L'utopia come gioia
di Jean-Jacques Lebel

I capi religiosi tupi-guarany, di cui parlava Pierre Clastres, descrivevano con entusiasmo - per controbilanciare gli ordini di mobilitazione dei capi guerrieri - una contrada meravigliosa verso la quale "sarebbe meglio" che tutta la tribù si mettesse in marcia. Questo luogo immaginario, questa città ideale, secondo loro, era paradisiaca perchè "le donne erano di tutti e le frecce partivano da sole". Niente di meglio per un capo religioso che fare appello ai desideri dei suoi fedeli. Calcolo scaltro, questo, basato sul fatto che nelle società indie senza stato le guerre tribali venivano dichiarate sopratutto per catturare le donne dei vicini nemici e che la promessa delle "frecce che partono da sole" equivaleva, per dei cacciatori di selvaggina, all'ottenimento definitivo del diritto alla pigrizia.A mio avviso non esiste uno scarto qualitativo tra l'utopia sociale dei profeti della società senza stato, studiata da Clastres in Amazzonia, e le visioni formulate dai socialisti utopici del XIX e XX secolo in Francia, in Russia e in America. Qualunque utopia rivoluzionaria si basa sul desiderio di trasformare da cima a fondo il sistema di funzionamento della macchina sociale e culturale, e qualunque costruzione della città ideale implica un cambiamento radicale in almeno due settori: la sessualità e il lavoro. La maggior parte delle città ideali, se non tutte, propongono molto più sesso e molto meno lavoro. Sono le utopie di tipo libertario che portano, o dicono di portare, i colori della libertà, dell'anarchia, della felicità umana e del piacere se non assoluto, almeno totale. Al contrario, i progetti che più spesso vengono realizzati - sotto il capitalismo di stato o "liberale" - propongono e impongono molto più lavoro è molto meno sesso. È l'esatto contrario della città ideale dal punto di vista libertario. È dall'attuazione di questa città, non ideale bensì da incubo, che si profila all'orizzonte della società industriale o della società nucleare post-industriale, che il movimento del maggio '68 e gli altri movimenti sociali della stessa natura hanno voluto e vogliono sfuggire. Non dispiaccia ai poliziotti e ai beccamorti di completa obbedienza se del '68 resta, in effetti, qualcosa di indimenticabile, incancellabile - oltre al piacere inaudito che procura l'azione rivoluzionaria - e sono le scritte murali fiorite un po' dovunque. Vi ricordate che il famoso gioire senza limiti dei situazionisti, impossibile da realizzare come tutte le grandi parole d'ordine poetico, provocò una enorme reazione sia degli stalinisti (soprattutto del sinistro psichiatra Muldworf che imperversava sull'Humanité e su la Nouvelle Critique, e di Séguy che, durante un congresso della C.G.T., amalgamò "la pornografia e la violenza") sia degli ideologi del vecchio regime (Cau, Dutourd, Marcellin, Peyrefitte, ecc.). Questa reazione paranoica che prendeva alla lettera un altro celebre graffito - "Prendete i vostri desideri per la realtà" - cercava di identificare, isolare e denunciare le tendenze più radicali del movimento del maggio '68. A questi gli arrabbiati risposero: "Più io faccio la rivoluzione, più io ho voglia di fare l'amore". Ritorno di "io" nella storia, da non confondere con il "noi" più cristiano e conformista dei capelloni anglosassoni ("Noi siamo tutt'uno", cantavano i Beatles; "Noi vogliamo il mondo e lo vogliamo subito" cantavano i Doord).Senza dubbio non vi è memoria storica, o molto poca, ma, in ogni caso, esistono grandi momenti di forte intensità in cui la separazione tra "passato", "presente" e "futuro" non ha senso: l'utopia sorge nel reale in modo rovesciato, pressoché atemporale. Nel '68 si è visto anche fiorire sul muro esterno del convento delle religiose dell'Avenue de l'Observatoire uno slogan conciso e assolutista riferito per antitesi precisa alla condanna della Comune da parte di Monsieur Thiers: "Gioisci!". Sì, d'accordo, ma come? E con chi? Le religiose, che in seguito si sono vantate di aver contribuito al maremoto gollista nelle elezioni legislative del 1969, erano probabilmente dall'altra parte del muro di cinta in procinto anch'esse di mettere in pratica una certa forma - molto diversa - di godimento. Forse meditavano sugli scritti di Santa Teresa di Lisieux, che bisognerebbe riabilitare come analista del piacere masochista, mentre è stata giudicata ingiustamente e affrettatamente da Pierre Mabille. Ecco una santa che non si è fatta scrupolo di esaltare il godimento supremo della rinuncia, l'estasi del non-godimento: "Oh! Quale gioia provo a vedermi distruggere!" - nello stesso tempo veggente e guardona - e poi: "Sono ben felice che la carne mi disgusti come il resto, perché almeno non vi trovo piacere". Non è un caso che una certa religiosità si sia ripresentata, negli anni '70, tra molti sinistresi e femministe. Chiodo schiaccia chiodo.Bisogna domandarsi se, in epoche diverse, la vita di clausura, "liberamente scelta" o imposta con la violenza - non come la tebaide rebelaisiana ma come la reclusione monacale imperniata sulla negazione fobica della sessualità - non è servita come modello al campo di concentramento, soluzione finale del problema del desiderio. Sono infatti i gesuiti del XVI secolo che hanno inventato i "campi di concentramento" - contemporaneamente campi di lavoro e penitenziari - in cui furono incarcerati gli indios amazzonici, allergici al lavoro poiché "congenitamente pigri e sognatori", indios che i coloni hanno in seguito sostituito con gli schiavi africani per mancanza di manodopera. Io non so qual è o quale sarà la città ideale ma so che cos'è il suo contrario: il campo di concentramento, il cui funzionamento riduce a zero o quasi la sessualità per moltiplicare, nello stesso tempo, la quantità di energia redditizia dello schiavo. Questa utopia al rovescio è stata realizzata da nazisti e stalinisti. "Arbeit macht frei". In altre parole, nella città ideale al contrario, quella dei fascisti, non sono il piacere o il "godimento", con o senza limiti, che permettono di arrivare alla libertà utopica, bensì il lavoro forzato e il divieto di godere.Resta da fare uno studio comparativo dei differenti tipi di reclusione - campi della morte, prigioni, ospedali psichiatrici, monasteri/conventi, bordelli - in quanto massime applicazioni razionali del principio di rendimento e città modello interamente consacrata alla redditività, al lavoro. Turba il fatto che la reclusione imposta ai devianti, alle minoranze etniche o libidinali dagli stati totalitari, con diverse gradazioni di barbarie, contengano ancora oggi un ideale, un modello di purezza e di ordine religiosi. Il suicidio collettivo in Guaiana della Chiesa del Popolo - una setta composta in maggioranza di ex militanti leninisti e di membri di minoranze razziali raggruppate in un ghetto politico-religioso - sembra essere la dimostrazione delle finalità dell'anti-città ideale.Si impone quindi una distinzione tra le utopie totalitarie e le utopie non intenzionali (per riprendere il termine usato da John Cage per descrivere la sua pratica musicale). Io preferisco l'utopia aperta all'utopia chiusa, preventivamente definita da intenzioni dogmatiche e da una precisione che si pretende "scientifica". La nascita di una città di libertà implica un mutamento, una partenza verso il non conosciuto, il non detto, l'inaudito. Osare uscire dallo schema, abbandonare le regole normative, in breve, inventare in modo ludico e gioioso altri codici, altri concetti, altre culture, quindi un'altra società. Per consacrarsi all'invenzione - in poesia, in filosofia, in musica o in politica, - è necessario essere completamente autonomi, non appartenere a niente e a nessuno, non aderire a nessun dogma, non sottomettersi ad alcuna chiesa, ad alcun partito, ad alcuna istituzione coercitiva. Ora, in Francia, in Italia, attualmente vi è libertà solo nei margini. La paralisi e la costrizione che reggono le istituzioni politiche e culturali spengono ogni creatività, ogni spirito innovatore.E arrivo ai ruoli concorrenti, spesso antitetici e conflittuali, tra i capi di guerra, i capi religiosi, i capi politici e gli artisti (nel senso nietzschiano dell'artista filosofo, evidentemente, non del clown commerciale). Chi sarà ad assumere la funzione essenziale per la sopravvivenza stessa della società che consiste nell'immaginare, nell'inventare la società futura? Funzione che consiste anche nell'uscire dalle norme, nel cambiare le regole del gioco sociale e culturale.Cambiare la vita era lo slogan principale del Partito Socialista durante le elezioni del 1974. Questo partito è divenuto, in seguito, il partito dominante in Francia e questa vittoria storica ha creato, in effetti, una situazione relativamente inedita. All'epoca aveva scioccato molti - me compreso - che un partito parlamentare, una macchina per la conquista e l'esercizio del potere politico, "recuperasse" la visione di Arthur Rimbaud già mediata dal gruppo gauchiste "Vive la Révolution" e, prima, dal gruppo surrealista e da André Breton, che aveva accoppiato la visione di Rimbaud a quella di Marx: trasformare il mondo. È stato dunque necessario un secolo perché un partito politico, divenuto partito di governo, nei discorsi elettorali dei suoi dirigenti facesse sua l'immagine desiderante di Arthur Rimbaud. Meglio tardi che mai, certo, ma come mai i politici, anche di sinistra o di estrema sinistra, hanno sempre un secolo o più di ritardo rispetto ai rivoluzionari, ai poeti e ai filosofi? Che ne è della funzione profetica degli artisti visionari e degli utopisti radicali in queste condizioni particolarmente cattive di ascolto e di apertura di spirito? Cambiando registro e passando dal campo dell'immaginario al campo sociale, dell'utopia cosa si materializza e cosa resta irrealizzato? E cosa si realizza al contrario, come il progetto leninista sotto forma di gulag, o come in Svezia sotto forma di incubo capitalista cogestito dalle istanze padronali e sindacali? Non è sufficiente rovesciare semplicemente la struttura della città nazista o stalinista per ottenere una città ideale.Oggi, qui, molto dipende da noi, da noi tutti, dalle nostre lotte, dalle nostre proposte, dai nostri desideri, dai nostri atti, che una parte importante del progetto di città ideale divenga realtà. Per ciò che mi riguarda io preferisco utilizzare la mia energia nell'utopia concreta, realizzabile a breve o medio termine. Per ciò che riguarda la convivialità e i modi di produzione e di distribuzione della cultura dobbiamo, in primo luogo, sbarazzarci, se necessario con la forza, di qualunque dittatura, di qualunque coercizione burocratica. Bisogna finirla con la superamministrazione, con la tutela dei burocrati sulle attività creatrici. Bisogna finirla con tutti i dispositivi di controllo politici o religiosi che appesantiscono e castrano i processi creativi individuali o collettivi. Costruiamo circuiti diretti di produzione e di diffusione occupando o ottenendo nei quartieri luoghi di incontro che siano anche luoghi di produzione e di diffusione della cultura vivente e diversificata. Tali luoghi esistono da molto tempo ad Amsterdam, Bruxelles, Amburgo, ma non in Francia, che ha un enorme ritardo culturale a causa del centralismo dispotico. Finiamola con l'uniformizzazione e la centralizzazione in tutti i settori della vita sociale e culturale. Quello che ha fatto la Lip per l'industria orologera a Palente - "Si fabbrica, si vende, ci si paga": autogestione in atto di energie creatrici, dell'organizzazione, della finalità e della diffusione del lavoro - perché non farlo nel settore del teatro, della musica, della danza, della poesia, del cinema, delle radio e televisioni libere, degli altri mezzi di espressione separati o, al contrario, cooperanti l'uno con l'altro? Il mezzo migliore per mettere fine alla paralisi dovuta alla superamministrazione, nel settore culturale come altrove, è di fare altro, altrove. Abbandoniamo il "Centro" Beaubourg al Ministero del Turismo, così come la Tour Eiffel e il Sacré Coeur, e costituiamo unità di produzione e di diffusione, sia fisse che mobili, tribù nomadi di creatori e di creatrici capaci di trasversalizzare le arti e le tecniche, di produrre situazioni nuove, di creare scambi e relazioni di diversi tipi. Non lasciarsi rinchiudere nel museo/mausoleo del Potere, a Beaubourg, all'Università o negli altri zoo. Lasciare deperire e imputridire l'industria culturale nei suoi ipermercati e nei suoi obitori statali. Certo qualche volta si può organizzare qualche grande retrospettiva culturale in una istituzione, ma non col metodo della falsificazione storica come le esposizioni Parigi/Mosca o Parigi/Parigi che dimostrano la truffa intellettuale inerente all'arte ufficiale.Le istanze governative, di destra o di sinistra, sono quasi sempre state in guerra con le forze della cultura. E sarebbe diverso oggi? Si vedrà di qui a qualche mese. Facciamo in modo, immediatamente, che nei mass-media e nella vita quotidiana l'immaginazione eserciti se non il potere, almeno un contropotere vitale, energico.L'abolizione del salariato presuppone la realizzazione di una società post-industriale. Questa realizzazione presuppone che, grazie forse alla "crisi" economica, la religione del lavoro salariato sia desueta e che la religione del piacere - politeista, policroma e polimorfa per definizione - o altre attività non religiose si generalizzino al suo posto. Non serve a niente stabilire prima un piano generale, né una norma. La città ideale, per essere ideale ai miei occhi dovrà essere sbarazzata da qualunque assoggettamento salariale e statale. Io mi interesso soprattutto all'arte che è altra cosa che non il semplice ingrandimento o la semplice trasposizione sulla tela di uno schizzo preliminare; al testo che è altra cosa che non il semplice sviluppo di un piano prestabilito (dall'autore, dall'istanza burocratica o dalla legge di mercato). La città ideale avrà la sua immagine e la sua concretizzazione, difficile se non impossibile da immaginare prima. Essa si baserà, si basa già, non sul dire ma sul fare. È forse per questo che, già allo stato di progetto, essa provoca in alcuni il panico e in altri i segni precursori della gioia?