Felicità e società
di Mirko Roberti

Che cos'è la felicità? Quali sono le considerazioni perché la felicità sociale si realizzi? Questi gli interrogativi che animano il nuovo saggio di Gian Paolo Prandstraller "Felicità e Società" edito da Comunità.
Docente di sociologia alla facoltà di Scienze Politiche di Bologna, Prandstraller è autore di numerosi saggi e ricerche. Tra i suoi libri ricordiamo
I tecnici come classe (1959), Intellettuali e democrazia (1963), Valori e libertà (1966), Funzioni e conflitto (1970), L'intellettuale-tecnico e altri saggi (1972).
Dopo una lunga militanza nell'area socialista Prandstraller si sta avvicinando al pensiero libertario ed anarchico. Sarà tra i relatori al prossimo convegno internazionale di studi sull'autogestione, di cui diamo comunicazione nella seconda di copertina.

Che senso ha occuparsi oggi della tematica della felicità?

Può apparire frivolo parlare di felicità in un momento nel quale il mondo attraversa una gravissima crisi. Ma in realtà questa tematica è una specie di sfida al modo di pensare di coloro per i quali l'unica cosa importante è il potere. Sottolineare che l'uomo dev'essere felice significa mettere in evidenza che le esigenze umane vanno poste in primo piano, e che le varie posizioni ideologiche devono fare i conti con queste, anziché pretendere di regolarle e dominarle in modo estrinseco e autoritario.

Per caso, il tuo interesse per la felicità può essere messo in relazione con l'attuale riflusso verso il privato?

No. Non mi interessa granché la questione del pubblico e del privato oggi largamente dibattuta. Anche il privato infatti è soggetto a regole ferree nella società attuale: quindi la sua distinzione dal pubblico è in gran parte pretestuosa e comunque non risolve il problema della libertà dell'individuo. Per me quello che conta è un altro binomio, l'individuale e il sociale. Voglio mettere in evidenza che i maggiori sistemi sociali in questo secolo - da una parte il capitalismo tecnocratico, dall'altra il collettivismo burocratico marxista - hanno dato l'ostracismo alle reali esigenze dell'individuo, e questo spiega perché la problematica della felicità ha in pratica cessato di esistere nel mondo contemporaneo, mentre costituì un punto centrale di riflessione per gli illuministi, gli utilitaristi, gli anarchici, ed anche i neopositivisti del circolo di Vienna.

A proposito del nostro secolo, come giudichi gli orientamenti etici di esso?

Esiste una vistosa sfasatura tra l'epistemologia realizzata nei primi decenni del novecento - mi riferisco in particolare a uomini come Wittgenstein, Schlick, Carnap, Popper, Einstein ed altri - un'epistemologia che dichiara e accetta la relatività del sapere filosofico e scientifico, e l'etica praticata finora dal nostro secolo, basata su concetti assoluti e in molti casi mistici. La posizione relativistica degli uomini che ho citato contrasta in modo evidente con i principi del capitalismo e del marxismo, fautori di un'etica della soggezione a entità come la grande impresa, il partito, la classe, lo stato ecc. Uno dei problemi fondamentali del nostro tempo è pertanto quello di creare un'etica coerente con i principi relativistici messi a punto dall'epistemologia fin dagli inizi del secolo.

Sta bene: ma non ti sembra che porre la tematica della felicità significhi favorire il disimpegno?

No, assolutamente. Il mio concetto di felicità è infatti legato all'impegno sociale, giacché la felicità individuale non può essere attuata in un contesto sfavorevole allo sviluppo dell'uomo. Quindi, la tematica della felicità è un punto di passaggio obbligato per qualunque posizione ideologica che voglia in futuro trascendere le attuali condizioni di eterodirezione e di dominio che impediscono questo sviluppo.

Che cosa intendi esattamente per felicità?

Intendo la realizzazione da parte dell'individuo delle proprie potenzialità e virtualità fisiche e mentali, cioè un processo di crescita e di attuazione del sé, che dia all'essere umano il senso della pienezza della vita. Questo processo non può non essere problematico perché non si dà crescita senza il continuo superamento di innumerevoli problemi. Per questa ragione esso deve procedere di pari passo con gratificazioni immediate e non faticose, cioè con "piacere", che sostengono lo sforzo dell'individuo dandogli la carica necessaria a sopportare le inevitabili difficoltà dell'esistenza. Concepisco il piacere - cioè la fruizione non problematica di fattori fisici, pulsionali e culturali - come un elemento complementare e necessario rispetto al processo di cui ho parlato.

Qual è allora il progetto sociale che, secondo te, può condurre alla felicità?

Si tratta di togliere di mezzo l'oppressione che la struttura sociale esercita sull'individuo impedendogli di sviluppare le sue virtualità. In altri termini si tratta di ridurre, fino al limite del possibile, il potere nelle sue varie forme: non soltanto quelle ricollegabili al possesso dei mezzi di produzione da parte di pochi individui, ma anche quelle che sono la conseguenza della strumentalizzazione della cultura, dell'appropriazione della delega da parte dei partiti, degli abusi della burocrazia e della tecnoburocrazia ecc.. La soluzione generale non può essere che di tipo autogestionale, per tale intendendosi un processo che non riguarda solo le imprese di produzione, ma ogni settore dell'azione sociale. L'autogestione cioè è un obiettivo complesso e polivalente che non può essere attuato con un colpo di bacchetta magica.

Ritieni allora di identificarti con il filone del pensiero libertario che proprio nel progetto dell'autogestione ha il suo punto di forza?

Se per pensiero libertario tu alludi ai contributi teorici dei classici dell'anarchismo, io mi ritengo ad essi debitore di molte idee. Penso che certi punti di vista di questi pensatori avranno una grande risonanza in avvenire, e prevarranno decisamente sul pensiero marxista che ha dominato il dibattito socio-politico del nostro secolo. La rivalutazione delle esigenze dell'individuo e dei suoi diritti umani porterà alla convinzione che ogni mutamento dev'essere maturato nelle coscienze dei singoli e non imposto dal di fuori con dottrine di tipo totalitario e mistico. L'autodirezione, che è alla base del pensiero anarchico, presuppone che il processo rivoluzionario sia inteso soprattutto come presa di coscienza, che nulla può essere risolto con la conquista del "palazzo d'inverno", mentre tutto è risolvibile con la graduale riappropriazione da parte dell'individuo delle facoltà usurpate dal potere, a tutti i livelli dell'esperienza collettiva.

Ritieni che l'autogestione abbia un riflesso politico e in che termini lo configuri?

Accanto all'autogestione nel settore economico esiste, come ho già detto, l'autogestione dei rapporti politici. Questi ultimi attualmente sono monopolio esclusivo dei partiti politici, che tesaurizzano la delega dei cittadini, così come i grandi imprenditori tesaurizzano i mezzi di produzione. I cittadini devono gradualmente rientrare in possesso dei loro diritti politici. Il mezzo atto a realizzare questa riappropriazione è l'introduzione di istituti di democrazia diretta, tanto nel settore legislativo quanto in quello amministrativo.

Leggendo il tuo libro si ha la netta sensazione che le posizioni ivi espresse siano il frutto di una lunga e complessa riflessione intellettuale. Come sei arrivato ad esprimere con tanta chiarezza queste posizioni?

Personalmente ho sempre avuto un orientamento libertario. Tuttavia il principale tramite che mi ha condotto alle conclusioni riassunte in "Felicità e società" è stato una lunga ricerca condotta nel campo del lavoro intellettuale, e la constatazione che quest'ultimo in quasi tutti i contesti non è affatto libero. Questa constatazione, col tempo, è diventata per me stimolo per una revisione critica delle ideologie dominanti, che ho effettuato rapportando queste ultime ai loro effetti. L'albero si giudica dai suoi frutti: dunque se certi frutti sono aberranti, anche l'albero dev'essere cattivo. Naturalmente tutto ciò ha richiesto parecchio tempo, anche perché l'ambiente culturale italiano era, ed è ancora in gran parte, poco favorevole alla messa in discussione di certi postulati, soprattutto di quelli marxisti che hanno dominato negli ultimi decenni. Ora mi sembra che comincino a delinearsi migliori condizioni per un pensiero non assiomatico. E bisogna approfittarne.

L'etica della felicità

Sotto il titolo suggestivo di Felicità e società Gian Paolo Prandstraller ha riassunto e posto in forma problematica la complessa questione del rapporto fra individuo e società partendo da una prospettiva decisamente libertaria. Dopo aver analizzato a grandi linee l'approccio del pensiero moderno verso il tema della felicità dei singoli individui, l'autore constata il grande valore critico e scientifico del pensiero anarchico che più di qualsiasi altro ha saputo rispondere a questo proposito. Specificamente il nodo imprescindibile del rapporto armonico fra esigenze individuali ed esigenze collettive, fra libertà dei singoli e necessità sociale, è visto ed analizzato nella prospettiva di un superamento di ogni modello sociale autoritario, segno comune della società capitalista e della società "socialista". Si tratta, per Prandstraller, di rovesciare completamente la prospettiva fin qui seguita, che sacrificava i diritti ed i bisogni dell'individuo alle grandi entità burocratiche di qualsiasi tipo: chiesastiche, partitiche, statali, ecc., ponendo decisamente in primo piano il valore irriducibile dell'individualità umana. Questo significa attuare un processo irreversibile di destrutturazione per arrivare all'abolizione del principio di autorità: da qui la proposta di un regime autogestionale teso al superamento della divisione gerarchica del lavoro e dei ruoli sociali, fonti strutturali di ogni società gerarchica.

Tutto ciò implica per l'autore la fondazione di un'etica che abbia come scopo principale la realizzazione della felicità sia individuale che collettiva. Ma dal momento che tale felicità è raggiungibile solo attraverso il superamento incessante di sempre nuovi e diversi problemi, si ha che solo una società libera, aperta, infinitamente articolata e complessa, insomma solo una società libertaria, può attuare la felicità umana. Vale a dire che solo l'anarchismo è in grado di realizzare questo fine supremo, perché è l'unico movimento che ha posto al centro della sua attenzione il rapporto fra giustizia sociale e libertà individuale, nel senso che non si può dare l'una senza attuare immediatamente l'altra.