Scuola né pubblica né privata

 

 

C’è una questione che a mio avviso va affrontata, soprattutto su una rivista come questa che è emanazione libertaria di un sindacato di base rivoluzionario. Mi rendo conto che sicuramente sono in ritardo, ma dalla mia ho che le cose di fondo si fa sempre a tempo ad affrontarle, anche perché non scadono mai. E poi ci vuole l’occasione giusta. E questa senz’altro finalmente lo è.

La questione cui mi riferisco è la contrapposizione tra “pubblico” e “privato” che, soprattutto in ambito sindacale, si fa da decenni in riferimento alla scuola e all’educazione. Ciò che non mi va giù è che mi sembra si sia creato e, purtroppo, consolidato a livello ricettivo uno stereotipo secondo cui, nell’ambito sia rivoluzionario sia della sinistra in genere, la sfera che si suppone pubblica è fonte di bene mentre quella che si suppone privata lo è solo di male. È quasi un automatismo, un assioma, tale che da parte di moltissimi operatori, pur impegnati ed anche preparati, non sembra ci sia disponibilità a metterlo in discussione, ad affrontarlo in modo problematico come qualsiasi altra cosa, quasi fosse una verità rivelata, un vero e proprio dogma.

Per amor di chiarezza dirò da subito che ritengo falso questo manicheismo contrappositivo indotto irrazionalmente. Penso invece che in realtà il problema non riguarda i due termini usati e abusati comunemente, che comunque non esiste una vera opposizione tra le effettive tipologie che sono in campo, che perciò l’ingannevole contrapposizione tra “pubblico” e “privato” non è in grado d’interpretare la realtà delle cose, perché impedisce di comprenderne la reale complessità, perché è una semplificazione creata ad arte e perché, come tutte le semplificazioni, ottiene lo scopo iniquo di ottundere la possibilità di comprensione di ciò che effettivamente è.

Ma vediamo di entrare in merito e spiegare nel modo più chiaro possibile ciò che intendo. Così ci accorgeremo che non è vero che il bene stia di qua e il male di là, ma che, semmai, in entrambi i campi reali d’indagine si annida parecchia ambiguità.

 

Senso di “pubblico” e “privato”

Partiamo innanzitutto dai significati. “Pubblico” deriva dal latino “publicus”, che è affine a “populus”, popolo, e concerne tutto ciò che, appunto, riguarda l’esteso ambito popolare. Una cosa o, come in questo caso, un’istituzione o un istituto rientrano a buon diritto nella sfera del pubblico quando esistono e agiscono rivolti all’insieme della popolazione. Ogni scuola dunque, indipendentemente dalla definizione giuridica con cui la si identifica, per il ruolo stesso che è chiamata a svolgere, non può non rientrare nell’ampia sfera del pubblico. “Privato”, che in origine vuol dire reso privo di qualcosa, è invece pertinente alla singola persona e riguarda esclusivamente l’ambito individuale, senza dover collimare con ciò che al contrario è pubblico.

C’è da dire che i significati di riferimento non esauriscono affatto il problema, in quanto nel caso in questione sono essenzialmente definizioni giuridiche e, in particolare in un settore come quello scolastico, tendono ad indicare soprattutto i livelli di gestione, si riferiscono cioè ai gestori della cosa legittimati legalmente. Allora, per esempio, abbiamo che una gestione privata, che riceve finanziamenti statali, risulti di interesse pubblico e allo stesso tempo favorisca l’interesse privato del gestore, oppure che cooperative di settore, che vengono annoverate nel privato, mettano in piedi scuole aperte al pubblico, come ogni altra, e siano però controllate e sostanzialmente gestite da enti istituzionali. L’intreccio è altissimo, come pure la contaminazione, fino all’inevitabile possibile identificazione.

Perché allora da parte sindacale, sia quella istituzionale sia quella di base, e all’interno della sinistra in genere, compresa quella rivoluzionaria, per quanto riguarda la scolarizzazione si continua a propinare una contrapposizione netta tra “pubblico” e “privato”, trasmettendo quasi l’idea che l’una sia, o debba essere, la negazione dell’altra? In realtà, sul piano dei contenuti, dei programmi e degli scopi marciano frequentemente insieme e nella sostanza sono l’una complementare all’altra. Certo, ci sono differenze anche forti, soprattutto per quanto riguarda i trattamenti dei dipendenti e il giro di soldi per il mantenimento e gl’investimenti, oppure a volte rispetto a fini specifici, ma che in alcun modo sono sufficienti a giustificare una visione che li vede una di qua e l’altra di là, su un piano di completa contrapposizione. La lettura della realtà è importante, perché permette di comprendere cosa fare e come farlo, mentre se il piano della lettura non è corrispondente al vero crea abbagli e suggerisce scelte che poi facilmente si riversano contro.

Si continua frequentemente a usare ad arte la parola "pubblico" in opposizione a "privato", dando superficialmente per scontata la loro opposizione in ambito educativo, perché si sottintende che siano pubbliche le scuole che sono fatte per tutti e siano invece private quelle che in qualche modo sono esclusive per le elite. In realtà, come mostravamo più sopra, l’intero settore scolastico, nel momento in cui si pone teoricamente per distribuire istruzione e cultura a chiunque, rientra in vari modi a pieno diritto nell'ambito pubblico, indipendentemente che sia gestito giuridicamente in forma privata o istituzionale. In effetti anche una scuola considerata giuridicamente privata svolge comunque una funzione che riguarda l'interesse pubblico.

Il fatto poi che alcune di esse, spinte essenzialmente da interessi di parte, dichiarati o no non ha importanza, creino discriminazioni e selezione restringendo la possibilità di partecipazione a una ridotta e oculata schiera, non le estromette dal senso dell’interesse pubblico. Semmai le include in una logica di classe o di categoria, che riguarda però un altro settore d’indagine, che è quello, appunto, della discriminazione di classe o di categoria nell’ambito di ciò che è pubblico, che in quanto pubblico dovrebbe invece esser disponibile per tutti.

 

Il dualismo reale

Se usiamo un diverso criterio d’identificazione, più corrispondente a ciò effettivamente c’è, ci accorgeremo allora che la vera differenza non sta tanto tra i due termini comunemente usati, quanto tra gestione statale, o comunque istituzionale, e gestione non statale e non istituzionale. Noteremmo subito che entrambe, pur a volte con differenze anche sostanziali tra loro, agiscono e si pongono nel medesimo ambito, che è appunto quello del pubblico. Le scuole statali, o comunque derivate da enti istituzionali, dipendono e sono gestite da organismi dello stato e delle istituzioni, mentre le altre sono gestite da enti, cooperative e persone che possono avere una propria filosofia o un proprio specifico interesse, che però in alcuni casi possono perfettamente coincidere, guarda caso, con quello statale ed istituzionale.

Allora d’incanto risulterebbe spontaneo e conseguente escludere, a livello di senso, la falsa contrapposizione congenita che a sinistra in genere viene continuamente sbandierata, determinando la conseguenza per cui a priori viene difeso, in quanto tale e ad oltranza, quello che viene definito "pubblico" mentre è osteggiato quello che viene definito "privato". Risulterebbe così evidente che si tratta di una opposizione precostituita ed ideologica, del tutto astratta, che a tutti gli effetti non ha corrispondenza nel reale, perché le due categorie non sono affatto in opposizione, mentre sono collegate tra loro da un intricato intreccio che in molti casi le rende l’una complementare all’altra.

In particolare in Italia c’è di fatto una situazione specifica aggrovigliata e di non facile comprensione, il cui stato porta con gran facilità a far confusione, ingenerando l’ambigua contrapposizione di cui stiamo parlando. Nel settore privato sono incluse una serie di situazioni che hanno ben poco a che fare col senso stretto di ciò che significa privato. Una buona parte di questo settore comprende scuole di ispirazione clerico-confessionale, alcune di stretta osservanza, che quindi più che private andrebbero annoverate come espressione delle istituzioni clerico-cattoliche. Solo una piccola parte è strettamente legata ad enti di specializzazione professionale o gestiti per conto di specifici interessi privatistici-industriali.

Nello stesso ambito istituzionale assistiamo a una babele ingarbugliata in modo confusionale. Le scuole gestite da enti locali (comuni, province e regioni) non appartengono giuridicamente al loro naturale ambito istituzionale, ma sono classificate in un limbo che le relega nel privato, fra l’altro in alcuni casi con attribuzioni di competenza addirittura comiche. Se guardiamo infatti agli asili-nido, o nidi d’infanzia come da poco vengono chiamati, ci accorgiamo che sono ancora di competenza del ministero della sanità, nonostante che da ogni parte l’aggiornamento teorico pedagogico faccia giustamente supporre che dovrebbero rientrare a tutti gli effetti nelle competenze del ministero dell’istruzione scolastica.

C’è inoltre una miriade, in tendenza sempre più affollata, di cooperative ed enti di settore cui, in particolare da parte degli enti locali, viene affidata la gestione controllata di scuole di originaria competenza istituzionale. Queste cooperative e questi enti sono privati, ma gestiscono per conto di istituzioni e con criteri del tutto istituzionali scuole a loro affidate sotto controllo.

Come si può ben notare, più ci si addentra all’interno del problema e della situazione per come effettivamente è più ci si rende conto che, senza ombra di dubbio, la contrapposizione ideologica tra “pubblico” e “privato” non può che essere considerata non veritiera, perché ci troviamo di fronte a un magma di intrecci e contaminazioni che, alla fin fine, ne fanno un unico groviglio gordiano, anche se si esprime e si manifesta in modi anche molto differenziati, tutti comunque all’interno dello stesso spazio del potere dominante, simbolico e concreto insieme. Cosa ancora peggiore, oltre ad esser falsa è falsificante, in quanto impedisce una lettura del reale che sia utile e funzionale alla comprensione di ciò che si vorrebbe fare e realizzare.

 

Il giro dei soldi

C’è un aspetto molto importante, che sa più che altro di condizione ingabbiante, attorno al quale ruota l’intero mondo della scuola e che, forse, a livello psicologico giustifica la lettura irrealistica che identifica un’opposizione in atto tra il pubblico e il privato. È il sistema dei finanziamenti e delle concessioni gestito dalle istituzioni, statali in primis, ma anche dagli enti locali.

Ogni scuola, sia come edifici e loro manutenzione, sia come gestione ordinaria (personale, materiali di consumo e strumenti operativi) costa una barca di soldi e non può sorreggersi se non attraverso un sostentamento cospicuo, che difficilissimamente può derivare dalle sole entrate delle indispensabili rette di chi ne usufruisce. Succede così che le scuole che esistono sono costrette a dipendere, in modo diretto e indiretto, da chi le finanzia. Per le scuole statali e istituzionali il problema è chiaro, in quanto sono diretta emanazione delle istituzioni, le quali con le finanziarie decidono annualmente i fondi da destinare all’istruzione e all’educazione e ne stabiliscono il senso, le finalità e i programmi. Per le altre il problema è un po’ più complicato, in quanto devono trovare chi sia interessato alla loro sopravvivenza e sia in grado di mantenerne il sostentamento.

Sta di fatto che in Italia non esistono mecenati che, per amore della cultura e dell’educazione, sostentino luoghi scolastici modello. L’area scolastica assemblata nell’ambito del privato, come abbiamo visto varia complessa e contraddittoria, quando c’è, in una maniera o nell’altra, dipende in gran parte dai finanziamenti che vengono elargiti dallo stato o dalle istituzioni para-statali. Abbiamo così che sia la politica del governo la loro maggior sostentatrice.

Il problema è scoppiato negli ultimi anni proprio perché il governo di centrodestra, con la riforma Moratti, ha troppo spostato l’asse d’intervento, quindi l’elargizione di finanziamenti statali, verso le scuole confessionali e quelle legate ad interessi finanziari e industriali, togliendo spazio e senso all’approfondimento della cultura di base, che invece dovrebbe continuare ad essere l’asse portante della filosofia della conoscenza e dell’apprendimento scolastici. Questa stessa riforma ha inoltre messo in atto il tentativo di omologare metodi e finalità d’insegnamento di ogni ordine di scuola a quelli di una mentalità privatistica, introducendo un sistema di concorrenzialità mercantile tra le diverse scuole ed esasperando, in particolare con le valutazioni e il portfolio, elementi che poi in fondo, anche se attenuati, erano già presenti nella precedente riforma Berlinguer del precedente governo di centrosinistra.

Se ben ragioniamo, dunque, il problema non va visto in termini di scontro tra pubblico e privato, come è stato da subito impostato dalla sinistra istituzionale, bensì se ha senso, rispetto ad una logica ed una volontà che mettano al centro dell’educazione l’apprendimento e l’acquisizione d’autonomia degli individui, lasciare la totale competenza decisionale al centro politico-istituzionale e allo stato. Fino a quando saranno i governi e gli entourage che vi girano attorno a decidere quale tipo di scuola ci possano concedere, tutto sarà estremamente fragile, perché dipenderà sempre da quale politica governativa è imperante in quel periodo. Per quanti sforzi possano fare, e non ne fanno mai molti, i governi sono strutturalmente legati ai partiti che li sostengono, quindi non possono che esprimere le scelte gli interessi e la volontà di questi.

Se volessimo veramente una scuola che fosse indipendente dalle mene e dagl’interessi di parte governativa, che può mutare perché storicamente tende a mutare il vento della gestione politica, dovremmo sottrarla dalle loro grinfie per restituirla, in modo lungimirante, a chi legittimamente appartiene: la comunità di riferimento. È infatti sbagliato, da un punto di vista rivoluzionario, ma anche riformista radicale, continuare ad identificare il bene pubblico con le istituzioni, dal momento che queste esprimono, e non possono che esprimere, strutturalmente un potere separato. Solo la comunità può essere depositaria del proprio bene pubblico, per cui la scuola dovrebbe essere della comunità, com’era, per esempio, nei programmi della comune, che aveva addirittura progettato un federalismo scolastico gestito direttamente dalle comunità di quartiere, o nei programmi della prima internazionale, la cui preoccupazione principale era un’istruzione gratuita ed estesa a tutti e sganciata da interessi privati e particolaristici di qualsiasi tipo. (1)

 

Che cosa fare

Cosa fare allora? Sostenere in modo equanime sia il pubblico sia il privato? Oppure snobbare sia l’uno sia l’altro? Niente di tutto ciò. Una possibile soluzione si trova ponendosi oltre, in quanto sia l’uno sia l’altro rappresentano in modi differenti condizioni che vanno superate e combattute. Innanzitutto è importante chiarire quale debba essere l’orizzonte d’intervento che si sceglie. A tal proposito sono convinto che la scelta che permette di valutare come muoversi e cosa fare non può che rivolgersi verso la libertà e l’autonomia degli individui, quale presupposto fondativo di ogni seria impostazione pedagogica. L’opinione di chi opera nella scuola, usufruendo di questo criterio di base, può così permettersi di comprendere il senso del valore di un’istituzione scolastica.

Avendo quale riferimento questo punto di vista, ne discende che sono estremamente carenti e lasciano alquanto a desiderare sia il fronte istituzionale sia quello non, senza dubbio per il motivo che, al di là delle conclamate dichiarazioni ufficiali, i loro veri e concreti obbiettivi di fondo non possono collimare con un’impostazione autenticamente libertaria, anzi tendono ad escluderla.

La scuola istituzionale ha come scopo principale dichiarato quello di formare dei buoni cittadini, che si riconoscano consenzienti nelle istituzioni vigenti e che da adulti possano e debbano contribuire alla perpetuazione di questo sistema. Nelle sue intenzioni e nelle sue aspirazioni esclude per esempio la formazione di un pensiero autonomo capace di metterla seriamente in discussione. Anzi, tende ad insegnare a reprimerlo, anche se poi nei fatti crea spesso tanti ribelli, ma, sia chiaro, non per sua volontà, bensì per la sua incapacità di restare coerente.

Le scuole non istituzionali, quelle che ci sono, il fronte cosiddetto “privato”, da questo punto di vista sono oltremodo più carenti di quelle istituzionali. La parte più consistente, quella clerico-confessionale, ha come scopo principale di catechizzare gli individui, li educa all’obbedienza e all’accettazione per fede in dio e ne vuole fare degli esseri consenzienti alle istituzioni statali ed ecclesiastiche. La parte strettamente connessa alle istituzioni ha come massima preoccupazione quella di essere apprezzata da loro, perché dipendendone ha bisogno di essere riconosciuta per ricevere i fondi che propinano. La parte emanazione degli interessi privatistici industriali ha il fine principale di tirar su bravi dipendenti e potenziali manager, in grado d’inserirsi nel mercato del lavoro e dello sfruttamento per dirigerlo in modo efficiente.

Con le ultime riforme scolastiche, quella del centrosinistra prima e la “Moratti” del centrodestra poi, è stato messo in atto un processo, che in tempi brevi è presumibile sarà affinato e perfezionato dai governi che verranno, in grado di adeguare sempre più anche le scuole istituzionali alle esigenze del mercato capitalista globale vigente. La scuola oggi, nelle menti di chi imposta i nostri destini di esseri umani, dovrebbe essere sempre di più strumento funzionale al mondo attuale, al sistema liberista per quanto riguarda il piano economico e alle istituzioni burocratiche informatizzate per il piano politico. La realizzazione di questa teleologia dell’educazione istituzionale, ammesso che ci riescano, non potrà che essere a scapito di un’autentica autoformazione, come aspira al contrario la pedagogia libertaria, pensata e impostata per il raggiungimento dell’autonomia individuale e l’esercizio consapevole della libertà individuale e sociale.

Con questi presupposti altamente conservativi, noi dunque non possiamo fare il tifo né per il cosiddetto “pubblico” né tantomeno per il cosiddetto “privato”. In un certo senso si può affermare che la scuola sta morendo, se addirittura non è già morta. Almeno dal punto di vista di chi la pensa e la vorrebbe luogo prediletto per la formazione di esseri indipendenti, capaci di pensare e di scegliere in modo autonomo, di esercitare liberamente il proprio pensiero e le proprie capacità critiche. I poteri vigenti non vogliono simili individui, perché li metterebbero in crisi. Preferiscono esseri capaci ma consenzienti, autonomi solo all’interno e nei limiti degli steccati che conservano il loro sistema di potere, di influenza, di condizionamento.

 

Possibilità d’intervento anarchico

Ciò che trovo sorprendente è che ci siano degli anarchici che, aderendo d’istinto alla prevalenza del “pubblico” sul “privato”, forse nell’illusione di sostenere il bene collettivo, implicitamente si schierano a spada tratta nella difesa tout court delle scuole statali ed istituzionali, sostenendo di fatto, al di là delle loro intenzioni, che dovrebbero essere l'unico tipo di istituzioni scolastiche verso cui protendere. È sorprendente perché l'anarchico, per scelta, dovrebbe lottare ed agire per escludere lo stato e qualsiasi istituzione autoritaria dalla gestione delle cose pubbliche, in funzione di forme autogestionarie e, soprattutto, antiautoritarie. Direi che quest’ultimo è il fondamento base, teorico ed esistenziale insieme, di chiunque si riconosca nei principi anarchici.

Ciò che distingue una pedagogia libertaria, in cui gli anarchici si riconoscono, e le conseguenti istituzioni che dovrebbero renderla fattiva, non è l'appartenenza gestionale, bensì la discriminante metodologica. All'anarchico cioè dovrebbe interessare soprattutto quale tipo di relazioni si possano e debbano determinare tra gli educatori e gli studenti che usufruiscono della loro competenza, conseguentemente il metodo che si usa per realizzare l'opera educativa, che non può che essere non autoritario, fondato sull'esperienza diretta di ogni individuo coinvolto e tendente a trasmettere la voglia di vivere la libertà al suo più alto livello etico e sociale. Attraverso l'opera educativa gli anarchici tendono perciò a stimolare la formazione di un’autentica autonomia degli individui, che si realizza attraverso metodi di autogestione collettiva. Per questo dovrebbero rifuggire tutto ciò che sa di eterogestione, di autorità costituita e di leggi in difesa di sistemi capitalisti e statali, o comunque di dominio, sotto qualsiasi forma si manifestino.

Come si può dunque qualificare la presenza anarchica nel mondo della scuola? È senz’altro giusta la lotta sindacale per il mantenimento e l’allargamento dei posti di lavoro, come per il miglioramento delle condizioni di lavoro sia remunerative sia normative, dove la normativa sia però sempre contrassegnata dall’aumento di spazi di libertà di movimento e d’insegnamento. Ma per favore, che questa lotta non avvenga all’insegna inquinante del trionfo del “pubblico” sul “privato”, perché questa falsa “parola d’ordine” è funzionale soltanto alla sinistra istituzionale, la quale ha tutto l’interesse a impossessarsi del e a mantenere il potere governativo in regime della vigente antidemocratica democrazia rappresentativa.

Salvo restando questa giustezza di lotta sindacale, a livello strategico identifico due possibilità di intervento congruente con obbiettivi e finalità di tipo libertario.

Quando non può far altro, l'anarchico impegnato nel campo pedagogico svolge la sua opera il più coerentemente possibile, e lotta per riuscirci, all'interno delle istituzioni scolastiche preesistenti, statali e istituzionali o no ha poca importanza. Ma se è in grado di farlo, allora, assieme ad altri compagni e compagne, dovrebbe poter mettere in piedi istituti scolastici per gestirli direttamente ed in piena libertà, realizzando in opera la metodologia che lo distingue. Va da sé che se ci fossero, come quando ci sono effettivamente stati, tali istituti, secondo la dizione usuale corrente, verrebbero collocati nel "privato" dalla imperante superficiale cultura di "sinistra", quindi automaticamente declassati come nemici della res publica, cioè dell'interesse pubblico. Il che, da qualsiasi punto di vista lo si possa e voglia guardare, è evidentemente un non senso e, soprattutto, è contrario a ciò che dovremmo e vorremmo far sapere per agire in funzione di una società fondata sui principi di libertà sociale dell'anarchismo.

Andrea Papi

Note:

(1) Vedi: Francesco Codello, La buona educazione, in particolare cap.7, La prima internazionale e la comune di Parigi, Franco Angeli editore, Milano 2005.