La eccezionale lucidità degli interventi politici di Camus è il risultato di un’ostinata presenza al proprio tempo e di un’esigenza radicale di verità. Gli intellettuali barano, Camus rifiutava di  barare. Ma non barare (non mentire a se stessi e agli altri) è difficile, è una fatica, è la rischiosa opzione che può mettere contro di
noi il gruppo, il clan, il partito; è la capacità di resistere alle idee dominanti nel proprio tempo, concedere alle quali porta mille vantaggi; è il camminare senza farsi
trascinare, e magari esaltare, dall’onda; è avere una propria morale e filosofia, un proprio modo di intendere il rapporto tra quotidianità e progetto. Troppe sono le possibilità che ci si offrono a lasciarci tirar via dalla responsabilità: il successo, il potere; e anche l’illusione di una propria diversità, di una propria superiorità in
grado di «gestire» o di raggirare la storia. Non sono stati molti gli intellettuali che negli anni feroci delle scelte imposte, capitalismo o fascismo o comunismo, hanno saputo dimostrare una motivata indipendenza e respingere i ricatti – del quieto vivere, della «carriera», della fede, della doppia verità. Molti di loro sono stati uccisi o si sono uccisi perché hanno rifiutato un’appartenenza a un’ideologia o si sono accorti della sua fallacia, non hanno accettato la violenza della sua
attuazione pratica. Nel grasso Occidente, nella vile Europa di oggi, a discettare sulle scelte di ieri sono vecchi e giovani propagandisti del capitale, l’unico «sistema» rimasto, cui giova rimproverare chi ieri ha ceduto per giustificare la loro attuale adesione, il loro conformismo dentro una società che ha raffinato a dismisura la sua produzione di stupidi manipolabili nella perfetta orizzontalità delle finte preferenze, tutto dentro un mercato fatto di ricercati o grossolani florilegi di derrate, di massa o «esclusive». Rispetto a ieri è forse più facile pensare con la propria testa, oggi, in Europa? È meno rischioso, forse, ma certamente è più raro, e probabilmente non è mai stato storicamente così raro, anche se è tipico di questa epoca illudersi tutti di avere una testa, nel mentre siamo condizionati e plasmati dai media e dai loro succedanei, scuole e chiese, senza sforzo, gli intellettuali più facilmente che gli altri perché mai come oggi essi sono stati utili al potere, i mediatori indispensabili del consenso portato sullo stato di cose  presente, sull’unica proposta rimasta di gestione della società, su quella paradossale forma occidentale della democrazia che è la democrazia totalitaria, il dominio per il tramite delle maggioranze consenzienti, divise al loro interno per corporazioni, ciascuna con i propri privilegi e mobilitate in difesa di quelli, ma mobilitabili tutte insieme in difesa del comune sistema. Il primo capolavoro di Camus si chiamò Lo straniero, si era nel ’42 e si trattò della più radicale dichiarazione di non-appartenenza che la letteratura potesse dare. Il mito di Sisifo, negli stessi anni, parla del suicidio, per Camus allora il primo problema di ogni filosofia e dell’assurdo che ci fa prigionieri. Al gioco sociale delle accettazioni, adesioni, sottomissioni il protagonista dello Straniero oppone la sua renitente nudità: ogni costruzione sociale, ogni morale codificata è di per sé falsa, falsificante. Nel ’47 La peste mostra più personaggi che reagiscono all’assurdo. La peste (che è anche il nazismo nel suo momento di trionfo, che è natura e che è storia) ha colpito la città, è un male che la divora, contro il quale occorre reagire. Il male pone domande, chiede risposte. La risposta deve essere comune e però
permette a ognuno una propria ragione, l’affermazione delle differenze e delle qualità.Ne L’uomo in rivolta si sostiene che solo ribellandosi si dà un senso alla propria esistenza. All’assurdo si può reagire, e l’assurdo, nel ’51, è anche la società totalitaria sovietica a incarnarlo. Ma se è vero che «tutte le rivoluzioni moderne si sono concluse con un rafforzamento dello Stato», allora l’eccelsa affermazione del «mi rivolto, dunque siamo», forse la formula più bella che pensatore moderno abbia pensato, non può essere anch’essa foriera di «crescita rivoluzionaria»? Cosa ne sarà della città a rivolta avviata, dopo la sconfitta della
peste? Non vi si diffonderanno nuove epidemie? La rivolta è bensì un moto che non si esaurisce, che continua. Suo scopo è la solidarietà immediata, essa non parla in nome di armonie a venire. Camus sa vedere il male dalla parte di chi ne è vittima: «la storia è facile da pensare ma è difficile da vedere per tutti coloro
che la subiscono sulla propria carne». E sa che l’adesione politica può essere un ricatto, che bisogna trovare altre strade al proprio bisogno-dovere di essere soidali; bisogna restare nella storia e nel mondo, ma mettendosi «di traverso», di sbieco rispetto alla storia, obbligatoriamente schizofrenici, «dentro» e «fuori».
Dopo la peste, c’è stato Hiroshima, hanno continuato a esserci il «socialismo realizzato», il fascismo, il colonialismo e, dentro l’Occidente democratico, le disparità di razza, il dominio dei ricchi sul mondo di chi lavora e di chi non ha un lavoro. Il problema non è più l’assurdo, che pure è qualcosa di molto concreto nell’esperienza del singolo (e in particolare del povero), è se possono ancora esistere dei modi di trovarsi con altri, di agire insieme, di costruire altro. Se i modi della rivolta aprono le strade alle rivoluzioni, allora la rivolta non può bastare. Ma la rivoluzione è, in tanti modi, il tradimento della rivolta. Se la rivolta porta a rivoluzione, si brucia da sé e malamente; la rivoluzione, se le manca «il controllo dello spirito di rivolta», è condannata al «nichilismo dell’efficacia» e porta al «terrore», scriverà Camus in una sorta di autocritica a L’uomo in rivolta. Non c’è soluzione, però c’è la storia che preme, il disastro che aumenta, ed è necessario reagire all’indegnità dell’ipocrisia borghese, e ai suoi crimini (attivi e passivi, quelli diretti e quelli degli opportunistici laissez faire), come al totalitarismo sovietico e alla sua «presa» nel mondo occidentale, alla forza di corruzione che ha il suo modello della forza, la sua capacità di mentire ai deboli, ai
proletari che hanno fame e sete di rivolta e utopia. Il primo dovere sembra essere ancora, per Camus, la nonmenzogna: l’utopia marxista è una menzogna, il socialismo realizzato è una dittatura. E ci sono i resti – per quanto ancora? – delle dittature fasciste che chiedono si risponda in solidarietà con le loro vittime e con i loro oppressi, ci sono le controverse o spietate affermazioni di chi ritiene impossibile non scegliere, non stare con gli uni o con gli altri, con le vittime o con i carnefici, ma intende, nel primo caso, non le vittime ma coloro che si arrogano il potere di dirsi loro rappresentanti, di comportarsi già oggi come il potere di domani. L’onestà intellettuale di Camus è assoluta e riposa, probabilmente e soprattutto, sulla diversità, rispetto ai suoi amici o nemici intellettuali, delle sue origini: figlio di proletari, figlio di coloni poveri, figlio di francesi d’Algeria, ha sperimentato la diversità che ne consegue. La morale che nella sua acquisizione di cultura ha saputo ricavare dalla sua esperienza di vita lo regge e lo guida: Camus, semplicemente, non sa e non può mentire, oltre a non volerlo. E però ha attraversato e subìto anche lui – nel momento in cui la battaglia politica gli ha mostrato la sua assenza di sbocchi, la sua impotente dicotomia e doppiezza – la sua fase di compiacenza e perfino di stare al gioco, di saper rientrare dentro le logiche del bosco o sottobosco intellettuale. La caduta ebbe un titolo appropriato, è la sua caduta. Ma la difesa del suo «a-parte» doveva avere un riscatto straordinario e purissimo nel suo ultimo libro, postumo: quel Primo uomo che è con Lo straniero il suo capolavoro letterario, che partendo dallo scabroso territorio delle memorie d’infanzia e adolescenza difende con una limpidissima misura, con purezza, anche una conclusione teorica: una cosciente ragione individuale costruita sul sentimento della solidarietà con i poveri da cui proviene, ma  nell’affermazione, appunto, di una necessità  e di una tensione individuali che possono esprimersi  nell’arte ma che ormai devono appartarsi dal mondo, e
guardare alla storia con il massimo di lucidità e con il minimo di illusioni. Lontano dai clamori e dalle sollecitazioni dell’establishment politico-culturale (di una politica e di una cultura prive di idealità e di moralità, di una politica della  gestione in funzione del potere e dei suoi gruppi più forti, di una cultura del servilismo e dell’imbroglio, dentro o attorno al potere, cosciente o meno della propria abiezione), lo scrittore, l’artista cosciente delle proprie radici e forte della propria capacità di vedere e vedersi, di capire e capirsi, parte di nuovo e da lontano, senza nostalgia e senza rivendicazioni se non quelle del vero e del giusto. Il caloroso rigore del ricostruire e ricostruirsi poteva preludere in Camus a una eccezionale maturità che ci sarebbe stata di riferimento e di guida, anche se certamente  non ai più, nella confusa epoca dei movimenti. Ma Camus ci ha lasciato quando il nostro secolo entrava nella sua svolta decisiva. Le battaglie e i sussulti delle lotte di liberazione del Primo e del Terzo mondo verranno condizionati e sconfitti dal peso dei due blocchi contrapposti e speculari e dalla incapacità – forse impossibilità? – di trovare e gestire altri modi d’azione, di proporre altri modelli di società. Più tardi il Secondo mondo «suiciderà» il proprio modello per intima corruzione. Più tardi la trasformazione del lavoro per effetto delle nuove tecniche e dei modi di produzione accentuerà più che mai, aprendo a dilemmi inusitati e forse definitivi, la corruzione dell’Occidente ricco dentro i suoi privilegi e la sua distanza dagli altri. E di che rivolta si potrà mai parlare, qui e ora, in Europa, in società e in generazioni che non furono mai così maggioritariamente conformiste e coinvolte nelle logiche e ideologie del potere? O in infime minoranze sbandate, suggestionate tuttora dai vecchi ipocriti bonzi del tardo marxismo-bolscevismo occidentale o da ottuse parodie dell’anarchismo? La libertà che dobbiamo raggiungere è la libertà di non mentire mai». Sono pochi gli intellettuali che negli anni passati hanno saputo praticare questa scomodissima divisa camusiana, e non a caso alcuni furono suoi amici, corrispondenti, sodali: Chiaromonte, Arendt, Macdonald, Silone, ai quali possiamo aggiungere certamente
il nome di Orwell, e prima ancora di Weil. Il confronto Camus-Sartre si è fatto, nel tempo, schiacciante. L’uomo in rivolta è stroncato nel ’51 su «Les Temps
modernes» da Francis Jeanson per conto di Sartre, sempre tattico: la chiarezza e onestà di Camus contro le astuzie della dialettica e della retorica di Sartre, giunto peraltro, alla fine, a tornare – forse senza un vero sentimento di solidarietà con gli oppressi e con gli umili – a un’idea di rivolta assai più rozza ed embrionale di quella di Camus con il suo e nostro (movimentista) «ribellarsi è giusto» mutuato nientemeno che da Mao, molto più povero del camusiano «mi rivolto, dunque siamo». Prigionieri delle idee correnti, della sinistra corrente, quante volte non siamo caduti noi stessi nella confusione tra morale e politica a vantaggio della politica, anzi del «realismo politico»? I testi qui antologizzati hanno di che sbugiardare generazioni di intellettuali e militanti di colpevole superficialità, prigionieri di un’idea di sinistra di fatto assai meno «critica» di quanto noi credessimo. Il nostro marxismo critico fu in realtà assai poco critico, e lo dimostra, tra le ultime cose, che alla caduta dei muri dell’Oriente e alle definitive dimostrazioni della natura totalitaria dei regimi «socialisti» si siano trovati alla testa dei nostalgici proprio molti di coloro che ci si presentavano come «marxisti critici», per esempio gli antichi estimatori sartriani alla Fortini o Rossanda.
D’altra parte, non pochi intellettuali di quelli che i marxisti (dimenticando grazie a una tessera le loro origini e tradizioni e anche le loro pratiche) dicevano borghesi, per esempio oggi alla Romano, forti del loro anticomunismo di sempre, osano nell’euforia di una trionfante vendetta spingersi fino all’elogio retrospettivo di Franco! Che parli di Spagna – e proprio nel senso di una fedeltà alle ragioni di una lotta ormai lontana, ma anche di una solidarietà con un popolo che ha continuato a essere oppresso dal franchismo ben oltre la fine della seconda guerra mondiale – o di Berlino, Poznan, Budapest e delle rivolte operaie contro l’oppressione russa e comunista, il tono di Camus può anche cambiare e farsi, nella spiegazione e nell’indignazione, ora più commosso ora più sferzante, requisitoria ora in difesa degli oppressi ora in accusa degli oppressori e dei loro complici. Il problema non è affatto, per lui e, anche grazie a lui, per noi, quello di distinzioni di comodo e dei consueti, mille volte sentiti e a volte per le cause più torbide, richiami al «cui prodest?». Il problema è che «la verità
di un pensiero non si stabilisce a seconda che sia di destra o di sinistra, e ancor meno per come decidono di utilizzarlo la destra e la sinistra». Oltre il pensiero, si
parla anche della verità delle azioni e degli accadimenti. La tremenda idea del comunismo come movimento che ha il diritto, per i suoi fini superiori e per  l’inveramento di un’idea della storia e del progresso, di seminare sul suo terreno fame e terrore, ingiustizia e bugia, ha fatto troppo male alla storia del movimento operaio del Novecento e all’idea stessa di socialismo perché si possa ancora considerarla altro da come è: pensiero totalitario, mistificazione delle istanze di libertà e di giustizia degli oppressi. Camus ribadisce con insistenza: giustizia e libertà, senza libertà non può esserci socialismo, «libertà o barbarie »… Ma allo stesso modo «la parola disgusto non [gli] è sufficiente» per esprimere il suo sdegno sui modi in cui l’Occidente rivaluta negli anni Cinquanta Franco l’anticomunista o la logica vecchia e nuova del «nonintervento » delle democrazie. Ieri era la Spagna, ma quanti altri casi non potremmo aggiungere oggi! In
definitiva, «tutti i boia appartengono alla stessa famiglia », fascista o comunista o capitalista – perché sappiamo, anche dai testi qui raccolti, quanto orrore Camus
provasse sempre e ovunque per la pena di morte, tuttora presente in molta parte del mondo in modi propri e impropri e rivendicata in Paesi come gli USA. Le due forme di società del suo tempo e anche del nostro restano «la società mercantile e la società poliziesca», e talora si congiungono in una. Più doloroso e più complesso, ma anche più rivelatore dei dilemmi profondi del nostro tempo e d’ogni tempo, è il modo in cui Camus, francese-algerino, piednoir, ha vissuto il dramma algerino, cercando affannosamente per anni di svegliare i francesi «metropolitani» alla comprensione della realtà (profittatori o complici, «tutta la Francia si è ingrassata della fame [degli arabi], ecco la verità», e aggiunge nel vivo della guerra che «gli unici innocenti sono proprio quei giovani che si mandano a combattere») e poi di sostenere in tutti i modi un dialogo, la scelta di soluzioni le più razionali che dessero la loro parte di ragione a tutti ma appunto anche ai suoi, a quei francesi respinti dalla metropoli e insediati in Algeria da generazioni. La difficoltà di questa posizione gli creò odî da entrambe le parti ma soprattutto da parte di quella sinistra (sartriana) che, non senza un sospetto di estetismo della violenza, sposò la sua solidarietà alle sorti del FLN, e oggi, tanti anni dopo, si trova a doversi interrogare sulla malvagità di un regime che essa ha contribuito a insediare, e non solo sulle risposte altrettanto  terribili che questo regime ha sollecitato tra i suoi soggetti. «Bandire la violenza e la menzogna», cercare la giustizia, difendere la verità (anche dalle «oltraggiose semplificazioni che oggi rendono tanto facile il mestiere di giornalista»), «cercare di creare valori positivi che possano conciliare pensiero negativo e possibilità di azione positiva», dare alla democrazia un significato che non sia quello emergente del «non occuparsi degli altri»… In definitiva, «se gli uomini non possono sempre fare sì che la storia abbia un senso, possono comunque comportarsi in modo che la propria vita ne abbia uno». Questo è il «programma», massimo e minimo insieme, che si evince dalle pagine politiche di Camus. Esse ci sembrano oggi di eccezionale lucidità rispetto a quanto poi è accaduto o si è saputo. Possono esserci ancora molto utili a capire il passato (e le nostre passate confusioni). Ma possono essere utili al presente? A capire il nostro oggi, a sapervi intervenire? «Che cosa rimane?», si chiedeva Silone nella constatazione del fallimento del comunismo ma anche dell’Occidente. Rispondeva sintetizzando la possibilità di poter conciliare ancora un’idea di socialismo senza partito e di un cristianesimo senza chiesa. Più laico, Camus non pone altra possibilità che quella di una «permanente fraternità» tra «coloro che lottano contro il fato», contro l’ingiustizia, la schiavitù, il terrore, ma anche contro l’alienazione, contro il furto della coscienza, contro tutti gli strumenti di cui il potere si serve per rendere consenzienti al suo dominio. Oggi che il mondo è così radicalmente cambiato rispetto a quello in cui è vissuto Camus e che l’Europa proletaria è un «mondo di ieri» definitivamente tramontato, la rivolta sembra diventata affatto rara e anzi rarissima, anche presso i più giovani e, tra di loro, anche presso i più sottoposti alle difficoltà e ambiguità di una dipendenza – dalla famiglia e da quel che è diventato lo Stato assistenziale.
La caduta dei muri ha consolato i potenti del capitale – industria e finanza, economia ufficiale ed economia sommersa, economia «legale» ed economia «criminale» sempre più intrecciate tra loro non fosse che nel riciclaggio bancario. Le loro società nazionali e multinazionali sono rimaste sole a dominare, con le loro alleanze e le loro lotte intestine, assieme a politici vieppiù inetti e servili nei loro confronti, incapaci di elaborare alcun progetto di qualche autonomia. E mai l’economia ha regnato su tutto come accade oggi. Tutti i media gareggiano con la televisione, che ha raggiunto il suo limite estremo di bassezza e manipolazione,
di «decervellamento» ubuesco degli utenti. I giornali hanno toccato il massimo di servilismo nei confronti dei loro finanziatori e della pubblicità: consumo e
consenso, ecco il progetto dell’epoca. Le loro differenze risultano solo dai ricatti tra poteri o, nel piccolo, tra corporazioni. La società dello spettacolo impera, e impone un’arte svilita alla funzione di bassa consolazione, nell’adesione ai valori dominanti. In molte società e almeno nella nostra Europa, la democrazia è diventata manipolazione e omologazione della maggioranza, ed è essa ad aver realizzato più e meglio di ogni dittatura l’impresa che Bonhoeffer, pensando
a Hitler, chiamava della «produzione degli stupidi », primo problema del suo e del nostro tempo. La crisi o la fine del lavoro come lo si intendeva prima della rivoluzione tecnologica dell’informatica e dell’elettronica ha stravolto, insieme al consumo, l’antropologia stessa del proletariato occidentale. Ricco rispetto al resto del mondo, e ancora dotato di privilegi, diventato in gran parte piccola o piccolissima borghesia, esso si conforma ai poteri e li idolatra.  Contemporaneamente, diviso tuttavia nettamente il pianeta in Paesi ricchi e Paesi poveri, la solidarietà con chi non ha sembra scomparsa dalle coscienze dei proletari o ex, mentre lo è sempre stata da quella dei ricchi. Questa assenza si esprime in vari modi: ancora un apparente non-intervento nei posti dove l’ingiustizia prevale e guerre si scatenano, apparente perché poi il gioco del chi traffica in armi e chi protegge chi non è diverso oggi da ieri; aiuti che molto spesso servono a mantenere associazioni di pseudo-volontariato, formate da giovani europei e da una nuova burocrazia e nuove professioni specializzate, che non coloro che, a parole, ne sono i destinatari e la ragione; eccetera. L’ipocrisia della cultura occidentale – la sua «laicizzazione », il suo rifiuto di ogni verticalità a favore dell’orizzontalità del mercato – fomenta ed eccita lo sviluppo, altrove, di forze antagoniste di tipo fondamentalista, di antico fanatismo. L’opera di progressiva e rapidissima distruzione dell’ambiente (sviluppatasi con l’accelerazione che sappiamo da non più di cinquant’anni fa, con la motorizzazione
di massa, con la plastica, con il benessere dell’Occidente) pesa sulla parte ricca del pianeta, e una percentuale assai bassa di privilegiati è responsabile, con i suoi consumi, di un inquinamento forsennato che colpisce tutti, per esempio con la polluzione atmosferica e le sue conseguenze. Eccetera, eccetera.  Non ci sono, in questo contesto, grandi speranze in atto, né grande progettualità. Nessuno sembra in grado – filosofi ed economisti in testa, per non parlare dei
politici – di vedere più in là del proprio naso. E le stragi intanto continuano, e l’orrore della storia non ha tregua…  Come reagire? Forse due lezioni possiamo considerare ancora valide di questo libro e degli scritti di Camus: la prima, non del tutto secondaria, è l’importanza dell’arte come luogo di verità e radicalità tra i pochi frequentabili, e tanto meglio se e quando si riesce a un’arte di gruppo come accade, per esempio, in molto teatro volutamente marginale; la seconda, più grave e decisiva, ma che è anche un allargamento di quella logica, è la rivendicazione di uno spazio di minoranza  che si astiene dalla partecipazione alle proposte maggioritarie, che fa storia a parte. Nessuno può dire cosa avrebbe pensato Camus di tutto questo, ma dal suo lavoro e dalla sua così decisa e così pudica lezione noi tratteniamo alcune convinzioni: la necessità di continuare a «trasmettere», dai chiari agli opachi, dai pochi agli inquieti che possono trovarsi tra i molti,ma a partire dalle nostre persuasioni di pochi e senza nulla concedere alle retoriche e alle mistificazioni della comunicazione di massa, attenti all’astuzia che hanno i molti (il mercato) di inquinare i pochi; l’obbligo morale di «rompere le scatole» ai molti e al sistema e insomma ai poteri, studiando e dicendo il vero, ragionando ostinatamente sul mondo, proponendo, additando le responsabilità e le complicità, difendendo chi va difeso e non ha chi lo difenda; l’appartatezza,
l’accettazione di essere minoranza e se necessario di una solitudine relativa, perché l’appartatezza deve essere creativa e attiva, di chi inventa e fa con e per gli
altri, nei modi in cui è possibile inventare e fare prima che i più recuperino, imitino, corrompano, distruggano. La diversità è necessaria, ed essa consiste anzitutto, basilarmente, nella capacità dei pochi di non mentire e di restare, come possibile, estranei alle compromissioni della violenza. Di nuovo «primi uomini», e continuativamente, secondo quanto significa la parola étranger, stranieri rispetto alle esasperazioni dell’appartenenza, estranei alla cultura e ai valori dominanti, e sconosciuti, o strani, agli occhi degli omologati e dei conformi e alla loro soddisfatta infelicità.

settembre 1998