, editori, professori universitari,
semplici cittadini. E quando il giornale dopo varie settimane, ne smette la
pubblicazione, ne continuano ad arrivare da ogni parte d'Italia.
Tutti i giornali bollono, cominciano a venir fuori i nomi dei magistrati che,
secondo Lener, a detta di Biotti, avrebbero fatto pressioni su di lui, perché
assolvesse Baldelli, e sarebbero il consigliere Adolfo Beria d'Argentine, membro
del .Consiglio superiore della magistratura, e il vicepresidente della prima
sezione dottor Giacomo Martino. Quindi Lener accusa in prima persona il dottor
Edmondo Bruti Liberati (che è nipote di Beria, e senza far parte del
collegio giudicante, assisteva al processo per i1 normale tirocinio dei magistrati
da poco in carriera); così attacca un conservatore come Martino, un moderato
come Beria d'Argentine uscito da " Magistratura democratica" nel '68
(ma che per l'estrema destra della magistratura resta ancora una quinta colonna
delle sinistre) e nel Bruti Liberati si scaglia contro la corrente di punta,
in quanto il, giovane appartiene a " Magistratura democratica," cioè;
sempre per gli stessi magistrati; rappresenta l'estrema sinistra. Dove si vuole
arrivare?, si chiedono quotidiani e settimanali. "Perché la Corte
d'Appello non decide di indagare sulle presunte pressioni?" e avanti con:
"Nuovi clamorosi sviluppi per lo scandalo Pinelli" "L'obiettivo
dello scandalo Biotti è l'attacco ai giudici democratici?" e chi
insulta l'uno chi l'altro, chi tutti e due i protagonisti della vicenda, davvero
è difficile capire a fondo qualcosa. Si ha comunque l'impressione (e
questa volta si fa strada anche in una larga fetta di indifferenti e di "tagliati
fuori"), che il prestigio del potere e delle autorità in genere,
e in particolare della polizia, sia fortemente scosso. Diventa ricorrente l'accostamento
fra il caso Pinelli e il caso Dreyfus; l'impegno politico di molti è
appunto quello di portare la vicenda del ferroviere anarchico all'altezza del
caso famoso; la lettera di ricusazione morale pubblicata sull'Espresso",
a firma dei professori universitari milanesi (e che pure, per la quantità
e la varietà delle adesioni ha un suo peso politico), come notano tra
gli altri l'on. Lombardi, i senatori Banfi e Parri, se ha un limite, è
quello di essere una ricusazione morale, e i tre parlamentari vi aderiscono,
ma con una motivazione politica più precisa.
Come anche gli appartenenti a ".Magistratura democratica" hanno rilevato
con una mozione del 10 giugno dove si fanno risaltare, nella vicenda Lener-Biotti
gli aspetti rilevatori dell'uso distorto della legalità come costante
dell'attuale corso politico del potere.
E in tanta confusione cosa deve fare la giornalista per informare bene i suoi
lettori? Un'inchiesta sulla magistratura, le sue correnti, i suoi conflitti
interni andrebbe benissimo. Ma se però potesse raggiungere Biotti e parlargli?
Ed ecco che faccio il suo numero, è lui che risponde, sdegnato ma affabile,
e: "Venga pure se vuole, io son qui che l'aspetto."
È la prima volta che mi capita di interrogare un giudice, è la
prima volta che lo vedo fuori dal plumbeo tribunale. Mi aspetta nel suo luminoso
soggiorno (piante lustre, l'angolo del pranzo, l'angolo della conversazione,
infondo il salottino Luigi XV che la suocera gli regalò per le nozze,
mentre dal soffitto gocciola il lampadario di cristallo), e pare che si sia
un po' appannata quella sua faccia da zio rassicurante che nelle commedie arriva
con buone notizie a predisporre il lieto fine. Adesso i suoi miti occhi chiari
si accendono dietro le lenti, dall'impeto dei suoi gesti affiora lo sportivo
di una volta, calciatore, spadaccino, scattante centometrista, perché
nel suo salotto ora l'ira serpeggia, sparita la pacatezza di qualche mese fa,
lieto fine addio.
"Lei deve scrivere dappertutto a lettere di scatola, che Biotti è
un fesso, è sempre stato un fesso, tutto quello che mi è successo
lo prova, non essermi -accorto per tanti anni di essere stato accanto a un serpente
boa" (e invano tenta di calmarlo quella signora amabilmente polposa che
è la sua bionda consorte). "Adesso aspetto che si insedi bene il
nuovo procuratore generale Bianchi d'Espinosa, e appena possibile, sporgo denunzia
e querela." Contro chi? Contro il serpente boa, contro l'avvocato Lener
per le sue temerarie fandonie, il suo malevolo delirio, la sua pretestuosa e
impudente richiesta di ricusazione.
"E mi fanno arrabbiare i miei amici che lo chiamano Gíuda perché
ha tradito una confidenza, ma chi gliene ha mai fatta una? Secondo lei, dica
la verità, le sembrò così cretino d'andare da lui a compromettermi
a quel modo? Le confidenze non le ha mai tradite,. per il semplice fatto che
non gli ho mai confidato nulla." Nella sua invettiva Biotti diventa lirico:
giudicando l'operato di Lener, d'accordo con D'Annunzio, egli dovrebbe concludere
che "parla per farnetico."
Proprio questo io ero venuta a chiedergli, dopo aver letto il documento approvato
dalla Corte d'Appello: quali le ragioni di un contegno così assurdo?
Per concludere dal canto mio quello che a tanti era già venuto in mente:
quei sospetti di collusione a cui portano i lunghi rapporti fra avvocati e magistrati,
ecco perché i grossi avvocati spesso si vantano di fare i processi non
in aula ma nei corridoi. Ma subito mi travolge la sua eloquenza difensiva: "Lener
deve provare che sono andato a parlargli di baratto, di promozione, di pressioni,
ho chiesto perfino un provvedimento disciplinare perché si faccia piena
luce su tutto, e allora cada Sansone con tutti i Filistei." Giacché
sta sfogandosi, al punto di paragonare Lener al gigante capellone, non segue
un filo logico, ma comincia dalla fine, quando dopo l'inoltro dell'istanza di
ricusazione, lo chiamano a Roma per essere sentito dalla seconda commissione
referente. Tema: l'eventuale trasferimento d'ufficio. È a Roma l'8 giugno
in palazzo di giustizia con le sue cartelle sotto il braccio, quando per avvolgerle
compra un giornale, e cosa ci vede?, la sua fotografia in prima pagina e la
notizia che la Corte d'Appello ha accettato la ricusazione. Capito? "Quel
che si dice un colpo alla fascista, mi hanno fatto partire apposta."
Un'altra prova di livore e di malafede? La storia della sua promozione. Ogni
anno il Consiglio superiore della magistratura indice un concorso per esami
e per titoli a scelta del candidato. Lui aveva scelto di partecipare allo scrutinio
(il parere del Consiglio giudiziario di Milano era più che favorevole:
"rara competenza, onestissimo, quel che si dice un galantuomo"); in
commissione c'erano altissimi magistrati, e che bisogno aveva di Lener? Lui
sapeva soltanto che gli stava , a cuore l'andare in pensione con un titolo.
Il 26, febbraio dunque Biotti si presenta alla commissione, cinque sono i giudici,
e tre i voti favorevoli che riceve. Uno ancora, e sarebbe a posto. "Adesso
indovini quando sarebbe stata la sessione del ricorso con il 99 per cento di
probabilità di avere il voto in più? Il 18 giugno. Quasi in concomitanza
con quella data, ecco la pugnalata alla schiena, la diffamazione."
Ancora una premessa prima di arrivare al colloquio fatale. Tornato dalle ferie
in settembre, Biotti fa il calendario per l'ottobre. Siccome il giudice Pulitanò
non è in sede, forma il collegio Biotti-Favia-Cardona, per la prima udienza
di ottobre. Ma non è il tribunale che decide la data dei processi: .è
la Procura: Cosí il processo "Calabresi-Lotta continua" viene
assegnato proprio al giorno in cui il collegio non contempla Pulitanò.
"Certo è stato fissato apposta per questo. Pulitanò mi chiese
d'esservi inserito, ma come facevo? Mi dispiaceva tanto togliere la signora
Cardona e altrettanto dire a Pulitanò che sarebbe stato ricusato. E adesso
mi darei degli schiaffi, perché non ho sostituito la signora, ecco come
sono fesso. Allora Calabresi avrebbe detto forte e chiaro che lui non lo voleva
il Pulitanò. Sarebbe saltato tutto il collegio, e a quest'ora io me ne
sarei stato quieto e promosso." (Che Lener temesse la presenza del giovane
giudice è certo, dato che da tre anni egli svolge-una serie di attività
politiche qualificate in seno a " Magistratura democratica"; temeva
ohc prendesse in mano il processo o avesse un certo peso nella sua conduzione.)
"Che impressione ha avuto sentendo Lener?" mi chiede subito. "Penso
che sia d'accordo con me: sempre contrario, rabbioso, ringhioso, in lui io sentivo
una sfida, ma ero deciso a tenergli testa: Di udienza in udienza poi si faceva
sempre più animoso, ogni volta che accordo qualche cosa alla difesa di
Baldelli, quando faccio venire il. registro della questura, mi accerto del fermo
abusivo, tento un'inchiesta sull'orologio sparito, permetto il sopralluogo in
questura, allora si son davvero tutti `rizzelati,' Lener e i poliziotti, né
io potevo trattenermi dal dire che nello schizzo del `Corriere' la stanza pareva
molto più grande (a parte che Lener il processo l'avrebbe voluto a porte
chiuse)."
Avanti con le udienze per tutto ottobre, il sopralluogo è il 6 novembre,
poi ancora udienze il 13 e il 16 novembre. È a questa data, a sentir
Biotti, che lui comincia a seccarsi. Come un muro ostile, si sente crescere
intorno il malumore di Lener; si accorge poi che il telefono di casa funziona
a modo suo, tutto un cric, un'interruzione, anomali squilli e lui che parla
senza che l'altro senta o viceversa: in strada è seguito, anche sull'autobus
e in tram. (così decide d'andare a trovare Lener "per vedere se
questo messere mi è nemico acerrimo o conserva un briciolo di onestà."
Gli telefona, lui non c'è, quando torna si mettono d'accordo per l'incontro,
e Biotti, sempre per misure cautelative; chiede di entrare da una porta secondaria.
"Sono le cinque del 21 novembre 1970, piove a secchi, entro da via Monte
Napoleone invece che da corso Matteotti, e li mi aspetta l'autista che mi fa
traversare due cortili; poi su con l'ascensore, ed ecco questa pulce che io
sono, in casa del plurimiliardario, e poi ha anche uno yacht, quattro cabine,
due marinai tutto l'anno.
"Lo vedo subito nero, incupito, nemico. Allora mi arrabbio anch'io: `Lei
mi ha rotto l'anima,' gli dico, `mi sta provocando un sacco di guai, mi ha ricusato
il Pulitanò e adesso me lo perseguita.' `Non solo, ma l'ho anche denunciato,'
risponde quello, furente." (In novembre infatti era stata aperta un'inchiesta
preliminare contro questo magistrato in seguito a un esposto di Lener sulla
faccenda dell'esclusione dal collegio e le conseguenti notizie sulla stampa.)
E avanti con un delirante discorso in cui, invocando il giudice Calamari, grida
che bisogna "finirla per sempre con quelli di sinistra, affossarli, distruggerli."
"Non parliamo poi della cosa più imbecille che è la perizia"
(quella sulle foto e i reperti sulla macchia ovulare con sospetto colpo di karaté).
A1 che Biotti risponde: "Il tribunale farà quello che deve fare;
se deve fare una perizia la farà." E qui, sempre a detta del giudice,
finisce l'incontro, e lui se ne va dopo nove minuti in tutto.
Tempestoso il colloquio, normali le tre udienze seguenti, benché Lener
presenti un inutile schizzo del corpo umano discutendone la circolazione del
sangue, il bulbo e la macchia, esibendo oltre a tutto, per far scena, le tremende
foto a colori della strage di piazza Fontana. Si arriva così al 27, quando
tornando a casa alle tre, ai primi bocconi della sua colazione, Biotti decide
di leggere quella lettera di Lener li in vista a pochi centimetri su un tavolino.
La legge, quasi si strozza: "Lei è un pazzo," grida nel telefono
all'avvocato, "questa lettera io la straccio." "E io la conservo,"
fa Lener. " E io me la metto dove lei pensa," conclude Biotti infuriato.
Si può vederla questa lettera? azzardo. No, si, no, "Ma si, che
me n'importa?" E Biotti me la legge. È del 26 novembre, e comincia
così: "Signor Presidente, ieri mi è venuta un'idea"
e l'idea gli è venuta in seguito a "una sconcertante impressione,"
a "un'insolita scena": Baldelli che si avvicina a Biotti, gli dice
qualcosa sorridendo, e gli stringe la mano. (Avvertiva il presidente che sarebbe
mancato alla prossima udienza, e Biotti usa stringer la mano a chi gliela tende.)
Lener prosegue con la storia della telefonata, in cui Biotti propone di vederlo
"anche in un bar" (lui che non ci mette mai piede, e la moglie, se
ha sete, se la tiene). Quando Lener torna da Roma dove assisteva il Credito
lombardo di Milano si mette a sua disposizione per l'incontro. Ed ecco, secondo
Lener (nel suo solito stile, puntini compresi, zoppicante sintassi, personali
scoperte e deduzioni), i motivi della visita. Era in corso una pratica presso
il Consiglio superiore per la promozione di Biotti, pratica controllata da persone
di sua fiducia e di cui Biotti non si sentiva di turbar l'andamento. "Il
discorso semipatetico si spostava:.. sul processo in corso. Lei m'informava
delle molte pressioni... capitanate dal vicepresidente della sezione dottor
Martino:
"Feci due osservazioni: avevo visto che l'uditore alla Sua destra si incontrava
spesso col giudice Martino dopo ,l'udienza, evidentemente informandolo di quanto
era avvenuto. Alla mia seconda domanda se l'uditore era nipote o congiunto di
Beria d'Argentine, e se questi era la persona che controllava la sua pratica,
Lei sorrise senza rispondermi."
Quindi la confessione che tanto Biotti che il giudice a latere erano inclini
a credere al colpo di karatè con lesione al bulbo spinale, che l'orologio
fantasma sarebbe stato portato via per non rivelare l'orario della caduta e
delle percosse. "Fu allora che mi impennai," continua Lener, "dimostrando
il `dato' più imbecille che si era materializzato nel corso della campagna
di stampa. Ecco perché alla ripresa dell'udienza ho cercato di dimostrare
l'assurdità scandalosa di quel `dato' e lessi la mia nota disperando
della Sua buona volontà di leggere gli atti. Ma il Suo sguardo durante
la mia lettura era assente e dimostrava fastidio e disattenzione. Lei mi informò
che il collegio, non conferendo alcuna importanza alla perizia ordinata e fatta
eseguire dal dottor Caizzi, era deciso a ordinarne un'altra... Rimasi di stucco,
non supponendo che le influenze esercitate avessero anche potuto incrinare il
riguardo verso la Procura della Repubblica."
"Allargai le braccia per esprimere lo scoramento di chi si trovi di fronte
improvvisamente a una frana di tutto un mondo nel quale era vissuto per cinquant'anni."
Dopo lo scoramento espresso a braccia, Lener gli chiede se crede alle "atroci
accuse rivolte al Calabresi e alla polizia in genere;" e "Lei, abbassando
gli occhi fece cenno di sì, con un gesto che significava... qualcosa
di più." Quindi, "per medicare il colpo inferto nonostante
la trentennale amicizia," Biotti avrebbe offerto la scelta della terna
dei nomi dei periti di prossima nomina.
Poi "andando a ritroso col pensiero," Lener si spiega molte cose,
l'applauso alla lettura della dichiarazione di Baldelli, il "linciaggio
morale" del suo cliente in aula, il disordine del sopralluogo nel caos
di tutta quella gente, la sua osservazione che la stanza era troppo piccola,
perché il Pinelli potesse deambulare, "frase captata dalla giornalista
`Cederna'." Ciò per tacere di altre affermazioni e confidenze sul
processo fatte in altre occasioni, anche nello stadio di San Siro..(A San Siro
Biotti giura che parla unicamente di calcio.)
"Signor Presidente, Lei . non ha potuto o voluto rendersi contò
né del merito della causa né delle sue ripercussioni nell'ambito
nazionale, consentendo, e concludo, che il processo che riguarda strettamente
Calabresi come prescrive la legge sulla obiettività rigorosa della prova
di fatto, investisse tutta la polizia." Le conclusioni? Due commi tecnici
che significano: "O ti ritiri o ti ricuso."
Perché non ha mostrato la lettera al presidente del tribunale?, vien
spontaneo di chiedergli. Perché, risponde Biotti, "era una lettera
privata di cui faccio l'uso che credo, sono forte della mia coscienza, e sono
sotto l'usbergo del sentirmi puro." Il resto è noto. Altre tre udienze
in dicembre, il 24 un'altra lettera di Lener che "augura al Presidente
Biotti e alla Sua gentile famiglia Buon Natale e un 1971 di successo e di serenità."
("Pensi un po'!"), Quindi si incaricano cinque periti di far la perizia
sulla foto della macchia ovulare, il 25 marzo rispondono praticamente con un
nulla di fatto, il 26 marzo il tribunale autorizza la perizia con riesumazione.
Il primo incidente di esecuzione di Lener viene respinto, il 29 maggio è
fissata l'udienza per discutere il secondo, e nel frattempo Biotti sa che è
stata presentata l'istanza di ricusazione. Offeso, si astiene dall'udienza,
e va in cancelleria dove vede che l'istanza è ammessa.
Morale: la tomba resta chiusa, la Corte d'Appello accetta la ricusazione, Biotti
ricorre in Cassazione, vuole essere anche ascoltato dal plenum del Consiglio
superiore, definendo 'Tatto di ricusazione la più inaudita ribellione
che sia mai stata posta in essere contro la decisione del tribunale che una
volta era sovrana," e: "Io sono solo e ho contro di me forze che son
montagne dolomitiche, dietro Lener chi sa cosa c'è, certo non agisce
da solo, lui ha il potere alle spalle."
Finisce qui la mia "immersione" personale sulla vicenda; così
da questo momento tenterò soltanto di raccogliere quel che succede dopo
un fatto di tale gravità. Passa qualche giorno di sbigottimento ad ogni
livello, poi si scatena il caos. Il consigliere istruttore Amati e il sostituto
procuratore Caizzi fanno appello al Consiglio superiore della magistratura perché
giudicano "gravemente lesivo della loro probità nell'esercizio delle
funzioni giudiziarie" il passo che in quella lettera degli intellettuali
li riguarda da vicino; Lener manda un biglietto ad. ognuno dei dieci firmatari
per spiegar loro grosso modo che non hanno capito niente e che non dovevano
lasciarsi plagiare da una matura sibilla "un po' bionda e no, eppur sculettante
nei suoi giovanili pantaloncini" (ebbene, allude alla vostra cronista,
che in un'intervista, rilasciata poco tempo dopo al "Tempo" di Roma,
egli definirà qualcosa come una mitomane isterica).
La Cassazione decide di aprire un procedimento nei confronti di Biotti.
Biotti si sceglie come difensore l'avvocato Federico Sordillo, diventato proprio
in questi giorni presidente del Milan (non bisogna dimenticare che Biotti stesso
ne è consigliere amministrativo). La questura smentisce d'aver controllato
i suoi movimenti e il suo telefono: anzi fa un rapporto alla Procura della Repubblica
perché le hanno falsamente attribuito tali fatti illeciti.
Il giudice Martino e il dottor Bruti Liberati respingono sdegnosamente le accuse
di esser stati il tramite delle pressioni del giudice, chiedendo che un'indagine
approfondita ristabilisca la verità. Anche Beria d'Argentine sollecita
un accertamento per quel che lo riguarda al Consiglio superiore, esigendo che
i risultati siano resi pubblici alla stampa e che addirittura i giornalisti
possano essere presenti alla riunione del consiglio in cui questi verranno discussi.
Lener chiede al Consiglio milanese dell'Ordine degli avvocati di aprire un'inchiesta
sul suo conto, e chi ne dà notizia ai giornalisti è il presidente
del consiglio dell'Ordine, avvocato Giuseppe Prisco. Ma Lener smentisce e Prisca
conferma. Il penalista Alberto Dall'Ora scrive su "Epoca" un articolo
in cui prende vagamente posizione per Biotti, criticando questo modo di ricusare,
e ne ha in risposta una furiosa lettera di Lener, per cui si rompono definitivamente
i rapporti fra i due. (E il numero dopo, smentendo Dall'Ora, "Epoca"
fa scrivere un articolo riparatore ad Augusto Guerriero che scarica tutta la
colpa del pasticcio sull'attuale "politicizzazione" della magistratura.)
In tanto sdegno contro corrotti e corruttori c'è infatti anche questo
pericolo: la posizione di Guerriero è comune a tutti quei reazionari
che identificano le cause dello scandalo recente nel Consiglio superiore della
magistratura, situato secondo loro su posizioni troppo avanzate, quindi da riformare,
se non da abolire, per riportare tutti i giudici alle dipendenze del ministro
della giustizia.
Ecco come sempre su "Tempo" di Roma, Lener geme su quanto è
stato poi lui a provocare, ahimè i cittadini stanno perdendo la fiducia
nella giustizia, perché "si è aperto uno squarcio su quel
cancro del quale è infettata una sia pur piccola parte della nostra magistratura,"
e addita come responsabili non certo gli istruttori del caso Pinelli o tutti
i bugiardi annessi, ma altri non precisati magistrati, mescolando Biotti coi
suoi colleghi di Milano finora accusati senza la minima prova, oltre a tutti
quelli, che, denunciando la repressione, hanno spesso e duramente pagato di
persona.
Se invece ci sarà ancora il processo, affermano le correnti di punta,
è indispensabile dar battaglia su due piani, uno interna al processo,
l'altro che tenda a chiarire la situazione dentro la magistratura, tirandone
a galla tutto il marciume: è molto importante, così dicono, che
un bubbone come questo sia scoppiato, si tratta di .episodi che mostrano la
necessità di introdurre dei meccanismi istituzionali e di controllo che
d'ora innanzi possano impedirli.
Ed è proprio questo il discorso che fa perdere la testa alla destra politica
e a quella giudiziaria: le quali hanno tutto l'interesse a rovesciare ogni responsabilità
di scandalo della giustizia proprio sugli "innovatori." Di qui, partendo
dal cancro e dal bubbone, viene sferrato un massiccio attacco di destra contro
il Consiglio superiore della magistratura, non tanto considerato solamente quel
tal bastione avanzato a cui si accennava prima, ma nel quale si vuol vedere
proprio chi ha suggerito a Biotti di voler condannare Calabresi, quindi il colpevole
in generale di aver diffuso quell'altro mortale bacillo, e ci risiamo un'altra
volta: il bacillo è la politicizzazione della magistratura.
Il quotidiano "Tempo" se ne fa il portavoce, e il primo a partire
all'attacco è l'ex guardasigilli del re, Alfredo De Marsico, già
ministro della giustizia di Mussolini, già componente del Gran consiglio
del fascismo, che da tempo conduce una campagna contro il Consiglio superiore
che egli definisce addirittura il corruttore politico della magistratura (mentre
tutto si potrà dire di questo consiglio tranne che sia un organo dominato
dalla sinistra). E "non si tratta di un attacco improvvisato," spiegherà
poi Marco Ramat su "Il Ponte" ma: "è un attacco che risale
a tempo addietro, sia da parte dello stesso De Marsico, sia da parte di altri
personaggi ben paludati di accademia (pensiamo a Salvatore Satta che da anni,
anche in sede giornalistica, porta attacchi costanti contro i magistrati democratici,
contro ogni forma di maturazione politica dei magistrati, e perfino, da ultimo,
contro lo Statuto dei lavoratori che non è certo una legge rivoluzionaria,
invitando - coerenza del sistema di diritto! - i giudici a violarlo)."
Nel coro non può mancare, com'è naturale, anche "Magistratura
democratica," con un comunicato che reagendo agli attacchi rovesciati sul
Consiglio superiore (organo costituzionale della repubblica nata.dalla Resistenza)
"denuncia invece la connessione fra queste manovre e il disegno politico
eversivo contro le istituzioni democratiche, indica alle forze politiche democratiche
e popolari, al mondo sindacale e del lavoro la necessità di reagire agli
attacchi reazionari contro il Consiglio superiore e soprattutto richiama ai
partiti politici antifascisti l'urgenza assoluta di riformare tale Consiglio
per renderlo pm democratico e rappresentativo, affinché possa in avvenire
meglio rispondere alle esigenze del paese e garantire la corretta amministrazione
della giustizia, oggi come sempre soggetta a pressioni di destra."
Finché a tutti i magistrati e gli avvocati di Milano arriva una lunga
lettera dell'avvocato Massimo De Carolis (capogruppo democristiano in Palazzo
Marino, e sostenitore delle manifestazioni fasciste della maggioranza silenziosa)
e del suo collega avvocato Lodovico Isolabella. Nella lettera essi si scagliano
in un linguaggio strano contro la "reiterata" pubblicazione, su tre
numeri dell' "Espresso," della lettera aperta sottoscritta da tutte
le persone sdegnate per l'andamento della vicenda "Calabresi-Lotta continua."
Schierati insieme con la questura questi due legali risultano strenui difensori
di Caizzi e di Amati: Scrivono infatti che essi "hanno agito secondo l'imperativo
della verità alla luce della loro coscienza," che Caizzi, iniziati
gli accertamenti preliminari "li ha conclusi con fulminea rapidità,
accurati, meticolosi, complessi." Infine Amati, (;aizzi e Calabresi, secondo
la lettera, sarebbero "persone libere e oneste che giorno per giorno spendono
la loro esistenza sulla tutela di un sistema che si regge su ossatura pregna
di autentici valori e che rivendica sicure grandezze."
Si son citati finora personaggi molto in vista con le sorprese
che ci riservano; ma una sorpresa, e sconcertante anche questa, ora ci viene
anche dal basso. Un giovane avvocato sta parlando con un magistrato in un ufficio
di palazzo di giustizia, ed ecco entrare a un tratto un cancelliere con un fascicolo
in mano. Corretto saluto, giù il fascicolo a via. È uno dei nuovi,
fa il magistrato. Ma dove l'ho già visto? si chiede l'avvocato, quel
tipo lì lo conosco, così massiccio, gli occhiali e tutti quei
capelli.
Certo che è una vecchia conoscenza: è l'ex brigadiere ed ora maresciallo
Pietro Mucilli, già appartenente all'ufficio politico della questura,
uno degli inquisitori del caso Pinelli presenti alla sua morte, nonché
principale teste di accusa contro i giovani che avevano manifestato per l'eccidio
di Battipaglia, e ancora teste a carico nel processo contro gli anarchici, buon
picchiatore, sospettato d'aver messo in tasca a uno degli imputati "per
incastrarlo" lo schema di uri ordigno esplosivo. Ed ora, chi se l'aspettava?,
c stato assunto, quindi premiato, dall'ufficio Istruzione.
Un'altra vecchia conoscenza, ma in posizione eccelsa, si ritrova nel tetro palazzo,
e questo è un ritorno di prestigio, è Luigi Bianchi d'Espinosa,
che si è insediato a Milano da poco come procuratore generale: È
lí che lavora nel suo ufficio il 24 giugno, un giorno di gran caldo,
mentre a un certo punto gli si fa annunciare l'avvocato Carlo Smuraglia. Si
conoscono da vent'anni, cordiale l'incontro, molti gli argomenti e i ricordi
comuni.
Il procuratore parla volentieri, ed è noto per il suo humour quieto ma
pungente, che non si smorza neppure quando l'avvocato gli comunica, che oltre
a venirgli a dire com'è contento che sia tornato, anche a nome del collega
Domenico Contestabile, deve consegnargli un documento, anzi glielo consegna
personalmente, dato che è molto grave e delicato. "Lei sa che mi
interessano casi così," fa Bianchi d'Espinosa, e col suo piccolo
sorriso ironico, senza sapere quanto è esplosivo, tende la mano verso
il fascicolo.
È certo più delicato e più grave di quanto egli non pensasse,
è il bruciante esposto di una donna crudelmente ferita. Tramite i suoi
legali, essa fa una critica lucida e amara del tenebroso evento che l'ha coinvolta,
e che a un certo punto scoppia in aperta denuncia. Sono ventun pagine infatti
in cui Licia Pinelli chiede la riapertura della istruttoria e l'incriminazione
di tutti i poliziotti meritevoli di ogni sospetto, i commissari Allegra e Calabresi,
i sottufficiali Panessa, Caracuta, Mucilli, Mainardi, oltre al capitano dei
carabinieri Lo Grano. I reati? Omicidio volontario, violenze private, sequestro
di persona, abuso di ufficio, abuso di autorità.
Tutte in fila dunque le pecche dell'inchiesta ufficiale sulla morte condotta
dalla Procura (da cui eran stati esclusi i familiari Pinelli), quindi di quel
farraginoso sfacelo di istruttoria con relativo decreto d'archiviazione, zeppo
a sua volta di inaudite prove di parzialità verso gli agenti di polizia,
di deposizioni mutevoli ad ogni voltar di pagina, e tutte col piombo nelle ali,
per arrivare a un altro incredibile fatto, a quando cioè l'istruttoria
sulle cause della morte di Pinelli finisce per svolgersi in un processo diverso
con un imputato diverso, ancora una volta senza alcuna partecipazione di chi
vi ha diritto, particolarmente della vedova. (E qui bisogna riconoscere che
di rado si è assistito a qualcosa di più aberrante.)
Insomma un dizionario di gaffes, decisioni arbitrarie, ragionamenti del tutto
inaccessibili alla normale ragione, di persecuzioni ed interrogatori insidiosi,
intimidatori e fraudolenti, di rievocazioni confuse e contraddittorie su quella
tal notte dal 15 al 16 dicembre '69 (mai un confronto tra quanti, pur volendo
dare una comune versione di innocenze, per scempiaggine, raptus o distrazione,
finiscono sempre con lo smentire i compari); in più colpevoli vuoti di
memoria, orari che vischiosamente spostandosi, si sovrappongono o si dilatano
senza che nessuno riesca nemmeno ad accordarsi né sull'ora delle provocazioni
né sull'ora della chiamata dell'autoambulanza.
Nessuno poi che sappia spiegare il perché tanto di quel segno d'agopuntura
alla piega del gomito (mentre a 21 mesi di distanza salterà fuori la
cartella clinica con la pro va dell'iniezione), quanto dell'esistenza alla base
del collo della famosa macchia di forma ovale. Questa macchia, continua l'esposto
(se non riguarda contusioni o lesioni da caduta, come riconoscono i periti)
non può essere il segno di violenze commesse contro il Pinelli diventato
ormai "persona scomoda" quando era ancora vivo in quella stanzetta?
Non si fa dunque attendibile la tesi del karatè, accolta, a quanto Lener
ha imprudentemente affermato, anche dallo stesso consiglio giudicante?
Prende corpo allora l'esposto della vedova, "un estremo tentativo di ottenere
giustizia nel nome del marito tragicamente privato della vita, e delle bambine,
che hanno diritto almeno di veder restituita al padre quell'integrità
morale e quella saldezza che conobbero in lui. Spera infine che ancora una volta
non vada delusa l'attesa che oggi non è più soltanto sua, ma dell'intera
collettività."
È una decisione maturata a lungo, a cui Licia Pinelli è arrivata
responsabilmente in seguito alla somma di insensatezze dell'anno scorso e agli
ultimi sviluppi (tentativo di far saltare il processo, certezza che sia stato
truccato). Insomma, visto che la magistratura non ha fatto il suo dovere e si
tenta di chiudere il canale Baldelli, ecco che la vedova ne apre un altro, il
piú logico, il più diretto.
C'è un'altra ragione ancora perché ora esca fuori questo documento,
ed è la presenza al vertice della Procura di quest'uomo nuovo, che gode
fama di democratico, che è antifascista per costituzione, è nato
e cresciuto alla scuola di Calamandrei, è considerato un enfant prodige
della magistratura, perché approdato giovanissimo in Cassazione, e subito
noto per i suoi atteggiamenti contrari al conservatorismo ambientale. (Quando
arrivò a Milano come presidente del tribunale, prese in mano personalmente
i processi penali di spicco come la "Zanzara" e il processo Riva,
in questo andando contro Lener, allora difensore del malaugurato Felicino. )
Diventato capogabinetto del ministro repubblicano Reale dopo una parentesi veneziana,
appena a Milano di nuovo, nella sua lunga intervista al "Corriere"
(un'intervista da "Corriere," appunto, senza nessuna impennata) c'è
però una frase che piace ai democratici: "II mio compito è
di far rispettare la legge nei confronti di chiunque." Così si spera
che per una volta nel "chiunque" sia compresa la polizia.
Ci si domanda ora cosa possa fare di questo esposto il procuratore generale
che ha sempre amato le situazioni rischiose. Deve decidere prestissimo, perché
son prossime le ferie. È difficile che possa consultarsi col suo avvocato
generale, quel Pontrelli che a suo tempo aveva promosso il procedimento di trasferimento
a Genova del processo della "Zanzara" per legittima suspicione. Deve
decidere da solo, e nella sua decisione si misurerà l'autenticità
dei suoi sentimenti democratici.
Posizione tutt'altro che invidiabile la sua; stretto com'è fra due fuochi.
Da un lato la sua ambizione, il suo prestigio, e dall'altro la sua carriera.
E qualsiasi decisione in questo affare può essere un errore per lui:
a lui l'errore che ripugna meno alla sua coscienza.
Bianchi d'Espinosa può dunque trasmettere gli atti al giudice istruttore
con richiesta d'archiviazione (ma non lo farà; certo, non ama mettersi
al livello di Caizzi ed Amati). Può avocare a sé l'istruttoria
ricominciando daccapo oppure continuando con gli atti che crede (nuovi interrogatori
e la riesumazione). Può lavarsene le mani, deferendo gli atti al giudice
istruttore con richiesta di procedere con istruttoria formale (trentaquattro
sono i magistrati di cui Amati dispone). Se no potrebbe emettere gli ordini
di cattura e procedere contro gli imputati. Questo in poche righe il nuovo test
per Bianchi d'Espinosa.
Benché, anche per ragioni di vacanze, egli incarichi della nuova istruttoria
il sostituto procuratore generale Mauro Gresti, sarà presente all'interrogatorio
di Licia Pinelli, la donna che in un anno e mezzo non ha mai sbagliato un colpo,
che questo suo ultimo atto lo considera un dovere morale, che non ha mai avuto
un cedimento sentimentale né una lacrima, esemplare per dignità
e controllo, occhi impavidi ed un pallore quasi magnetico nel suo bel viso di
italiana antica.
Parlerà con Lener, 1'atrabiliare, intorno al quale si è urcato
un vuoto fisico e morale da incubo e che con le sue intemperanze ha ottenuto
il peggiore dei risultati per il suo cliente; vedrà il giudice Biotti,
che per ora sta pagando per tutti e per il quale è stata chiesta la sospensione
dall'ufficio c dallo stipendio. E naturalmente Calabresi che, sempre "
Milano, partecipa attivamente alle cariche contro l'Unione Inquilini.
La prima risposta alla denuncia della signora Pinelli? È incredibile,
viene dall'alto ed è la promozione di Calabresi da commissario aggiunto
a commissario capo.
Poche sono le novità comprese fra i primi di luglio e le prime tre settimane
d'agosto. La Procura generale, come ci si aspettava, decide di riaprire l'istruttoria
(ma perché Bianchi d'Espinosa non conduce personalmente le indagini come
ai tempi di Riva e della "Zanzara"?); si ascolta la vedova Pinelli
che conferma punto per punto la denuncia presentata il 25 giugno: muore improvvisamente
Cornelio Rolandi il supertestimone del processo Valpreda; alla Corte d'Appello
di Firenze inizia l'istruttoria penale contro Biotti (essendo magistrato a Milano,
non può esser giudicato dal procuratore della stessa città) e
gli contestano omissione d'atti d'ufficio, rivelazione di segreto istruttorio
c corruzione; quindi il magistrato che indaga sul giudice interroga anche Lener,
Calabresi e il segretario di Lener, cioè gli altri protagonisti del più
recente scandalo politicogiudiziario.
Si arriva finalmente a qualcosa di più concreto il 26 agosto. È
il giorno in cui due commissari di polizia vengono indiziati di reato, cosa
che capita certe volte al cine ma, quasi mai in questo nostro paese. Eppure,
a due mesi dalla denuncia della vedova, il. sostituto procuratore generale Mauro
Gresti, incaricato della nuova istruttoria, mette sotto accusa i due più
alti funzionari implicati nella vicenda al di fuori del questore Guida: al capo
dell'ufficio politico Antonino Allegra contesta il fermo illegale dell'anarchico,
al commissario Calabresi l'omicidio colposo.
Può cadere così dalla buona coscienza dei cittadini tranquilli,
quel peso che a furia di infiammate campagne di stampa, se non altro a intervalli
deve averli turbati, e hanno buon gioco i moderati di sempre: non è affatto
vero che i poliziotti non pagano, la legge è uguale per tutti. Ma tutto
lascia pensare che gli indiziati pagheranno pochissimo. Sempre difeso dall'avvocato
Lener, Calabresi dimostrerà facilmente che é stata minima la sua
negligenza nel sorvegliare l'anarchico (tra l'altro non ha sempre affermato
di essersi allontanato dalla stanza al momento giusto?). Quanto all'atto doloso
contestato ad Allegra (che si è scelto un altro grosso calibro come difensore,
l'avvocato Giacomo Delitala), cioè l'arresto illegale, d'altronde non
inconsueto nella tradizione delle questure (ammesso in tribunale dallo stesso
Allegra, che a suo tempo era stato censurato dal Procuratore generale Riccomagno
con una lettera definita semplicemente "un buffetto," mentre avrebbe
dovuto aprire un procedimento disciplinare contro di lui e procedere penalmente),
l'accusa è già coperta dall'amnistia.
Un fatto positivo comunque può essere considerato, nello svolgimento
del caso Pinelli, questa riapertura di un procedimento penale, che se non altro
incrimina qualcuno, e sempre con molte precauzioni, trasforma i querelanti in
imputati, quindi supera, rinnegandolo, l'incredibile documento del giudice istruttore
Amati, che archiviando 1'intera faccenda, aveva chiuso ermeticamente ogni sbocco
all'istruttoria: nessun reato era stato commesso, il fermo non era illegale,
tutti innocenti dunque, fuori il povero Pinelli, perlomeno affetto (e anche
Amati finiva con lo scagionarlo da ogni accusa) da invincibile nervosismo.
Non è però il caso di veder troppo rosa; perché a guardare
bene si tratta di una mossa più astuta che producente, più di
compromesso che promettente, l'unica che, per non suscitare tutto quel vespaio,
avrebbe dovuto venire in mente all'inizio ad Amati e a Caizzi. Infatti, nel
momento in cui, attraverso i vari processi politici, andava offuscandosi il
buon nome della polizia e della magistratura, col metter motto accusa due della
polizia, oggi si sta tentando di ridar credibilità alle istituzioni intaccate
dall'istruttoria Amati, dall'assurdo processo contro gli anarchici, da tutte
le nebbie che avevano avvolto il processo "Calabresi-Lotta continua":
in questura la trasgressione come regola corrente, in tribunale quella serie
di contraddizioni e incompatibilità che soltanto nei governi e nei tribunali
si possono trovare, quindi a livello di magistratura colpi mancini, tradimenti,
sconcertanti ammissioni.
All'apertura dell'istruttoria si approda anche perché mai prima d'ora
su un fatto del genere si era mobilitata l'opinione pubblica in modo tanto massiccio
da giungere addirittura a una forma di battaglia democratica. Ma a una soluzione
come questa si arriva con due anni di ritardo, ed è una soluzione che
non può soddisfare, perché troppe cose nono venute a galla in
due anni, e di tale peso, da far ritenere molto più grave l'accusa.
Proprio per via del ritardo, partire dall'ipotesi neutra nel 1971 non è
certo un acquisto di nuovo credito da parte della magistratura e della polizia:
insomma in seguito nel dibattito che c'è stato in tribunale e alla marea
montante nell'opinione pubblica, questa neutralità dell'accusa è
difficile accettarla.
Anzi, scegliendo l'omicidio colposo (mancanza di diligenza, violazione di norme
regolamentari, ritornata alla luce quell'equivoca deposizione di Oronzo Perrone,
autista di Calabresi, che parla già di tentato suicidio alla vigilia
della morte), è stata fatta a priori una scelta che equivale a una condanna
definitiva delle istituzioni. Con l'aria di far giustizia si dà un contentino
a quanti hanno appassionatamente seguito il caso schierandosi contro uomini
e modi della questura; e contemporaneamente, dopo la denuncia della vedova,
si offre un comodo salvagente ai due poliziotti, non contestando niente a tutti
gli altri presenti quella tal notte nella stanza, fuorviando l'attenzione dal
processo "Calabresi-Lotta continua," tagliando corto alla tesi che
aveva preso piede anche fra gli stessi magistrati, quando il giudice Biotti
aveva dichiarato che non solo lui, ma anche i suoi colleghi a latere erano persuasi
del mortale colpo di karaté.
Si è seguita così la linea contraria a quella che di solito si
segue nei processi politici, in cui per primo si contesta il reato più
grave per arrivare a provare il più leggero. (Se per un'ipotesi assurda,
da una stanza dove si trovava con una mezza dozzina di operai di sinistra, Calabresi
fosse caduto dalla finestra, gli operai sarebbero stati incriminati di omicidio
colposo?) Ed ecco che, come nel gioco dell'oca, dopo quello che a prima vista
poteva sembrare un bel salto in avanti, si torna al posto di prima, avvalorando
la tesi della polizia, che è quella del suicidio. (A meno che, come affermano
gli ottimisti, si tratti di un primo passo per aprire maggiormente e più
oltre il campo delle indagini.)
E c'è anche qualcuno che si rattrista dell'invio di questi avvisi di
reato, per esempio il democristiano on. Speranza, vicecapogruppo dc alla Camera.
Il quale di ciò si lamenta scrivendo una lettera all'on. Andreotti. "Potrebbe
trattarsi di un reale grave reato compiuto dai funzionari" egli scrive,
bontà sua, "il che giustificherebbe la gravissima decisione della
Procura generale milanese. Ma potrebbe essere anche un abbaglio."
A parte la scelta del sostantivo (che in questo caso è quasi irresistibile),
la possibilità dell'abbaglio, cioè il rischio di perseguire un
innocente, secondo lui dovrebbe esser sufficiente a bloccare un processo? Quel
che scrive l'on. Speranza è proprio quanto occorre non solo per giustificare
ma per imporre l'avvio di un'istruttoria penale. E chi sulla stampa critica
Speranza, o contro di lui protesta in Parlamento, torna ad usare quel verbo
che da tanto tempo non poi tanto inutilmente ha martellato e scandito i tempi
di questa vicenda: "far luce, allo scopo di far luce, si faccia luce al
più presto." Vuol dire che, nonostante tutto, anzi a causa di tutto
quel che è saltato fuori, la luce che è stata fatta, nelle alte
sfere non è stata gradita, anzi si è tentato di intorbidire le
acque sempre di più. L'importante ora è che le indagini si svolgano
rapide e complete, senza indugi né indebite pressioni.
Bando agli indugi; mentre Gresti è in vacanza (ci star1 quaranta giorni),
chi conduce le indagini è Bianchi d'Espinosa. Da lui vengono sentiti
i primi tre testi, Oronzo Perrone, autista di Calabresi e gli agenti Buccella
e Spalletta (Oronzo quello che riferì a Caizzi del tentato suicidio di.
Pinelli, gli agenti i due che erano presenti a tale tentativo). Poco trapela
dal palazzo di giustizia, ma quel che è sicuro è che, a braccetto
dei suoi due fidi, Oronzo fa il suo bel passo indietro, come, da quando la conosciamo,
si usa in questura.
Il tentativo di suicidio (infatti chi ci aveva creduto se non Caizzi? e come
mai era venuto a galla dopo quattro mesi? ) era stato soltanto una sua impressione,
una semplice supposizione venutagli in mente durante lo stato di choc che l'aveva
preso dopo il salto del ferroviere; quanto ai due agenti, non eran stati neppure
sfiorati dall'idea clic, volendo aprire la finestra per via del fumo, Pinelli
avesse l'intenzione di suicidarsi. Interessante retromarcia clie viene a puntino,
per salvare un'altra volta e un poco di più il commissario capo Calabresi,
il quale potrebbe così essere sollevato perfino dall'accusa di omicidio
colposo: non c'era il minimo sospetto, non può essere quindi accusato
di scarsa vigilanza.
11 settembre: Come un ricorrente contrappunto, si rifanno vivi i legali
della vedova Pinelli con una serie di richieste istruttorie. Si faccia un'ispezione
nei locali della questura dove si trovava il Pinelli la notte della sua morte,
previa notifica dell'avviso di procedimento a tutti quelli che allora si trovavano
lì dentro: per mezzo di un manichino della statura e del peso di Pinelli
vengano studiate le modalità di caduta a seconda della parabola del corpo
e dello slancio impressogli. E si indaghi su quel segno di agopuntura sul braccio
sinistro, interrogando medico, barellieri, periti.
12 settembre: Si fa sempre più frequente la voce che la Procura
generale ha l'intenzione di disporre la perizia necroscopica, anche se a distanza
di quasi due anni sono poche le probabilità di scorgere in quelle povere
ossa qualche segno rivelatore. Ed è proprio l'iniziativa sulla quale
la parte civile si era opposta ogni volta e in modo talmente accanito da far
scoppiare il famoso bubbone.
Chiaro come il sole che a questo punto insorga la solita destra, quella insomma
che vuol stare al buio. Ricordate la campagna condotta dal professor Satta contro
il Consiglio superiore della magistratura al tempo del bubbone? Si fa sentire
un'altra volta, e precisamente in un articolo di fondo sul "Gazzettino,"
in cui attacca il procuratore generale, perché interferisce in un processo
pendente che è già allo studio del pubblico giudizio, e lo accusa
di volersi sostituire al giudice. Insomma, a sentir lui, Bianchi d'Espinosa
si è reso colpevole di un vero e proprio reato, come l'abuso di ufficio,
un reato che viene punito rigorosamente dal codice penale. Manovra tanto grossolana
come intimidatoria, che ha uno scopo soltanto.
14 settembre: Bianchi d'Espinosa trasmette gli atti al giudice istruttore
perché proceda all'istruttoria formale nei confronti di Allegra e Calabresi.
(Ed ecco che dopo due anni si ricomincia tutto daccapo.) Nello stesso giorno
chiede la riesumazione dei resti dell'anarchico e la perizia necroscopica, a
cui assisteranno finalmente i periti di parte nominati dai familiari. La pratica
così passa all'ufficio Istruzione, diretto da Amati; ma se non in vera
vacanza, Amati è in vacanza diplomatica, e naturalmente se ne occuperà
un altro giudice.
15 settembre: Viene reso noto che la salma di Pinelli sarà riesumata ai primi d'ottobre. (E cosa farà Lener?) Non si sa ancora chi sarà il giudice istruttore, ma si parla di Ovilio Urbisci, un nome che ai democratici dà serio affidamento.
17 settembre: Non è Urbisci, invece, perché il fascicolo
viene consegnato al giovane magistrato Gerardo D'Ambrosio che tra l'altro ha
insistito per averlo. Di lui non si conoscono le opinioni politiche, si sa soltanto
che fa la stia professione con entusiasmo, e che è il magistrato a cui
si deve la soluzione del mistero dell'assassinio di piazzale Lotto. Per quel
che riguarda Calabresi: "Concorreva," si legge nel capo d'imputazione,
"a causare la morte di Giuseppe Pinelli in quanto nella sua qualità
di funzionario che aveva ricevuto dal dirigente stesso l'incarico di interrogare
la persona sopraindicata... dopo che nel corso del lungo interrogatorio eran
state rivolte al Pinelli domande e contestazioni 'ad effetto' dalle quali avrebbe
potuto derivare all'interrogato il convincimento che la polizia era a conoscenza
di gravi elementi a suo carico in ordine a sue eventuali responsabilità
per la strage o per precedenti attentati dinamitardi o comunque in ordine alle
responsabilità di elementi anarchici in relazione alla strage predetta,
ometteva, a interrogatorio ultimato, di impartire le opportune disposizioni
per la vigilanza e custodia del fermato. In particolare, ometteva di disporre
che lo stesso venisse adeguatamente custodito in un locale interno dell'edificio
a tale-uopo adibito o venisse quanto meno strettamente sorvegliato a vista da
personale specificatamente incaricato, cosicché il Pinelli, rimasto in
sua momentanea assenza in condizione di relativa libertà di movimenti
nella sua stanza con finestra a balcone... poteva con mossa improvvisa e tale
da prevenire il possibile intervento delle altre persone casualmente presenti
nell'ufficio stesso, precipitarsi dalla finestra sita al quarto piano dell'edificio..."
Al dottor Allegra si contesta di aver abusato dei poteri inerenti alle sue funzioni
avendo proceduto al fermo di Pinelli e di averlo trattenuto per un tempo ben
superiore a quello strettamente necessario per i suoi interrogatori, omettendo
di farlo tradurre immediatamente nelle carceri giudiziarie a disposizione del
procuratore della Repubblica, e dando notizia a quest'ultimo con notevole ritardo.
E cosa farà Lener, ci si chiede ormai che lo si conosce così bene,
davanti alla ripresa dell'istruttoria, davanti all'incriminazione e a quella
tomba che finalmente sta per aprirsi a Musocco? Son tutti sicuri che avrà
le sue acri proteste da fare, e basta aver pazienza qualche giorno, lasciargli
scegliere quello che, anche consultando Roma, secondo lui è la miglior
forma di protesta, perché a questo punto succeda quello che è
sempre successo quando si arriva al momento in cui stanno per essere schiarite
le nebbie, rimossi gli ostacoli e fugate le ombre. Con una regolarità
pari soltanto alla sfacciataggine, si può esser sicuri che anche adesso
agiscono le solite trappole che chiudono e insabbiano, se no si alza un gran
polverone e si scatena il caos. Ora infatti è lo stesso. Maestro nei
colpi di scena Lener scatta il
22 settembre: E denuncia per calunnia e a titolo personale il professor
Carlo Smuraglia, patrono della signora Pinelli. In duecento pagine egli lo accusa
di aver calunniato tutti i poliziotti che sappiamo, di aver ricostruito, travisato
e distorto calunniosamente i fatti su cui si basa la denuncia della vedova,
e lo stile è quello tipico dell'enfatico legale, si parla di "infame
documento," di "nascondersi dietro gonne o pantaloni," di "callido
riepilogo," di "furbesca ragna," di "sovvertimento che viene
dal convincimento," e di "letame dei pettegolezzi."
La denuncia per omicidio, secondo Lener, poteva esser fatta molto tempo prima
(fin dal luglio '70), ma per farla si è voluto aspettare 1'insediamento
del nuovo procuratore generale, mentre i magistrati di allora "avevano
vissuto la vicenda ora per ora, pagina per pagina e non avrebbero tollerato
inganni." Alla sua, di denuncia, Lener allega quaranta fascicoli tra cui
una statistica di tutti i suicidi avvenuti in un anno a Milano, di centoquattro
dei quali restano ignote le cause; sottolinea poi che "niente fu tralasciato
per l'accertamento dei fatti"; mentre in un altro allegato si scaglia contro
una certa stampa che, frugando appunto in quel tal letame, ha aiutato a mistificare
e distorcere la verità.
Il polverone si alza, infuriano le proteste. La stampa ` unanime nello scrivere
che per la prima volta nella storia giudiziaria c'è un avvocato che ne
denuncia un "altro per atti compiuti nello svolgimento del suo mandato,
accusandolo di essere il responsabile di quanto sottoscrive il suo assistito.
Si dimenticano però che un precedente c'è stato, e manco a dirlo,
ad opera di Lener, quando, qualche anno fa, egli denunciò in proprio
per circonvezione d'incapace un altro suo avversario, il prof. Mario Rotondi,
e la causa è ancora pendente.
Arteriosclerosi galoppante, rabbia senile? È questo certo il primo commento,
ma è anche un'ipotesi da non avallare, perché Lener segue invece
una sua logica precisa. Mette infatti a riparo Calabresi e il ministero degli
Interni che così restano dietro le quinte; non attacca la vedova Pinelli
che, sostenuta dall'opinione pubblica, è diventata il dignitoso simbolo
dell'intera vicenda; e tende a gettare le solite ombre e i soliti sospetti su
tutti gli elementi già noti, facendoli considerare come manipolati a
freddo da un avvocato. Il punto debole sta nel prestarsi ad esporsi in proprio
per un gioco che di sicuro va molto aldilà della sua persona, mentre
una mossa astuta è quella di metter giù duecento pagine che ricostruiscono
i fatti intesi a scagionare Calabresi e compagni, presentando cioè una
difesa sotto forma di accusa. (Numero dei suicidi compreso; ma quanti di questi
poveretti son volati giù da una finestra di notte in questura?)
22 settembre sera: La signora Pinelli reagisce immediatamente con un comunicato fermissimo: "Confermo che la denuncia da me presentata è l'espressione autentica del la mia convinzione sulle cause che hanno provocato la morte di mio marito, denuncia fondata su una precisa conoscenza degli atti, e riconfermo la mia volontà di andare fino in fondo affinché venga anche giudizialmente dichiarata la verità su come è morto Pino. Sono grata ai miei difensori per aver dato espressione ai miei pensieri e alla mia volontà, e rinnovo loro la mia piena fiducia." Anche l'avvocato Domenico Contestabile dichiara subito la sua solidarietà col collega: "La denuncia fu presentata materialmente dal solo professor Smuraglia, perché io ero assente, ma fu in realtà stilata da Smuraglia e da me, collegialmente." Aggiunge inoltre che l'azione di Lener "non può aver nessun pregio in diritto e non raggiungerà, in fatto, effetti intimidatori. Evidentemente, la vicenda Pinelli scotta tanto da far infrangere le regole del gioco giudiziale: evidentemente, come in Grecia anche in questo paese, si vuole che il banco di certi avvocati si avvicini sempre di più a quello degli imputati."
23 settembre: Il procuratore generale Bianchi d'Espinosa trasmette all'ufficio
Istruzione le duecentosette pagine della denuncia e i quaranta allegati con
i quali Lener sostiene la tesi che Smuraglia ha calunniato Calabresi e compagni.
Formalizzazione accompagnata dalla richiesta che la posizione del professor
Smuraglia "imputato" di calunnia venga esaminata dopo l'istruttoria
sulla morte dell'anarchico. Gesto ritenuto un po' troppo immediato. Insomma,
mentre per avere un fascicolo con in testa il nome Calabresi ci son voluti quasi
due anni, per Smuraglia son bastate poche ore. E perché, è la
domanda di molti, il procuratore non ha richiesto l'archiviazione della denuncia
per manifesta infondatezza? Poteva farlo, perché la denuncia è
presentata contro l'avvocato che nel processo è in veste di difensore,
mentre lui sapeva che la denuncia era della vedova; al punto che, perché
la convalidasse, l'aveva mandata a chiamare, ascoltandola per un'ora.
Sempre il 23 tanto la segreteria dell'Associazione dei giuristi democratici
quanto i redattori della rivista "Democrazia e diritto" presentano
una denuncia presso il Consiglio dell'Ordine degli avvocati e alla Procura generale
di Milano perché l'avvocato Lener sia cancellato dall'albo professionale,
e contro di lui si inizi un processo penale.
24 settembre: Il gesto di Lener è aspramente criticato un'altra
volta in via ufficiale. Infatti il Sindacato avvocati e procuratori di Milano
e Lombardia in un suo comunicato afferma tra l'altro che la denuncia di Lener
contro Smuraglia è anche un attacco al procuratore generale Bianchi d'Espinosa,
che "l'episodio costituisce l'ultimo, in ordine di tempo, di una serie
di tentativi già denunciati diretti a ostacolare il corso della giustizia
in un caso sul quale l'opinione pubblica ha il diritto che sia fatta piena luce,"
infine denuncia "l'intollerabile intimidazione che anima l'iniziativa e
che pone in pericolo il libero esercizio tanto della difesa quanto delle funzioni
della magistratura e così le basi stesse di un sistema democratico,"
infine chiede provvedimenti contro Lener al Consiglio dell'Ordine degli avvocati.
Contemporaneamente il dottor D'Ambrosio fa un'ispezione all'ospedale Fatebenefratelli,
interrogando infermieri, barellieri, portieri e agenti di PS, e a distanza di
ventun mesi dalla morte dell'anarchico, sequestra la cartella medica di Pinelli,
ignorata dall'inchiesta di prima (a proposito del "niente fu tralasciato
per l'accertamento dei fatti" sottolineato nella denuncia di Lener! ).
A ventun mesi dalla morte la cartella clinica rivela che, nel tentativo di rianimarlo,
al Pinelli è stata fatta una fleboclisi: di qui il segno d'agopuntura.
(Utile qui risentire l'interrogatorio del dottor Fiorenzano, reso in aula il
2 dicembre 1970.)
Giudice: Lei avrà redatto una cartella clinica, no?
Teste: La cartella clinica non venne fatta, credo, perché [Pinelli]
rimase sempre in Pronto Soccorso, e il decesso avvenne poco dopo l'una, nonostante
il trattamento. Quindi piú avanti nell'interrogatorio:
Giudice: Allora non venne redatta una cartella clinica poiché...
Teste: Le cartelle si fanno quando si ricoverano in un reparto; quando
rimangono in Pronto Soccorso no. (E se la cartella adesso c'è, vuol dire
che l'avrà fatta l'anestesista.)
26 settembre: Contrattacco di Lener che querela il Sindacato degli avvocati e procuratori di Milano, minacciando inoltre un'azione legale contro chi ha chiesto la sua radiazione dall'albo.
27 settembre: Risposta del professor Smuraglia, che manda una sua memoria
al giudice istruttore. Memoria che "non è e non vuol essere un'autodifesa
poiché un'aggressione come quella dell'avvocato Lener si distrugge e
si svaluta da se stessa, essendo ben chiari tutti gli obiettivi non solo giudiziari
che si propone." Non vuole entrare nel merito delle assurdità di
cui Lener lo accusa, ma non si sente di non rilevare "la profonda perfidia
con cui, sotto le parvenze di un certo qual rispetto per la vedova Pinelli,
in realtà la si colpisce ancor più duramente, quantomeno sul piano
morale." E qui ricorda quello che Lener finge di dimenticare, cioè
che fin dall'epoca in cui aveva altri legali, la signora Licia ha sempre sostenuto
con fermezza che la tesi del suicidio era assolutamente inaccettabile e che
occorreva accertare la verità fino in fondo e perseguire i responsabili.
Adesso la si vuol far passare per una specie di minorata o, peggio, di "plagiata,"
mentre anche l'avvocato Lener non può non essersi accorto nell'aula del
processo Baldelli "della presenza pressoché costante della vedova
Pinelli, il cui sguardo deciso e implacabile è rimasto impresso a caratteri
indelebili nella mente di tutti coloro che assistevano allo spettacolo miserando
delle contraddizioni e delle. incertezze di quanti non testimoni avrebbero dovuto
essere, ma imputati."
Curioso, sempre secondo Smuraglia, che Lener abbia saputo che il documento era
controfirmato anche da lui (lo fece, per autenticarlo, al momento della consegna
a Bianchi d'Espinosa); non è forse un atto coperto dal segreto istruttorio?
E infondata, oltreché risibile, l'accusa di aver aspettato a presentare
la denuncia della vedova in concomitanza con l'arrivo a Milano di un nuovo procuratore
generale. Perché l'azione decisiva la si è fatta quando stavano
per andare a fondo gli accertamenti nel processo contro Ba1dclli; e tanto meglio
se in quel momento si stava insediando un procuratore generale totalmente estraneo
ai fatti.
Quanto al reato di calunnia, esso esiste quando il presunto calunniatore incolpa
qualcuno che "egli sa innocente. " Ora, secondo Smuraglia, il fatto
è che non c'è nessuno io Italia (escluso, forse, l'avvocato Lener)
che sia certo dell'innocenza di Calabresi e compagni. Non lo era, come si è
visto, il tribunale di Milano; non lo era il procuratore generale, il quale,
pur chiedendo di contestare solo l'omicidio colposo, ha disposto la riesumazione;
non lo erano gli studiosi che criticarono la prima perizia; non lo è
nemmeno l'attuale giudice istruttore, che sta compiendo indagini mai condotte
prima; non lo è, come è ormai stranoto, la maggior parte dell'opinione
pubblica. E "come è possibile, allora, sostenere che solo il sottoscritto
o la signora Pinelli abbiano o debbano avere la consapevole certezza che Calabresi
e gli altri sono innocenti? "
29 settembre: Sempre a un anno e mezzo di distanza alla Vigilanza Urbana
viene sequestrato dal dottor D'Ambrosio un documento che avrebbe dovuto essere
in mano alle autorità il giorno dopo la morte di Pinelli: è il
registro delle chiamate delle autoambulanze richieste dalla questura. (Ricordarsi
qui il controcanto di Lener nella sua denuncia, quando parla dei magistrati
d'allora che "avevano vissuto la vicenda ora per ora, pagina per pagina.")
Ed ecco che, oltre a tutto il resto, di una pagina si son dimenticati: precisamente
di quella che nel registro riguarda il 16 dicembre, da cui risulta una chiamata
da parte della questura alle 0,01. (Ricordarsi qui il primo e unico rapporto
di Allegra diretto alla procura della repubblica in cui si dichiara che l'anarchico,
durante un interrogatorio condotto da Calabresi, si era gettato dalla finestra
alle 0,15.) Mentre, stando all'orario delle chiamate segnate sul registro, risulterebbe
che l'autoambulanza ha raggiunto un vero e proprio record di velocità.
Chiamata alle 0,01, corsa in questura da piazza 5 Giornate, raccolta del moribondo
nel cortile e suo trasporto all'ospedale, dove viene ricoverato alle 0,1.0.
(Qui ricordarsi della deposizione del teste Nunzio Bovolenta, autista dell'ambulanza,
secondo il quale la sirena aveva scaricato la batteria, così la macchina
non riusciva più a partire dal cortile della questura e furono in molti
a dover aiutare a spingerla. Quanto al capo servizio Flavio Peralda, in tribunale
disse che cominciò sul luogo della caduta a far un po' di massaggio cardiaco
al Pinelli "già due o tre colpi in cortile.")
Ancora documenti, ma di solidarietà con Smuraglia da parte della FESAPI
(Federazione sindacati avvocati e procuratori italiani); del gruppo repubblicano
del Consiglio regionale lombardo, che parla di "inammissibilità
di tali azioni" (denuncia di Lener), e delle segreterie provinciali milanesi
dei sindacati metallurgici.
30 settembre: Presente il procuratore generale d'Espinosa, il dottor
D'Ambrosio interroga la signora Pinelli. Tema del colloquio: la ricostruzione,
minuto per minuto, del tempo trascorso da lei dopo il suo arrivo al Fatebenefratelli
la notte del 15, quando suo marito era già morto da venti minuti. Si
parla anche dei vestiti del morto che non sono mai stati ritrovati. (Nel processo
"Calabresí-Lotta continua" i difensori avevano chiesto più
volte che venissero cercati ed esaminati per riscontrarvi la corrispondenza
di eventuali lacerazioni con le lesioni; accolta dal tribunale la richiesta,
ma tutto saltato in seguito alla ricusazione.) Viene interrogato anche l'avvocato
Marcello Gentili.
Né accenna ad acquietarsi la polemica tra gli avvocati. Lener manda al
giudice venti pagine che vogliono, essere "una replica dell'esposto di
Smuraglia per fronteggiare una coalizione che tende a degradarmi a livello di
tutte le indegnità." Per concludere, ostinatissimo, che "lo
Smuraglia ha tutto distorto, mutilato, falsato," che "abbiamo attinto
alle stesse fonti attraverso uno studio che i rispettivi clienti non potevano
fare e non hanno fatto, arrivando a due conclusioni diametralmente opposte:
lo Smuraglia ha dimostrato che i sette accusati sono omicidi e quanto altro.
lo ho dimostrato che sono innocenti e calunniati. Quel materiale artefatto lo
Smuraglia lo ha sottoposto alla sua cliente ottenendone la firma: dunque l'ha
ingannata. Il mio materiale l'ho firmato da solo assumendone la responsabilità.
Ripeto: in questo la vedova Pinelli è stata ingannata, anche se dice
di no." Convinto lui, ecco tutto.
2 ottobre: Conferenza-stampa dell'avvocato Marcello Gentili che si rivede
con molto piacere, costante il sorriso sulle labbra, azzurro quel cupo ardore
degli occhi, pesantissima, come al solito, -la sua gran borsa in mano. Anche
tr nome dell'avv. Bianca Guidetti Serra, ha appena presentato un'istanza al
tribunale per chiedere che continui il processo "Calabresi-Lotta continua,"
di cui è stata fissata l'udienza per il 6 ottobre. All'istanza ha poi
allegato un parere "pro veritate" firmato dai professori Mario Chiavario,
straordinario di procedura penale all'università di Perugia, Oreste Dominioni,
assistente di procedura penale all'università di Milano, Gaetano Pecorella,
incaricato in istituzioni di diritto e procedura penale all'università
di Milano, e Metelio Scaparone, incaricato di procedura penale all'università
di Cagliari. Due dozzine di cartelle in cui si arriva a due conclusioni: che
la ricusazione non può impedire il processo, e che un altro processo
(cioè quello che dovrebbe seguire alla denuncia della signora Pinelli)
non può passar davanti al precedente "Calabresi-Lotta continua.
"
Visto poi il capo d'imputazione contestato a Calabresi dal procuratore generale,
gli avvocati Gentili e Guidetti Serra prendono atto: 1) che esiste una presunzione
di suicidio che trascura quanto è stato acquisito e consacrato nei verbali
dell'istruttoria dibattimentale del processo in cui sono difensori; 2 ) che
si arriva a descrivere le ragioni che avrebbero indotto l'anarchico all'estremo
gesto; 3 ) che si ipotizza una sua più o meno diretta responsabilità
nella strage di Milano (decisamente esclusa nell'istruttoria condotta su tali
fatti) e in altri attentati dinamitardi di cui Pinelli non è mai stato
sospettato. Una presunzione di suicidio, dunque, che poggia sulle responsabilità
nella strage, che sembra escludere l'opportunità di ogni altra indagine
sulle cause della sua morte e implicare un'archiviazione della denuncia della
vedova.
Mentre l'opposta presunzione di omicidio volontario, avanzata nella denuncia,
trova un fondamento in molti elementi fra cui tutte quelle reticenze e insanabili
contraddizioni sulla versione dei fatti. "In relazione a questa presunzione
di omicidio volontario, abbiamo chiesto di provare, fin dalla prima udienza,
elementi di fatto tendenti a verificare un collegamento fra l'omicidio di Giuseppe
Pinelli e la strage, collegamento evidentemente opposto a quello che viene ipotizzato
ora dall'accusa. E tutto ciò diventa importantissimo non solo per la
vicenda Pinelli, ma anche per la tutela e l'esercizio dei diritti di difesa
dell'imputato Pio Baldelli." Secondo Gentili, i due processi potrebbero
andare avanti insieme, a meno che l'imputazione a Calabresi non venisse aggravata,
e allora la difesa si riterrebbe soddisfatta.
I giornalisti interrogano, l'avvocato risponde. Non si fa sempre più
oscura la dibattuta questione degli orari? Certamente, se si calcola che il
"rapportino" di Allegra segna il volo dalla finestra a un quarto d'ora
dopo la mezzanotte e il registro delle chiamate delle autoambulanze segna invece
la chiamata della questura a un minuto dopo la mezzanotte (cioè ben quattordici
minuti prima). E adesso Gentili comunica quel che è scritto nella relazione
dell'ispettore capo di PS Elvio Catenacci, inviata il 28 dicembre 1969 al capo
della polizia: "Il fatto avvenne," egli scrive, "intorno alle
0,04," cioè tre minuti dopo la telefonata per l'autoambulanza. Invece
i tre volontari della Croce Bianca, Paolo Chersi, Nunzio Bovolenta e Claudio
Peralda hanno testimoniato che la telefonata è avvenuta senza alcun dubbio
prima della mezzanotte.
Ritorna dunque l'inquietante interrogativo: l'autoambulanza è stata chiamata
prima di quello che il Catenacci definisce "il fatto"? Altro mistero:
i vestiti. Al Fatebenefratelli il Pinelli aveva addosso giacca e pantaloni,
mentre all'obitorio era in mutande e maglietta. Dove sono finiti? Se non vengono
reclamati dalla famiglia, pare che dopo un anno vengano bruciati. Ma la madre
di Pinelli ne fece richiesta all'obitorio per sentirsi rispondere che per averli
indietro ci voleva un decreto del giudice istruttore (e pare che non sia vero):
Va annotata così fra le insensate omissioni dei primi periti, anche quella
di non aver subito richiesto ed esaminato gli indumenti di Pinelli.
5 ottobre: Che finalmente stia filtrando quel tal raggio di luce in
tutta l'oscura vicenda? C'è sempre chi continua a parlare di fumo negli
occhi, affermando che non bisogna fidarsi troppo di queste schiarite. Ma una
cosa positiva succede: prendendo finalmente sul serio la denuncia della vedova
Pinelli, il giudice D'Ambrosio invia sei avvisi di reato ("in relazione
a una denuncia per omicidio volontario") contro Luigi Calabresi, e i sottufficiali
di PS Panessa, Caracuta, Mainardi, Mucilli e il capitano dei carabinieri Savino
Lo Grano, cinque testimoni-chiave, questi ultimi, che diventano di colpo imputati
anche loro.
Chiaro che il magistrato ha in mente di allargare al massimo il campo delle
indagini, contemplando la possibilità che queste abbiano esiti diversi,
e anche più gravi, rispetto al loro punto di partenza. Nel suo documento
inoltre egli parla di "atti processuali" rispetto ai quali la legge
riconosce determinati diritti alle parti private "cioè la prossima
[ahimè quanto ritardata!] esumazione delle spoglie del Pinelli con relative
perizie e l'esperimento giudiziale che consiste nel lancio di un manichino di
gomma dalla finestra dalla quale il Pinelli è precipitato."
E Lener? Ormai ha deciso di sparare in tutte le direzioni. Manda infatti la
sua solita bollente memoria per dire che la cartella clinica non è stata
mai chiesta prima perché il medico di guardia Nazzareno Fiorenzano "è
stato reticente durante tutti i suoi interrogatori e ha mentito al dibattimento
nel processo 'Calabresi-Lotta continua'" (per la verità era stato
uno dei pochissimi testi credibili e coerenti dal principio alla fine). Com'è
noto, il Fiorenzano aveva detto che la cartella clinica lui non l'aveva fatta.
E se adesso l'hanno trovata in archivio, vuol dire che è stata redatta
poi nel reparto rianimazione, e non nel Pronto Soccorso dov'era lui il capoturno.
Comunque quest'ultimo ha deposto il 2 dicembre 1970; e prima di allora, cioè
a un anno di distanza dalla morte, nessun magistrato s'era mai sognato di chiederla.
E Lener naturalmente vuole iniziare un'azione penale contro Fiorenzano.
Gli avvocati per i quattro sottufficiali sono già pronti. Il Lo Grano
si è scelto l'avvocato Armando Cillario; quanto a Calabresi, si è
costituito un vero collegio. Oltre a Lener infatti, ora ha anche i professori
Giacomo Delitala e Alberto Crespi. Sono tutti avvocati costosissimi: chiaro
quindi che o difendono gratis Calabresi (e in quanto professori, gli ultimi
due avranno grossi problemi coi loro studenti), se no sono pagati dal ministero.
Per ora fermiamoci qui, in attesa dei soliti "nuovi clamorosi sviluppi,"
che certo non mancheranno se il giudice D'Ambrosio continuerà a dimostrare
come son state fallose le "oneste fatiche" dei precedenti magistrati,
e finché sarà di scena l'avvocato Lener. (Di una cosa si può
esser sicuri: che non si è fermato, ma quale sarà il suo nuovo
bersaglio? Non gli resta che il procuratore generale, anzi circola la voce che
stia preparando un dossier contro di lui.)
Resta aperta così una vicenda alla quale in questi due anni mi sono estremamente
appassionata, che mi ha colpito e inquietato come a poco a poco ha colpito e
inquietato un sempre crescente numero di persone. E quel che é risultato
è un'abbastanza,ordinata successione di fatti (con ripetizioni qualche
volta ossessive, ma utili, credo, a quanti nella vicenda non si erano calati
in profondo o a chi, magari, traumatizzato dalla lettura, potrebbe spesso pensare
di non aver afferrato bene). Se qualcuno però voleva la rivelazione clamorosa,
qua dentro non l'ha trovata.
La rivelazione vien fuori dal nudo e plumbeo racconto con tutti i suoi incredibili
accostamenti ed intrecci, sotterfugi e passi indietro. Credo infatti che agli
onesti questo libretto apparirà addirittura un "giallo" aberrante,
anche perché in un'epoca in cui come niente si sfreccia sulla luna e
le più complete diagnosi mediche son fatte dai calcolatori, leggendolo,
essi verranno a contatto con una realtà delle più abnormi, offensiva
per il buon senso, ripugnante alle coscienze.
Una realtà fatta da personaggi che rimbalzano di pagina in pagina, cupamente
efficienti in un carosello di ipocrisie, violenze e menzogne. Ma non bisogna
lasciarsi ingannare; perché le responsabilità non vanno cercate
soltanto nel cortile o nelle stanze di via Fatebenefratelli: per capir bene
la vicenda, è necessario andar più in alto a scovarle, risalendo
a tutto ciò ché è accaduto in Italia dal G8 ad oggi.
È necessario risalire a quegli anni di vera e propria febbre aziendale,
a quando, come sé si svegliassero da un lungo sonno, gli operai mettono
in discussione bruscamente la loro condizione; bisogna rifarsi alle contestazioni
davanti ai cancelli, alle rivendicazioni non soltanto sindacali ma politiche,
ché coinvolgono anche il problema delle riforme, alle dimostrazioni e
ai cortei che a spinte di centomila per volta; paralizzano le città,
alle vaste azioni di volantinaggio che chiedono la partecipazione di tutti,
ai sit-in di operai in tuta, alle serrate, alle sospensioni, agli scioperi che,
cominciati con quello generale del 25 settembre '69, si susseguono con ritmi
precisi, ai primi schieramenti di polizia armata davanti alle fabbriche. Finché,
quasi a firmare un accordo di lavoro comune, per la prima volta gli operai entrano
nell'università; finché si arriva allo sciopero generale in tutta
Italia (15 ottobre), allo sciopero generale di Milano per il caro-vita con gran
comizio di sindacati al Lirico; e la data é il 19 novembre, il giorno
degli incidenti provocati dalla polizia e della morte di Annarumma.
Il novembre porta lo sciopero dei metalmeccanici a Roma, ma anche i primi arresti
e le prime denunce; anzi 1e denunce diluviano (sono quattordicimila in tutta
Italia), mentre centomila sono i metalmeccanici che in piazza del Duomo protestano
per l'arresto di quattro operai. Il 9 dicembre si firma l'accordo tra il sindacato
metalmeccanici e l'Intersind, e sta per concludersi anche quello con la Confindustria
quando il 12 dicembre scoppiano le bombe di piazza Fontana.
Scoppiano una volta che gli operai hanno vinto la loro battaglia, quando gli
strateghi della tensione hanno già lavorato a puntino; basta con questi
operai che mandano alla rovina il paese, basta coi disordini, le pretese e gli
ingorghi del traffico, basta col caos, non è ora di finirla con questi
gruppuscoli extraparlamentari che si infiltrano nelle fabbriche, coi cattolici
di sinistra che inquinano il governo, coi comunisti che soffiano sul , fuoco?
E si fanno ad alta voce e sui giornali i discorsi che si facevano da due anni
più o meno sottovoce: ci vuole la mano forte, il pugno di ferro, l'uomo
forte e perché no i colonnelli?, al tempo dei fascisti certo non c'erano
gli scioperi. È al funerale di Annarumma che vien gettato il seme della
maggioranza silenziosa, ecco i labari fascisti, ecco l'ex comandante della Muti,
insieme ai borghesi benpensanti in paltò di cammello, ecco la provocazione
della polizia, il clima del linciaggio.
Sono bombe di destra, lascia capire l'autrice di questo Pinelli sull' "Espresso"
del 21 dicembre '69, e un gruppo di degni milanesi s'infuria, addirittura fanno
un plenum per deplorare la provocante supposizione, si accusa Li sottoscritta
di gettar fango sulla parte ancora sana della nazione. (Finché il 4 agosto
1971 anche sul "Corriere della Sera" si potrà leggera a firma
di Alfredo Pieroni e a proposito dei "fanatici del colpo di stato;"
che "la strategia della tensione" è stata "tipicamente
fascista," che "Borghese aveva sicuramente trovato dei finanziamenti.
Aveva ordinato ai suoi uomini di infiltrarsi in movimenti estremisti della parte
opposta: soprattutto anarchici, col compito di aumentare la tensione nel paese
e produrre una situazione di allarme e di aspirazione all'ordine. Una serie
di date potrebbe avere correlazioni segrete. Borghese andò organizzandosi
tra la primavera e l'inizio dell'estate del '69. Il fronte `Italia Unita' si
costituì il 7 novembre. Il 19 moriva la guardia Annarumma. Il 12 dicembre
ci fu la strage di piazza Fontana, che assai probabilmente fu dovuta a un calcolo
sbagliato, ma che aveva tutta l'aria di voler essere una delle tante mosse calcolate
per aumentare la tensione.")
Non sono dunque una combinazione queste bombe, in questa data, e non è
una combinazione che gli autori siano subito e come sempre cercati fra gli anarchici,
in un gruppo da sempre non protetto, più confuso degli altri, comunque
la parte più debole dello schieramento di sinistra, il gruppo che durante
tutto il '69 è stato accusato di molteplici attentati contro chiese,
stazioni di carabinieri, carceri e caserme dell'esercito, tutti attentati che
in un secondo tempo sono puntualmente risultati opera di neofascisti. E tra
gli atti, naturalmente, quello del 25 aprile, da cui, tanto per cambiare, sono
risultati estranei gli anarchici, e quelli dell'agosto sui treni, per cui sono
stati indiziati i tre fascisti veneti. Il telegramma di Saragat subito dopo
la strage è una conferma dei sospetti generali. "L'attentato di
Milano," così comincia, "è un anello di una tragica
catena di atti terroristici che deve essere spezzata ad ogni costo per salvaguardare
la vita e la libertà dei cittadini."
Un'altra volta dunque gli anarchici funzionano da capro espiatorio: si prende
Valpreda e Pinelli muore. Chi ha messo le bombe sa come è morto Pinelli
e perché. Pinelli è volato dalla finestra perché quella
sera lì serviva un morto, dato che le bombe erano due: una l'aveva messa
il Valpreda ma l'altra alla Banca commerciale? (Non si dimentichi che a meno
di un'ora di distanza dalla morte del ferroviere, il questore aveva mostrato
a Rolandi una foto di Valpreda, e: "Bravo Rolandi! " gli aveva detto,
dandogli un buffetto sulla guancia dopo .il riconoscimento, "Hai finito
di fare il tassista. Ti sei sistemato.") Pinelli serviva come l'accusatore
di Valpreda e non sarebbe finito così se si fosse prestato a calunniarlo.
O se no serviva come suicida per dar credibilità alla tesi che a metter
le bombe erano stati proprio gli anarchici.
Pinelli è infine un simbolo che va al di là del suo tremendo destino.
P, la prova che la giustizia non è uguale per tutti: da una parte lo
stato coi suoi baluardi da difendere, dall'altra un cittadino senza diritti,
ed è proprio per questo che, per la prima volta nel dopoguerra, il suo
caso ha mosso in modo così massiccio una così larga schiera di
opinione pubblica democratica. I baluardi dello stato non si toccano, la magistratura
non si discute (ed è per questo che vien messa in crisi dalla sua parte
migliore), la polizia è al di sopra di ogni sospetto, va coperta, va
giustificata.
La scoperchiatura della tomba (che, sia ben chiaro, a tanto tempo di distanza,
non si sa che valore possa avere) è un fatto di principio. Non l'hanno
aperta all'inizio quando sarebbe stato utile, perché sarebbe stato come
andar contro la sacralità del sistema. Mentre da tutto l'insieme (ricusazione
compresa) si è visto che Lener non difende soltanto Calabresi, ma una
posta molto più grossa, giusto lo stato con le sue istituzioni. E chi
mette in dubbio stato e istituzioni ha la peggio, tanto nel '69 che nel '71.
Perché, come allora anche nel '71 sono in pericolo le libertà
assicurate dalla Costituzione della repubblica, la parola "riforme"
fa ancora paura, e, come due anni fa, oggi incombono un'altra volta grossi tentativi
di autoritarismo e infiltrazioni restauratrici a tutti i livelli.
Per questo il caso Pinelli è importantissimo. Importantissimo perché,
se è necessario che gli scandali avvengano, è colpevole lasciarli
smorzare in un clima di rassegnato torpore. Pinelli è stato la vittima
innocente di un gioco più vasto e più crudele, anche sul quale
va fatta luce al più presto, cioè il caso Valpreda. Ristabilire
la verità sulla stia morte è un dovere politico e morale; è
indispensabile per aiutare a far sì che la giustizia in Italia non sia
soltanto quella statua melensa ritta nel cortile di un tribunale che ai è
rivelato incapace di assolvere i suoi compiti. Ed è la premessa per evitare
che vi sia una seconda vittima innocente: Pietro Valpreda.