Costante rivoluzionaria e variabili storiche
a cura di Mirko Roberti

La storiografia dell'anarchismo-3
L'anarchismo come latente tensione storica e universale della libertà nell'interpretazione dello storico anarchico Gino Cerrito - Libertà ed uguaglianza: un binomio inscindibile - L'anarchismo è l'espressione storico-ideologica di una precisa classe sociale?

Si conclude con questa terza puntata la pubblicazione del saggio che il nostro collaboratore Mirko Roberti dedica all'esame delle tesi di alcuni significativi storici dell'anarchismo. Nella prima puntata, dopo una premessa di ordine generale tendente ad affermare la "dignità" di una storiografia organica dell'anarchismo, sono state esaminate le interpretazioni di Joll, Valiani e Woodcock. Nella seconda puntata è stata la volta di Sergent e Harmel, Zoccoli, Eltzbacher e Nettlau. Ora vengono infine passate in rassegna le interpretazioni di Cerrito, Guerin, Arvon, Plebe, Servier, Principe e Kramer-Badoni. Il saggio si chiude con una serie di considerazioni di Roberti, sulle quali richiamiamo l'attenzione dei nostri lettori. I problemi affrontati sono del massimo interesse e l'interpretazione che ne indica Roberti ci trova sostanzialmente concordi: non di un "punto di arrivo" si tratta, comunque, bensì di un valido contributo ad un dibattito che per tanti aspetti è ancora tutto da impostare.

Un'interpretazione per certi versi sostanzialmente uguale a quella di Nettlau si può ritrovare anche in Gino Cerrito. A suo giudizio l'anarchismo non può "definirsi una teoria classista" (28) anche se riconosce l'oggettiva presenza della lotta di classe. Se in questa lotta è sempre stato decisamente con le classi oppresse e sfruttate, cionondimeno esso va innanzi tutto visto come idea che si propone la distruzione di ogni forma di autorità. L'anarchismo, pertanto, più che una forza storica perfettamente individuabile, si precisa come "un agente di emancipazione umana".

Analogamente a Nettlau anche Cerrito non identifica l'anarchismo con una precisa classe sociale, né lo individua legato ad un contesto storico particolare: le sue origini vanno dunque ricercate nei naturali impulsi umani verso la libertà perché esso è il frutto di una costante tendenza dello spirito umano, tendenza che nell'ottocento investe di "un significato particolare la questione sociale" in quanto la spiega alla luce della costante antiautoritaria. Anche per Cerrito, dunque, l'anarchismo si presenta innanzi tutto come una latente tensione storica e universale della libertà presente in tutto il corso della storia umana.

In questo senso l'anarchismo si differenzia dal marxismo perché concepisce la costruzione del socialismo come sviluppo di una autocoscienza individuale e collettiva, quindi come problema prioritariamente etico. In altri termini il socialismo non scaturisce automaticamente dalle contraddizioni del capitalismo, ma prima di tutto dalla volontà rivoluzionaria tesa a innestare in queste contraddizioni, e più in generale nella lotta di classe, un progetto globale articolato coerentemente fra fini e mezzi. Se è vero, scrive Cerrito, che il fattore economico condiziona lo sviluppo della coscienza socialista è però "del tutto incapace di suscitarlo" (29).

Due sono le grandi tendenze che Cerrito individua nell'anarchismo, entrambe ruotanti attorno al rapporto uomo-società e pertanto cariche di implicite conseguenze pratiche di carattere organizzativo: la prima considera l'uomo come "il prodotto della società", mentre l'altra lo vede come "completo in se stesso" (30). L'anarcosindacalismo è l'espressione estrema della prima tendenza, l'individualismo puro lo è della seconda. Queste due tendenze che nella realtà storica non sono mai state separate completamente, in quanto in ognuna delle due vive sempre un po' dell'altra, hanno con le altre correnti "miste" dell'anarchismo un sicuro punto in comune che è dato dalla lotta ideologica contro la tendenza moderna al totalitarismo e all'accentramento in tutti i campi della vita sociale. (31).

Partendo da questa considerazione di fondo, l'autore spiega la preponderante presenza dell'anarchismo nei paesi latini che, rispetto a quelli anglosassoni o comunque dell'Europa centro-settentrionale, sono ad un livello socio-economico meno evoluto. Tale livello implica necessariamente un minor grado di accentramento economico, di pianificazione e di uniformità sociale, favorendo così indirettamente uno sviluppo della concezione libertaria ed egualitaria tra le masse dei lavoratori, Questa spiegazione, precisa Cerrito, è ben diversa da quelle che vedono un diretto abbinamento tra anarchismo e arretratezza socio-economica o comunque che interpretano l'anarchismo come rifiuto ideologico del progresso economico: non è questo che egli contesta ma "la presunta necessità della relazione fra il medesimo e la struttura politica totalitaria della società".

Quest'ultimo punto di vista è proprio anche di Daniel Guerin che respinge tutte le interpretazioni storiografiche che tendono a vedere l'anarchismo come movimento sostanzialmente anacronistico rispetto alla vita moderna (32). Diversamente da Cerrito e da Nettlau Guerin però non individua l'anarchismo nelle perenni aspirazioni umane verso la libertà presente in ogni tempo storico, ma delimita questo ultimo al nodo fondamentale della Rivoluzione francese in cui vede la sicura genesi del movimento libertario (33). Solo perché nel corso dell'Ottocento l'anarchismo si definisce compiutamente come movimento distinto da tutte le altre correnti rivoluzionarie in quanto solo allora emerge per intero la "questione sociale" (34). Le origini dell'anarchismo vanno pertanto individuate in essa di cui esprime, partecipando alle vicende del movimento operaio, la soluzione teorica e pratica più radicale ed estrema.

Nella sua impostazione generale Guerin divide, in un certo senso, la storia dell'anarchismo in due periodi. Nel primo, che va da Proudhon e Stirner alla fine della Prima Internazionale, l'anarchismo si esprime più come elaborazione ideologica e teorica perché, a suo giudizio, nelle rivoluzioni del XIX secolo "non vi ha avuto un suo ruolo peculiare" (35), anche se era riuscito ad innestarsi in "un movimento di massa di carattere proletario, apolitico e internazionalista: "la Prima Internazionale"; nel secondo, che incomincia con gli anni Ottanta, l'anarchismo si definisce come azione storica precisa, distinta cioè da tutti gli altri movimenti socialisti.

L'azione e l'ideologia anarchica attingono, secondo Guerin, da due fonti di energia: l'individuo e le masse. L'anarchismo, però, specificatamante, non è che "una delle tendenze del pensiero socialista" per cui ogni anarchico, a giudizio dell'autore, è necessariamente socialista (mentre non è detto che ogni socialista sia anarchico) anche se in pari tempo conserva una fondo irriducibile di individualismo. I due poli, già messo in luce - come abbiamo visto - da Cerrito, non sono però equamente presenti nell'esposizione di Guerin, che privilegia decisamente l'aspetto socialista dell'anarchismo. Ne deriva, implicitamente, una insufficiente presentazione del pluralismo ideologico e fattuale dell'anarchismo: Stirner, per esempio, è visto - a nostro avviso - come anticipatore del federalismo di Proudhon, Bakunin e Kropotkin (46), Così, per un altro verso, l'azione individualistica, che sfociò alla fine del secolo scorso in alcuni atti terroristici, è interpretata soprattutto come conseguenza dell'isolamento del movimento anarchico rispetto alle masse operaie (37). In altri termini, sembra che per l'autore l'individualismo anarchico non abbia vera e propria autonomia storica. Questa interpretazione deriva dalla sua personale concezione ideologica che, a più riprese, si è manifestata come tesi marxista libertaria (38). La sua interpretazione dell'anarchismo, pertanto, sebbene sostanzialmente corretta ed equilibrata, risente di questa impostazione di fondo che tenta una sintesi combattuta e criticata (39) fra marxismo e anarchismo.

Un'analisi e una valutazione dell'anarchismo, soprattutto in chiave di filosofia della storia - più che alla luce di un vero punto di vista storiografico - si può invece rintracciare nel lavoro di Arvon. L'anarchismo, a suo giudizio, ha tre fondamentali fonti culturali e ideologiche che si intersecano in una complessa e a volte contraddittoria matrice genetica: l'individualismo razionalista francese, l'idealismo assoluto tedesco e, in parte, il cristianesimo delle origini. Il primo, portato alle estreme conseguenze, porterà all'affermazione della sovranità dell'individuo rispetto ad ogni coercizione, il secondo, anch'esso estremizzato, sarà, nella linea Hegel-Feuerbach, Stirner e Bakunin, causa della rivolta contro tutte le alienazioni, infine, il terzo, sfocerà nel sentimento immanentistico della Giustizia (40) (e a questo proposito H. Arvon ricorda giustamente Proudhon).

L'anarchismo, che per l'autore è un "fenomeno storico dalla durata limitata", legato soprattutto al XIX secolo, esprime la propria autenticità, almeno come pensiero, solo con cinque pensatori considerati fondamentali: Godwin, Stirner, Proudhon, Bakunin, Tolstoi. Arvon spiega infatti che il criterio che l'ha spinto a non considerare allo stesso modo anche autori come Kropotkin e Grave è dato per l'appunto dal fatto che questi, appartenendo all'età matura dell'anarchismo, non hanno costruito, come i loro predecessori, i fondamenti teorici "pietra su pietra": l'origine dell'anarchismo è dunque, per Arvon, anche la sua originalità. Esso, pertanto, invece di essere considerato nel suo ciclo storico completo, è ridotto sostanzialmente alle formulazioni teoriche iniziali che ancora non si sono fatte storia nello sviluppo concreto del movimento anarchico specifico (41).

Il giudizio sull'anarchismo come fenomeno storico sostanzialmente limitato ad un periodo abbastanza preciso non spiega, però, un'altra affermazione dell'autore che, nel rilevare il conflitto fra marxismo e anarchismo, nota giustamente, anche se con esagerazione, come il primo abbia sempre rimproverato agli anarchici "l'antistoricismo della loro dottrina che gli impedisce una qualsiasi apertura sul divenire storico". Con questa precisazione Arvon sembra implicitamente ammettere una presenza "indistruttibile" (42) dell'anarchismo che, proprio in quanto movimento antistoricistico, è irriducibile ad una identificazione con un'epoca storica precisa. Del resto lo stesso autore afferma che la sua essenza, al di là delle multiformità delle sue correnti, è riconducibile ad un principio, quello dell'autonomia dell'individuo che è ben lungi dall'essere esaurito e risolto.

Rispetto al rapporto stato-società si palesa infine, nel confronto fra marxismo e anarchismo, l'autenticità di quest'ultimo: per il primo si tratta di sopprimere ogni scissione e ogni alienazione fra i due termini e pertanto è necessario "reintegrare lo Stato nella società e riconciliare il cittadino e il borghese"; per il secondo, invece, si prospetta la soluzione di un "rifiuto puro e semplice dello Stato e la ricostruzione della Società secondo i principi extrastatuali". Diversamente dalla fondatezza di questi giudizi abbiamo invece una discutibile valutazione della diversità fra anarchismo e democrazia. A suo giudizio, infatti, l'anarchismo nella critica alla democrazia come forma demagogica di governo, di popolo, finisce per assumere un punto di vista reazionario, perché non propone qualcosa di realisticamente più perfettibile, ma solo un rifiuto assoluto che implicitamente favorisce la conservazione. Allo stesso modo anche il nesso fra teorizzazione della "propaganda del fatto" e terrorismo ci pare per lo meno azzardato e superficiale: è tutt'altro che dimostrata la consequenzialità fra la teorizzazione del primo termine e la pratica del secondo (43). L'Arvon, insomma, per quanto riguarda una rigorosa ricostruzione storica è lungi dall'averne delineato i caratteri fondamentali anche se, dal nostro punto di vista, ha intuito felicemente alcuni aspetti dell'essenza stessa dell'anarchismo.

Sempre da un punto di vista più filosofico (o di filosofia della storia) che storiografico si situano anche i giudizi e le valutazioni di alcuni studiosi di ispirazione più o meno conservatrice: Armando Plebe, Jean Servier, Quirino Principe, Kostas Papaioannon e Hans Sedlmayr (44). Ad esempio per il primo l'anarchismo è implicitamente un movimento sostanzialmente individualistico: a suo giudizio, infatti, Stirner è il suo "primo o maggiore teorico" (45). Riprendendo la distinzione di quest'ultimo fra rivolta e rivoluzione, la prima intesa come pura insurrezione distruttiva, la seconda come trasformazione positiva della società, egli afferma che l'anarchismo è rivolta e pertanto nemico "di ogni possibile società" (46). Inoltre per Plebe l'anarchismo presenta un'intima contraddittorietà fra le proprie aspirazioni e la prassi quotidiana che continuamente la nega. Anche per Jean Servier, sebbene l'anarchismo esprima due tendenze "l'una opposta all'utopia e prossima alle correnti millenariste, almeno nel loro spirito: la tendenza individualista; l'altra invece che si ricollega per un buon numero dei suoi aspetti alle utopie: la tendenza comunista" (47), il fondo di ogni anarchico è sempre basato sull'individualismo. Partendo da una posizione spiritualista Quirino Principe, invece, pur riconoscendo all'anarchismo il grande merito di aver compreso l'iniquità e "la violenza dello stato moderno" (48) lo accusa tuttavia di non aver saputo intendere la distinzione fra la precedente autorità sacerdotale e la nuova e moderna autorità politica, che ha sostituito al "cielo della metafisica" il tetto più angusto e più basso de "la società statale".

Con un punto di vista sostanzialmente analogo a questi ultimi autori, si presenta pure il volume di Rudolf Kramer-Badoni (49), che tenta una valutazione politica e ideologica dell'anarchismo storico alla luce del revival degli ultimi anni. Il risultato ci sembra scarsamente interessante perché le motivazioni politiche dell'autore risultano preponderanti rispetto ad una serena visione storica. Alternando nella trattazione le esperienze passate con quelle odierne, Kramer-Badoni vorrebbe offrire materia di riflessione specificatamente politica. Ne risulta, più che una ricostruzione storica, un affastellamento di episodi assunti a criterio di esemplarità esaustiva dell'intero movimento; i fondamenti teorici come l'azione pratica vengono presentati senza una continuità, salvo forse la costante rilevanza della violenza che a giudizio dell'autore è parte necessariamente integrante dell'anarchismo.

Due sono a suo giudizio i motivi dell'insuccesso storico dell'anarchismo: da una parte la mancanza di una costante organizzazione, dall'altra la ostinata sottovalutazione del socialismo autoritario che nella Rivoluzione russa e in quella spagnola ha reso impossibile, con la sua azione controrivoluzionaria, la realizzazione del progetto socialista libertario. Questa debolezza nei confronti del marxismo deriva per Kramer-Badoni della contemporanea concordanza che, in alcuni punti fondamentali, lo accomuna ad esso. La mancanza di una vera autonomia storica dell'anarchismo deriva pertanto, per l'autore, da questa impotenza nei suoi confronti che non gli permette di portare fino in fondo tutte le sue premesse antiautoritarie.

Come è facile osservare, tutti questi studiosi, siano essi di ispirazione marxista, democratica o reazionaria, non solo non concordano sulla natura storica dell'anarchismo, ma nemmeno sulla sua natura ideologica. A questo punto allora ci si chiede: cosa significa fare un discorso sulla storia e sull'ideologia dell'anarchismo?

Crediamo di rispondere affermando che innanzitutto va posta, per la forza dell'evidenza, una considerazione di carattere generale: l'anarchismo è, per vocazione ideologica, un progetto di emancipazione integrale e universale dell'uomo. La negazione di ogni forma di autorità economica, politica, religiosa, morale, intellettuale, ecc. e la conseguente uguaglianza fra tutti gli individui sulla base della più assoluta libertà non riguardano questa o quella razza umana, ma l'uomo o, se si vuole, tutti gli uomini della terra.

Ma se l'anarchismo vuole ed ha voluto essere, per vocazione ideologica, espressione teorica dei valori universali di emancipazione umana, come va conciliata tale vocazione tendenzialmente universale con il fatto concreto di essere stato storicamente - per vocazione strategica - espressione solo delle classi inferiori e sfruttate? In altri termini ci si chiede: dove bisogna reperire la conferma storica della sua aspirazione ideologicamente universale dal momento che il suo percorso temporale non ha coinvolto tutti gli uomini e tutte le classi sociali? Per sciogliere questo nodo teorico bisogna rispondere a nostro avviso in questo modo: l'anarchismo è stato l'espressione storica non di una precisa classe sociale (come il liberalismo lo fu grosso modo per la borghesia ed il marxismo per la classe operaia), ma della pratica emancipatrice rivoluzionaria di tutti quei gruppi e individui - di estrazione quasi sempre popolare - che si sono posti di fatto in lotta aperta contro lo sfruttamento e l'autoritarismo di ogni genere e di ogni tipo. La dimensione tendenzialmente universale non è dunque riferita ad un preciso qui ed ora, circoscritta cioè nel tempo e nello spazio secondo canoni prestabiliti, ma alla tensione emancipatrice di queste "parti" (classi, gruppi, individui, ecc.) prese nella loro dinamicità rivoluzionaria: l'azione diretta, la libera sperimentazione, l'autogestione e l'autoeducazione, il mutuo appoggio, ecc., sono infatti tutte sequenze di una idea praticamente emancipatrice, sono cioè tutti momenti di un eguale sforzo liberatorio teso a mettere in opera i valori universali della libertà e dell'uguaglianza.

La conferma di questo giudizio emerge necessariamente dal fatto che l'anarchismo è contemporaneamente internazionalista e rivoluzionario perché se la vocazione tendenzialmente universale dei suoi valori ideologici si esprime nella pratica rivoluzionaria, la conferma di tale pratica emerge proprio in virtù delle variabili spazio-temporali della sua dimensione internazionalista: costante rivoluzionaria e variabili storiche sono dunque due facce di una stessa medaglia.

Se questa è l'espressione dinamica dell'anarchismo quale è dunque la natura ideologica a cui tale dinamicità fa riferimento? Crediamo non vi sia altro modo di rispondere se non raffigurando la struttura portante delle condizioni imprescindibili di ogni discorso anarchico, vale a dire le due dimensioni intrecciate della sua integralità. La prima, di natura spaziale, si specifica nella visione socio-economica che caratterizza il suo progetto: integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra città e campagna, fra centro e periferia, fra vertice e base, ecc., l'edificazione cioè delle condizioni materiali considerate fondamentali per realizzare le libertà e l'uguaglianza; la seconda, di natura temporale, si specifica invece nella sua strategia operativa che così si può riassumere per segno negativo: non possono darsi tutte le condizioni della libertà se non si danno contemporaneamente tutte quelle dell'eguaglianza e viceversa. Queste due dimensioni rappresentano il punto teorico di confluenza fra la tradizione liberale individualista di stampo illuminista da una parte e quella socialista dall'altra. I due momenti sono interagenti nel senso che la società si trasforma nello stesso tempo in cui si libera l'uomo e viceversa. Del resto l'esperienza storica dataci dall'anarchismo nella sua duplice veste di internazionalità e di rivoluzione conferma il legame indissolubile che lega l'edificazione della libertà con quella dell'eguaglianza, conferma cioè il suo presupposto strutturale di fondo: queste due istanze non sono altro che due aspetti di una stessa dimensione, due modi diversi di una eguale realtà al cui centro geometrico sta l'uomo.

L'inestricabile connessione che lega i piani interagenti della libertà e dell'eguaglianza costituisce dunque non solo la fonte diretta del rifiuto anarchico di una pretesa oggettualità del processo storico, ma esprime anche, per converso, tutta la fiducia propria della concezione rivoluzionaria: la convinzione della possibilità radicale del mutamento, della possibilità progettuale dell'uomo. Questa possibilità, che non significa ovviamente la svalutazione totale delle condizioni storicamente date, è esplicita in tutta l'attività teorica e pratica dell'anarchismo perché esprime, come abbiamo già visto, uno dei suoi caratteri storici fondamentali: l'aspetto rivoluzionario. Esso emerge dalla considerazione - già fatta - che l'anarchismo non è l'espressione storica di nessuna precisa classe sociale subalterna, ma della pratica sovversiva e liberatoria di tutte quelle classi che si sono poste e si pongono di fatto in lotta aperta contro ogni disuguaglianza e ogni potere.

(3. fine)

(28) G. CERRITO, Sull'anarchismo contemporaneo..., p. 9. Lo stesso giudizio, ripreso proprio dal Cerrito, si trova anche in Mariella Nejrotti, Cfr. M. NEJROTTI, Introduzione a M. BAKUNIN, Rivolta e libertà, Roma, 1973, p. 32.

(29) Ibid., p. 29, A questo proposito Cerrito riporta una acuta osservazione di Leo Valiani il quale scrive che "le componenti politiche della ascesa del movimento operaio e socialista non si lasciano spiegare soltanto con lo sviluppo materiale della classe operaia medesima, dovuto del resto, in primo luogo, a condizioni economiche e tecniche create dal modo di produzione impersonificato da imprenditori capitalistici; sicché una storia della classe operaia che non valutasse quanto dei successi sindacali o politici operai è dovuto alle correnti ideologiche, si ridurrebbe alla storia del capitalismo medesimo". Ibid., pp. 26-27.

(30) G. CERRITO, Il ruolo dell'organizzazione anarchica, Pistoia 1973, p. 23. Lo stesso punto di vista è anche di Bernard Thomas, il quale ha scritto che l'anarchismo si divide in due correnti: da una parte i socialisti libertari che vogliono "cambiare la società prima dell'uomo", dall'altra gli individualisti che propugnano la trasformazione "dell'uomo prima della società". B. THOMAS, Prefazione a AA. VV., Che cosa hanno veramente detto gli anarchici, Roma, 1969, p. 8.

(31) In questo senso Cerrito concorda con l'interpretazione di Woodcock, che non considera sostanzialmente negativa. G. CERRITO, Sull'anarchismo contemporaneo..., pp. 25-26.

(32) Cfr., a questo proposito, le critiche, peraltro estremamente sfuggenti, agli storici Jean Maitron, George Woodcock e James Joll. D. GUERIN, L'anarchismo dalla dottrina all'azione, Roma, 1969, p. 168; si veda anche D. GUIERIN, (a cura di), Né dio, né padrone. Antologia del pensiero anarchico, Milano, 1971, vol. I, p. 11.

(33) D. GUERIN, La lutte de classes sous la Prémiére Republique, bourgeois et "bras nus" (1793-1797), Paris, 1946; ID, Jeunesse du socialismo libertaire, Paris, 1959, pp. 31-32 e pp. 51-56.

(34) Non si può spiegare in altro modo, dal momento che non vi è una esplicita delucidazione, l'assenza di Godwin nella schiera dei teorici anarchici da lui esaminati più volte in varie opere.

(35) D. GUERIN, L'anarchismo dalla dottrina..., p. 77.

(36) D. GUERIN (a cura di), Né dio né padrone..., vol I, p. 19. Questo discutibile riallacciamento si ripete anche nei confronti di Proudhon che è visto, per la multiformità del suo pensiero, come iniziatore di correnti che assumeranno poi storicamente dei caratteri differenziati se non opposti. Ibid., pp. 55-56.

(37) D. GUERIN, L'anarchismo dalla dottrina..., p. 78. Altrove Guerin parla dell'individualismo terroristico come di "deviazione" dalla via maestra. D. GUERIN (a cura di), Né dio né padrone..., vol I, p. 11.

(38) Si veda a questo proposito D. GUERIN, Le marxisme libertaire, in AA.VV., Anarchici e anarchia..., pp. 442-457; ID, Pour un marxisme libertaire, Paris, 1969.

(39) Cfr. le critiche da parte anarchica di G. ROSE, Le aporie del marxismo libertario, Pistoia, 1971, e da parte marxista di G.M. BRAVO, Introduzione a K.MARX - F. ENGELS, Marxismo e anarchismo, Roma, 1971, p. 26.

(40) H. ARVON, L'anarchismo, Messina-Firenze, 1973, pp. 17-22.

(41) Il volume termina infatti con la affrettata ricostruzione dell'anarcosindacalismo francese, lasciando fuori così la Rivoluzione russa e quella spagnola.

(42) Cfr. a questo proposito L.MERCIER-VEGA, L'increvable anarchisme, Paris, 1970.

(43) A suo giudizio non solo vi è una diretta filiazione, ad esempio, fra le teorizzazioni di Bakunin e il terrorismo di fine secolo, ma anche vi è una vera e propria volontà di violenza e di terrore che sembra pensata a tavolino e non invece scaturita da precise condizioni storiche e sociali del tempo. Qui, ancora una volta, emerge l'insufficienza soriografica del suo lavoro. Ibid., pp. 55-56 e pp. 104-105. Lo stesso punto di vista si può trovare anche in H. Arvon, Bakunin, Milano, 1970, p. 96. (V.M. CONFINO).

(44) AA. VV., Anarchismo vecchio e nuovo, Firenze, 1971.

(45) A. PLEBE, Max Stirner e le origini dell'anarchismo, in AA. VV., Anarchismo vecchio..., p. 12. Val la pena sottolineare che all'epoca di questo suo saggio Plebe non si era ancora rivelato per quel reazionario che è (la sua entusiastica adesione al M.S.I. ne è una prova inconfutabile).

(46) Ibid., p. 23. Secondo il Plebe, pertanto, esso si propone di "distruggere senza preoccuparsi di quello che verrà dopo". Ibid., p. 20. A fronte di questa discutibile tesi si veda l'acuta interpretazione di Giorgio Penzo. G. PENZO, Max Stirner. La rivolta esistenziale, Torino, 1971.

(47) J. SERVIER, Anarchismo, utopismo, millenarismo, in AA. VV., Anarchismo vecchio..., p. 87.

(48) Q. PRINCIPE, Anarchismo e movimenti giovanili, in AA. VV.., Anarchismo vecchio..., p. 101.

(49) R. KRAMER-BADONI, Anarchia, Milano, 1972.