Sulla forma partito

... ma il partito è peggio

 

La forma partito è in crisi semplicemente perché non funziona; nata insieme alle ideologie sorte con la rivoluzione industriale e gli stati nazionali; guasti e sconfitte da essa prodotti sono oggi chiaramente visibili a tutti

Con l'inizio dei nuovo decennio la crisi della forma partito ha ormai raggiunto un'accelerazione ed una profondità senza precedenti, elementi questi pienamente comprensibili solo se si inquadra il processo in corso all'interno di coordinate assai più ampie. Non solo nella più generale perdita di legittimazione di establishment, burocrazie e partitocrazia, di fronte ad una società civile a volte più matura ed avanzata del "ceto politico" che pretenderebbe di governarla, società comunque sempre più estranea e distaccata dagli apparati, ma anche nell'irreversibile caduta di credibilità dell'entita partito come strumento di liberazione.

Ciò che rimane, e che sostanzia l'esistenza residua dei partiti, fra l'altro nella loro stretta generale omologazione alla logica delle compatibilità politiche e di sistema, in un gioco che non prevede più opposizioni reali, sono gli apparentamenti ed il consociativismo propri delle clientele, dei conflitti di interessi e della mediazione, della lotta per le spartizioni ed "il potere". Il gioco della parti è il risultato di una spartizione avvenuta a monte, all'interno di un quadro dato a partire da un'altra compatibilità, la più sostanziale: quella della delega e dell'occupazione o della conquista dello stato.

Si tratta di un processo a catena che assume ovviamente forme diverse nei paesi "ex socialisti", nei regimi sud americani o asiatici "ex fascisti" o dove vige tuttora il monopartìtismo di "destra" o di "sinistra", in Europa occidentale e negli Usa.

Le differenziazioni traggono origine dalla varietà delle situazioni di partenza, ma è ora di accorgersi della portata planetaria ed epocale di tale processo. Al di là delle timide e controverse risposte fornite dalla società civile, disabituata a pensarsi in prima persona e a scendere sul terreno progettuale andando oltre la semplice ricusazione, la forma partito è in crisi semplicemente perché non funziona.

Nata, nella sua accezione moderna, insieme alle ideologie sorte parallelamente alla rivoluzione industriale ed agli stati nazionali europei, guasti e sconfitte da essa prodotti sono, a fronte della mutazione socio‑economica generale e delle nuove contraddizioni, oggi chiaramente visibili a tutti. Cambiano i parametri, cambiano le figure, unico a non segnare il passo è il treno della ristrutturazione, guidato indifferentemente da capitale privato e/o di stato.

Di fronte ad una crisi di tale portata ‑ che è anche crisi delle forme e delle strategie che essa ha assunto e veicolato ‑ quel che resta della sinistra risponde "chiamandosi fuori" o cambiando di campo o con un arroccamento difensivo incapace di un distacco dalla cultura centralista del partito, oppure spacciando per "nuove" forme politiche di matrice liberal democratica.

Modelli di questo secondo tipo, presidenzialismo, partiti manageriali e consociativi, proposte di riforma elettorale, improbabili riconversioni transnazionali dell'ottica partitocratica nel cerchio radicale, il nuovo patto sociale di un ambientalismo a senso unico, il "Partito Democratico della Sinistra" di Occhetto, tracciano un'ellisse che ricongiunge ormai idealmente l'Est europeo alle botteghe di casa nostra.

Il tentativo è quello di occultare le burocrazie partitiche in un "nuovo" rapporto a partecipazione limitata ove si sancisca definitivamente l'impossibilità del cambiamento radicale ed ancora una volta l'imposizione di un'ottica gestionale ad unico consumo di un'élite di professionisti della politica forti dell'imprimatur dei media, gestori di un sapere sempre più complesso, privilegiati socialmente ed economicamente. Fanno da terreno di coltura le indubbie sconfitte di opzioni presentate come radicali, nate, cresciute e morte però nella scia dell'etero direzione e della dittatura di altre élites ("professionisti della rivoluzione") nel nome del medesimo "interesse generale".

Di contro, le istanze di democrazia diretta forti nella fase nascente dei movimenti dell'Europa Orientale o nell'ambito Verde ad Occidente, sono oggi minoritarie: il malessere, il disorientamento e la contraddizione si esprimono così seguendo scansioni preordinate, nell'abbandono della forza critica, nell'autogestione della miseria dei ghetti metropolitani e della periferia dell'impero, nell'astensione senza alcuna azione al seguito, nel successo dei movimenti nazionali o delle leghe regionali trainati da borghesie scioviniste e nuovi diffusi egoismi.

Del resto il modello centralista e giacobino del partito leninista e quello di partiti e liste "leggere", club, lobbyes ed associazioni organizzate managerialmente, hanno in comune elementi fondamentali: pretendono tutti di porsi al di sopra della società ed hanno per fine l'uso e/o la conquista dello stato e del potere; la logica leninista pretendendo in più di poter usare a fini emancipatori un apparato che il marxismo stesso definisce quale struttura fondamentale atta a garantire il dominio di classe, senza che tale dominio si riproduca e nell'illusione di un suo "naturale" deperimento a "guida proletaria".

Esiste invece un'altra tradizione, non solo europea (vedi le "società contro lo stato" di clastriana memoria o la logica antiaristotelica che ha dato origine già negli anni '60 all'importante filone dell'ecologia sociale di Murray Bookchin), che opera per una rivoluzione delegittimante, per lo svuotamento del potere, per una riconversione etica della politica, che svuota di senso i machiavellismi per mezzo dei quali una certa sinistra ha governato e la pretesa di poter operare una transizione democratica per mezzo della dittatura.

Si tratta di un'altra sinistra "storica", ma ciò non di meno spesso affogata o "sommersa", che non si è mai omologata alla ragion di stato e per la quale il fine non giustifca i mezzi. Mai abbagliata da meccanismi economicisti secondo i quali sarebbe possibile l'uguaglianza senza libertà, o dall'impostazione liberale che millanta una piena libertà politica senza emancipazione economica. Le organizzazioni anarchiche o l'anarchismo spontaneo e diffuso, i movimenti nonviolenti (realtà volentieri ignorate da chi la nonviolenza utilizza oggi strumentalmente a vantaggio di partiti o associazioni "soft"), parte del movimento femminista, l'arcipelago ecologista libertario (vedi in Italia l'area della rivista "AAM Terra Nuova"), spezzoni di quella nuova sinistra alternativa nata nel '68 e rivitalizzatasi nel '77, alcuni dei quali oggi purtroppo si esprimono solo in forma minoritaria all'interno di Democrazia Proletaria o dell'Autonomia Operaia, sono espressione di tale mai sopita tradizione. Comunità alternative, sistemi di difesa popolare nonviolenta, comitati di base, centri sociali, coordinamenti di agricoltori biologici, collettivi studenteschi, cooperative di riciclaggio, gruppi di cultura e solidarietà internazionalista, sono stati e sono in varia misura espressione di questo magma eterogeneo accomunato dalla rottura netta rispetto al modello del partito, leninista o liberal-democratico che sia.

di Marco De Bernardo e Stefano d'Errico