Si ingrandisce, sulla distanza, la figura di Camus. Non solo lo scrittore ritrovato nella straordinaria autobiografia d'infanzia - Le premier homme, uscito postumo nel 1994 (Il primo uomo, Bompiani, 1995) - ma anche il testimone scomodo del proprio tempo, l'intellettuale disorganico, "straniero" alle ideologie e appartenenze inclini al ferreo richiamo del realismo politico.

Una buona occasione per riscoprirlo è offerta dalla piccola casa editrice Elèuthera che, nel suo folto catalogo dedicato a esplorare con salutare eclettismo le molte facce del pensiero libertario (da Kropotkin a Goodman, da Godwin a Vonnegut e Dumont), pubblica ora una raccolta di scritti politici, certo minori e secondari nell'ampia produzione saggistica e letteraria dello scrittore franco-algerino, ma utili a documentarne l'ininterrotta e tenace presenza pubblica fino agli ultimi anni, segnati dal massimo e amaro isolamento al tempo della guerra d'Algeria e insieme dal riconoscimento internazionale del premio Nobel nel 1957, prima della scomparsa, avvenuta prematuramente nel 1960.

Si tratta di scritti perlopiù brevi e d'occasione, articoli, discorsi, interviste, che attraversano l'intero arco del dopoguerra (a partire dal maggio 1945 su "Combat", giornale del gruppo in cui aveva militato durante la resistenza). Divisi in quattro sezioni tematiche ordinate e introdotte dal curatore, oltre agli argomenti di carattere teorico e ai motivi della definitiva rottura con Sartre e i compagnons de route del partito comunista (nell'ampia risposta alle critiche rivoltegli nel 1952 da "Les Temps modernes" a firma di Jeanson), toccano questioni di attualità immediata: la denuncia della normalizzazione dei rapporti con la Spagna franchista, la condanna della repressione dei moti popolari nell'Europa dell'Est (Berlino, Polonia, Budapest) in nome della ragion di Stato socialista, le drammatiche vicende algerine (di particolare rilievo la prefazione a Cronache algerine 1939-1958, in Actuelles III, oggi introvabili in italiano, e che si vorrebbe veder ripubblicate).

Proprio l'Algeria, nodo di legami affettivi e sofferte esperienze storiche, sembra costituire il laboratorio permanente per la riflessione etico-politica di Camus, dai dissensi che lo avevano portato a uscire dal Pcf nel 1937 sul terreno dei rapporti con le nascenti forze anticoloniali cui era attivamente legato, fino allo strenuo e sempre più inascoltato appello, vent'anni dopo, a "entrare nella no man's land tra due eserciti", che apre pagine illuminanti, tanto più alla luce dell'oggi, sulla variegata realtà politica del paese maghrebino e sull'intreccio mobile delle sue diverse identità, araba, berbera e francese, prima dell'irruzione sulla scena del Fln che imboccava la strada senza ritorno della violenza armata, anche contro i settori della società musulmana impegnati in altre possibili soluzioni del processo di decolonizzazione. È la riflessione riproposta di recente da Assia Djebar, che in Bianco d'Algeria (vedi recensione a fianco) riconosce nella lucidità degli appassionati e solitari appelli di Camus al dialogo un punto di riferimento cruciale per la rivisitazione di quegli anni di storia del suo paese.

Nel suo ostinato prendere posizione, dentro e dalla parte delle molteplici comunità democratiche algerine, per la trattativa, contro la tortura e contro il terrorismo, si riassume l'intransigente coerenza sul rapporto mezzi-fini che portò ugualmente Camus a dichiararsi, nell'epoca del mondo bipolare, contro la "società mercantile" come contro quella "poliziesca".

Impedire che "giustizia e libertà" si pongano come antinomici, tragica impronta della storia del secolo, è il filo conduttore di questi scritti di Camus, impegnato a occupare la terra di nessuno fra morale e politica, abbandonata da chi pretende di parlare, all'Est come all'Ovest, in nome della storia in marcia. Se "il ruolo dell'intellettuale è quello di saper distinguere (...) i rispettivi limiti della forza e della giustizia" denunciando le "ideologie di conquista" travestite da "causa giusta", il confine invalicabile è segnato per Camus dall'istanza radicale di libertà, prius da difendere "per darle contenuti di giustizia". È il binomio inscindibile tra i due termini che rese Camus, eretico della sinistra, inutilizzabile dalla destra (e forse pochi sanno che dopo il 1956 le sue uniche collaborazioni giornalistiche furono su riviste sindacali di base e libertarie, come "La Révolution prolétarienne" e "Témoins"), irreconciliata voce fuori campo di quella "coscienza della rivolta" ("mi rivolto, dunque siamo" è la felice formula in cui volle riassumere l'imperativo solitaire e solidaire della critica sociale) che si assunse il compito di testimoniare, insieme alla responsabilità individuale come criterio irrinunciabile di moralità.

Quale l'attualità di Camus oggi, finita l'epoca dei blocchi della guerra fredda? "Rispetto a ieri è forse più facile pensare con la propria testa, oggi, in Europa? È meno rischioso, forse, ma certamente è più raro" osserva Goffredo Fofi nella prefazione, prendendo a bersaglio il quieto e appagato conformismo delle idee correnti.

L'assurdo del mondo, pur dai connotati mutati, da cui partiva la domanda di senso e l'impegno di Camus, non sono venuti meno, e l'infaticabile Sisifo, con il suo pesante macigno sempre sull'orlo del precipizio, resta il mito più dignitoso che l'uomo contemporaneo possa raccontarsi circa il proprio futuro.

Ciò che contraddistingue e mantiene forte l'esempio diCamus è l'universalismo concreto della sua prospettiva etica, il rifiuto della visione astratta del bene che degrada pezzi di umanità a mezzi per raggiungerlo.Nel suo ritratto simpatetico di Camus come "intellettuale militante" Michael Walzer cita un appunto significativo dai Taccuini dello scrittore, che descrive la visione dall'aereo durante un viaggio da Parigi ad Algeri: "La natura non esiste più, le gole profonde, il rilievo reale, l'invalicabile torrente di montagna, tutto sparisce. Ci rimane un diagramma - una carta geografica. L'uomo, in breve, vede attraverso gli occhi di Dio. E percepisce allora che Dio non può avere che una visione astratta. E questo non è bene". Nell'attenzione ai rilievi e alle differenze, alle sfumature plurali della verità, l'homme révolté è anche colui che afferma con vigore la forza critica del dubbio, del "palesare i limiti dell'uomo" e delle sue accecanti certezze.

(S.M.)

 

Algeri, 22 gennaio 1956: (...) Su questa terra sono riuniti un milione di francesi, stabilitisi qui da un secolo, milioni di musulmani, arabi e berberi, installatisi da secoli, parecchie comunità religiose, forti e vive. È in questo luogo dove si incrociano strade e razze , dove li ha collocati la storia, che questi uomini debbono vivere insieme. Possono farlo, alla sola condizione di venirsi incontro reciprocamente di qualche passo, in un libero confronto. In questo caso le nostre differenze dovrebbero esserci d'aiuto, invece di contrapporci gli uni agli altri. Per parte mia, qui come ovunque, credo soltanto nelle differenze, non nell'uniformità. Perché le differenze sono le radici senza le quali l'albero della libertà, la linfa della creazione e della civiltà, inaridiscono. (...)

Si immagini quel che accadrebbe se il nostro tentativo fallisse. Sarebbe il divorzio definitivo, la distruzione di ogni speranza, e una sventura di cui ora abbiamo appena una pallida idea. Quelli tra i nostri amici arabi che oggi stanno coraggiosamente accanto a noi in questa "no man's land" dove si è minacciati su due fronti e che, lacerati interiormente, hanno già tante difficoltà a resistere a tentazioni sempre più forti, saranno costretti a cedere e si abbandoneranno a una fatalità che annienterà ogni possibilità di dialogo. Direttamente o indirettamente, entreranno nella lotta, mentre avrebbero potuto essere artigiani della pace. È dunque interesse di tutti i francesi aiutarli a sfuggire a tale fatalità.

Ma, allo stesso modo, è diretto interesse dei moderati arabi aiutarci a sfuggire a un'altra fatalità. Se infatti falliamo nel nostro tentativo e diamo prova di impotenza, i francesi liberali che pensano si possa far coesistere presenza francese e presenza araba, che credono che tale coesistenza renderà giustizia ai diritti degli uni come a quelli degli altri, che sono sicuri, in ogni caso, che essa soltanto possa salvare dalla miseria il popolo di questo paese, quei francesi saranno ridotti al silenzio. (...)

Ecco il duplice pericolo che ci minaccia, il rischio mortale davanti a cui ci troviamo. (...) Ecco perché il mio appello sarà di un'urgenza assoluta. Se avessi il potere di dare una voce alla solitudine e all'angoscia di ciascuno di noi, è con quella voce che vorrei parlarvi. Per quel che mi riguarda, ho amato con passione questa terra dove sono nato, da lei ho attinto tutto quel che sono, e non ho mai fatto distinzioni, nelle mie amicizie, tra gli uomini che la abitano, di qualunque razza siano. Benché di questa terra io abbia conosciuto e condiviso le miserie, che non le mancano, è rimasta per me la terra della felicità, dell'energia e della creazione. Non posso rassegnarmi a vederla diventare per chissà quanto tempo la terra dell'infelicità e dell'odio.

So che le grandi tragedie della storia, con il loro orribile volto, spesso esercitano una fascinazione sugli esseri umani, che restano immobili di fronte a loro senza riuscire a prendere una decisione, se non quella di attendere. Aspettano, e un giorno la Gorgone li divora. Io vorrei farvi condividere la mia convinzione che tale incantesimo può essere spezzato, che quell'impotenza è un'illusione, che la forza del cuore, l'intelligenza, il coraggio bastano per dar scacco al destino e a volte per rovesciarlo. Basta soltanto volere, non ciecamente, ma con una volontà ferma e meditata.

Ci si rassegna troppo facilmente alla fatalità. Troppo facilmente si accetta di credere che dopo tutto solo il sangue fa compiere passi avanti alla storia e che il più forte, in questi casi, avanza a scapito della debolezza dell'altro. Forse questa fatalità esiste. Ma il compito degli uomini non è quello di accettarla, né di sottomettersi alle sue leggi. Se l'avessimo accettata nelle età più remote, saremmo ancora alla preistoria. Il compito degli uomini di cultura e di fede non è, in ogni caso, né disertare le lotte storiche, né mettersi al servizio di quel che c'è in esse di crudele e di disumano. È quello di resistere, di aiutare l'uomo contro quel che lo opprime, di favorirne la libertà contro le fatalità che lo accerchiano.

(Trad. dal francese di Mariolina Bertini)