Tratto da: Umanità Nova 24 giugno 1984

 

Roma campione e Roma proletaria

 

Grande movimento nella Capitale per la formazione giallorossa bocciata da un vizio arbitrale, dalla sfortuna e dalla scarsa preparazione atletica, nella finale della Coppa dei Campioni dopo una stagione giocata ad alto livello. Una città sino a ieri in festa che ha creduto allo spasimo di poter entrare anche formalmente ed «ufficialmente» nella «leggenda» del calcio europea. Un mito inseguito da tempo, questo, che ha tratto con sé una rumorosa volontà di riscatto rispetto allo «strapotere» delle squadre del Nord, da sempre le favorite delle attenzioni della consorteria «sportiva» e della grande industria, ed un desiderio d'evasione rispetto ai problemi di tutti i giorni, alle condizioni d'alienazione e spesso d'indigenza che si vivono nella metropoli, allo schiacciasassi del dominio. Un potere che favorisce indubbiamente le dinamiche di fuga e se ne appropria strumentalizzandole sempre più ai propri fini di mercato e di controllo sociale.

Clakson, bandiere, riti del pre e post partita. Questo tifo infernale di cui conosciamo bene le origini è noioso, è un'offesa alla ragione, s'è detto. Fiumi d'inchiostro sono stati versati sui fogli della «sinistra rivoluzionaria» per bollare questi «fenomeni indotti», l'ideologia della competizione e l'esaltazione di una presenza fisica e di una forza che discriminano il rapporto paritario ed avviliscono chi competitivo, forte e prestante non è.

Il «rivoluzionario» non ama confondersi con simili aleatorie e pericolose concezioni e ne condanna gli effetti deleteri.

Però questa necessità dell'unità, questo «sentirsi insieme» non è solo omologazione ma anche, seppur contraddittoria, esplosione di socialità Il gregarismo, il «partecipare» all'interno di una massa che «si rappresenta» idealmente in campo, sono solo parte di un insieme di motivazioni, cariche emozionali che hanno le loro radici nelle allegorie che sortiscono dal profondo dell'inconscio collettivo. I grandi giochi coreografici che prendono vita sono desiderio di trasfigurazione ideale del corpo sociale, spinto nonostante tutto a cercare un'identificazione ed una comunione d'interessi che infranga le barriere imposte. E' proprio su questa tendenza peculiare dell'animo umano che sin dalla più remota antichità i regnanti, governanti, papi e despoti, tutti coloro che hanno reso merce religioni e culture, hanno costruito, tramite l'illusione di un momento, le loro fortune. Altrettanto fanno oggi i partiti istituzionali, i sindacati della collaborazione e della svendita, promuovendo adunate oceaniche in cui i terni della «pace», della «nuova qualità della vita», le rivendicazioni vengono puramente «rappresentate» e la conflittualità ingabbiata nella mimica della delega agli apparati ed ai loro leaders.

Ma il calcio è anche spettacolo, per chi lo segue e lo conosce, e spettacolo quanto mai fruibile: è gioco d'insieme e necessaria intesa, è moto e scambio d'intelligenza e fra gli sport non può certo venire paragonato a quelli dove predomina essenzialmente la forza bruta oppure ove non esiste il collettivo.

Roma proletaria, devastata dalla speculazione capillare e dal perbenismo interessato, delusa e compromessa dalla «sinistra» che s'è fatta Stato, dalla politica dei sacrifici e dagli intellettualismi di comodo, piegata da millenni sotto il peso della Chiesa e di pletore di preti, non amante del ministerialismo, oltretutto pura proiezione di un potere che ha sede altrove e che trae con sé falangi di poliziotti, burocrati e mezzemaniche, accorsi da ogni dove grazie al fascino di un clientelismo che muta via via colore ma non aspetto, la Roma dei quartieri popolari ormai «ristrutturati» e dati in pasto a vecchi e nuovi ricchi, quella dell'emigrazione e dei grandi agglomerati di periferia, pur consapevole interiormente sin dai tempi del Belli e di Trilussa che tutto si piega alle norme della diseguaglianza, pur costretta a far calca come antica plebe davanti a rivendite gestite da bottegai dello spettacolo, accarezza nella sfera la sua seppur effimera rivincita.

Certo, il presidente della società è un democristiano: d'altronde tutto lo scenario del football è pensato in funzione del business quindi saldamente nelle mani del capitale. Del resto è addirittura urtante, ad esempio, il vedere come a Torino schiere d'emigrati che pagano sulla propria pelle la catena di montaggio, la cassa integrazione o la semplice disoccupazione, con gran lena ed a dispetto della loro provenienza si accodano pedissequamente alla tifoseria del «team» più «padronale» e più foraggiato d'Italia: la Juventus di quello stesso Avvocato che impugna lo scettro della Fiat.

Ma tutto questo prima della partita conta e non conta: svanisce la figura del parlamentare scudocrociato, del «soldo» si sa e si tace, e poi non è proprio la sfacciata Juventus l'antagonista principale della compagine capitolina? Quantomai la zebra bianconera è oggi per i tifosi della lupa il truculento simbolo del potere, da abbattere in una fiammeggiante inconscia battaglia, ove purtroppo anche l'esaltazione campanilistica ha il suo peso, ma si tratta del campanilismo di chi sta in basso, che si ammanta dei segni della trasgressione e della rivolta.

Senza dubbio ciò fa pensare, questa dinamica di traslazione dei simulacri del dominio, ma certamente le manifestazioni agonistiche acquistano in città come Roma valenze particolari e quanto mai contraddittorie.

Il «fenomeno» non va in ogni caso analizzato seguendo i dettami di quel conformismo «sinistrese» che nel suo gioco d'élite stigmatizza ogni pulsione prendendo spunto da particolari ed aspetti, spinti a «coprire», spesso tramite generalizzazioni di maniera, la complessità dei comportamenti che escono dai canoni della «ragion pura», salvo poi lasciar spazio, nell'ambito del consumo collettivo e personale di stereotipi, alla fruizione di prodotti e situazioni preconfezionate, pur sempre sinonimi di mode, marchi, musica, cultura e sports di classe, anche se nascosti dai veli delle «scienze alternative» del comportamento, da sociologismi e psicologismi dozzinali: vedi attività, vacanze, diete «in», ecc.

La questione merita forse una verifica più scanzonata e d'altronde queste note sono buttate giù a mo' di provocazione per promuovere dibattito su uno degli aspetti della nostra quotidianità. Provocazione forse per coloro che condannano senza appello i divoratori di giornali sportivi (peraltro pieni di buffonate «ad effetto» tese a carpire attenzioni poco smaliziate), mentre gioiscono invece tranquillamente di riviste d'abbigliamento dove fa spicco forse I'Italian Style arrangiato con il «casual», manifestano inconfessabili passioni per auto di lusso di grande prestigio e di costo elevato, consumano le droghe di stato, ricercano in politica la figura carismatica in cui identificarsi e l'orientamento in conformità del quale approssimare le proprie pseudo analisi magari «catastrofiste» e foriere di rinuncia oppure ragionevolmente «acquiescenti», già scontate perché acquisite in modo acritico, preparando il terreno di coltura dei propri alibi sostanziati da competenze ed interessi solo formali.

Dibattito per chi, a torto o a ragione, ama e comprende il meccanismo del transfert e ne vuole analizzare risvolti e contenuti, ne sa godere con ironia senza nascondersi dietro un dito, non ha sposato alcun dogma, non confonde il momento dell'analisi con il rito religioso, è critico verso se stesso come verso gli altri, si sforza di comprendere e verificare le proprie debolezze come quelle altrui e ne fa motivo di crescita comune.

 

Stefano Fabbri