Vita e opere di Dario Fo

"Nella nostra epoca l'industria della coscienza ha convertito per tempo la virtualità mitica dei comici in un fattore di moltiplicazione speculare delle apparenze sociali ed è difficile scollare per questo il ritratto di Fo dalla materia divistica con cui è cresciuto; ma il suo recupero delle forme preborghesi di spettacolo, il suo caratteristico impegno di ricerca nel disoccultare insieme e contemporaneamente le illusioni ideologiche della società e le vuotezze della finzione a teatro si sono venuti determinando programmaticamente nell'opposizione a questo uso della scena e delle sue storie."
Ecco come viene, per così dire, definito Fo in un saggio di Claudio Meldolesi del 1978. Personalmente ritengo che una prosa così elaborata non ci possa neanche lontanamente avvicinare al teatro di Fo, a quella sua genuinità governata da una calcolata ostinazione politica, popolare e popolaresca che si apre al pubblico senza tortuosità di percorsi. Proveremo quindi a definire Dario Fo, il "comico in rivolta" in maniera più semplice, senza perderci nel significato di paroloni senza senso e pesanti, iniziando con l'esaminare la sua vita, la sua carriera e le sue opere maggiori.
Dario Fo nasce a San Giano, in provincia di Varese, nel 1926. Suo padre è un ferroviere e sua madre una contadina: è una famiglia proletaria, di tradizioni democratiche e antifasciste. Dai suoi compaesani, per la maggior parte contrabbandieri e pescatori di frodo, tutti individui dotati di una fantasia senza limiti, Fo impara a vedere e a leggere le cose in un certo modo.


Dario Fo da piccolo

A Milano giovanissimo, frequenta l'Accademia di Brera. Si iscrive al Politecnico, che frequenta fino a sette esami dalla laurea. È questo un periodo di enorme entusiasmo per Fo, il quale inizia a scoprire i rapporti umani che gli si aprono e che gli crescono intorno.
Studiando architettura, si interessa alle chiese romaniche e rimane stupito dal fatto che la maggior parte di esse è opera di scalpellini semplici, ignoranti ed analfabeti. In questo stesso periodo inizia ad improvvisare storie che lui stesso recita: sono storie il cui obiettivo è rappresentato dal mettere a nudo le banalità e le idiozie della cultura scolastica. Tutto ciò ruota su alcuni cardini: l'infrazione alla norma ed al conformismo, la provocazione del potere, il gusto della sorpresa, ecc.
Nel 1952 conosce Franco Parenti che lo introduce alla RAI, dove inizia una vera e propria attività di produzione: recita per radio le trasmissioni del "Poer nano" (al bell'Abele, aristocratico ed educato si contrappone il goffo fratello Caino che con le sue grosse manone sciupa ogni cosa, fino a quando non si stufa ed, esasperato, ammazza l'Abele con una legnata). "Storie assurde, ma con dentro dei temi ben precisi: l'ironia sui luoghi comuni e la liturgia della gente per bene, l'orrore per il mondo dei ricchi, l'amarezza e la ribellione per la propria condizione e il senso del bisogno e della paura."
I testi del "Poer nano" vengono rappresentati al Teatro Odeon di Milano: è il primo contatto di Fo con il teatro ufficiale (conclude quindi la collaborazione con la radio, che limitava fortemente le sue capacità espressive). In seguito entra in collaborazione con autori come Giustino Durano e lo stesso Franco Parenti.
Dalla collaborazione con Parenti e Durano nasce nel '53 "Il dito nell'occhio" (chiara e decisa affermazione della satira politica e sociale): in questo spettacolo vengono colpiti sui loro piedistalli gli "eroi" a cui viene contrapposto il buon senso, lo sghignazzo e si ride sui valori di cartapesta della storiografia ufficiale.
Il testo del '54 "Sani da legare", dove l'arma della satira viene portata nella vita quotidiana dell'Italia della "legge truffa", viene massacrato dalla censura di Scelba.
Finisce l'epoca della collaborazione "a tre" e Fo avvia un periodo di esperienze nel campo del cinema.
Scrive con altri e recita nel film "Lo svitato", regia di Lizzani. Con Age Scarpelli, Pietrangeli, Pinelli lavora a varie sceneggiature.
Nel 1959 Dario Fo e Franca Rame decidono di organizzarsi in "compagnia"; dal '59 al '67 recita nelle "commedie": "Gli Arcangeli non giocano a flipper" (1959-60), "Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri" (1960-61), "Chi ruba un piede è fortunato in amore" (1962-62), "Isabella, tre caravelle e un cacciaballe" (1963-64), "La signora è da buttare" (1967-68). È questo il cosiddetto periodo "borghese" dell'attività di Fo, "borghese" perché agisce all'interno del teatro borghese, davanti ad un pubblico sostanzialmente borghese. Il teatro di Fo è sempre più politico, inizia a delinearsi l'esigenza di ricollegarsi fino in fondo alla cultura popolare, sempre meno lontana.
Con la nascita del primo governo di centrosinistra Fo viene chiamato a lavorare in televisione: gli viene inizialmente affidata la direzione di una rivista musicale "Chi l'ha visto?", subito dopo gli viene affidata "Canzonissima". Nelle sue trasmissioni Fo mette sotto accusa il clero, gli industriali, la mafia, parla dei problemi di vita delle masse popolari; la satira rimane sempre l'arma principale di comunicazione.
Sono pochi mesi di apertura della RAI, apertura che si chiude in occasione di uno sketch sulle speculazioni degli impresari edili, proprio mentre è in corso nel paese una dura lotta dei lavoratori di quel settore. La censura televisiva fa a pezzi il copione della trasmissione. Dario Fo e Franca Rame denunciano la repressione dell'ente pubblico nei loro confronti.
In un intervista del 1967, dice: "Non è un caso che io mi sia rifatto a una nostra tradizione, ai gesti della commedia dell'arte e alle musiche antiche popolari, in quanto ritengo che a teatro, tanto più si va sperimentando verso il nuovo, tanto più occorre affondare nel passato… ed a me interessa soprattutto un passato che sia attaccato alle radici del popolo... sulla base del concetto del "nuovo della tradizione" al quale sono legato".
La sua sensibilità al nuovo lo porta da artista "amico del popolo" ad artista al servizio del movimento rivoluzionario proletario, "giullare" del popolo, in mezzo al popolo, nei quartieri, nelle fabbriche occupate, nelle piazze, nei mercati coperti, nelle scuole.
Al termine della stagione teatrale la "compagnia Fo - Rame" si scioglie, e viene costituita la "Associazione Nuova Scena", che afferma nel proprio statuto, di porsi "al servizio delle forze rivoluzionarie non per riformare lo stato borghese con politica opportunista, ma per favorire la crescita di un reale processo rivoluzionario che porti al potere la classe operaia".
Nel '68 Fo scrive e mette in scena "Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli, grandi e medi", sulla continuità dello stato del fascismo alla "repubblica democratica", sulla lotta di classe tra il drago del proletariato e il pupazzone della borghesia. Chiarissimo il collegamento con il teatro popolare nell'uso delle maschere, dei burattini e delle marionette.


Dario Fo in Cina

Alla stagione teatrale 1969-70 appartengono "Mistero Buffo", "Legami pure che tanto spacco tutto lo stesso", "L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1.000, per questo lui è il padrone".
In "Mistero Buffo" sviluppa ed approfondisce la ricerca di Dario Fo sulle origini della cultura popolare: per più di tre ore si susseguono testi medioevali, recitati in dialetto ("padano") di sapore arcaico, da un "giullare" del popolo che riesce a coinvolgere il "pubblico" in uno spettacolo corale di straordinaria efficacia, di satira violenta degli antenati dei padroni di oggi. È il più popolare spettacolo di Fo, che viene richiesto nelle situazioni di lotta più diverse. In "Mistero Buffo" si pone concretamente l'insostituibile ed irrinunciabile necessità di scoprire "da dove veniamo" per "scoprire andare": conoscere la dinamica dello scontro di classe nel suo sviluppo storico, non in una dimensione statica di astratta constatazione sociologica.
Nel 1970 Fo ed altri compagni si costituiscono in "Collettivo Teatrale la Comune".
All'indomani del "suicidio" del ferroviere Pinelli, Fo mette in scena lo spettacolo "Morte accidentale di un anarchico" (che prende spunto da un episodio accaduto in America di un anarchico scaraventato a forza dalle finestre della questura centrale di New York).
Solo grazie all'enorme consenso di massa che lo spettacolo conquista in pochi mesi riesce a salvarlo dalla repressione della polizia e della magistratura, impotenti di fronte ad uno spettacolo che dice tutto senza fare nomi o cognomi, stabilendo un immediato e diretto rapporto con l'intelligenza critica del pubblico.
"Noi facciamo del teatro popolare. Il teatro popolare ha sempre usato del grottesco, della farsa - la farsa è un'invenzione del popolo - per sviluppare i suoi discorsi più drammatici. Perché la risata rimane veramente nel fondo dell'animo con un sedimento feroce che non si stacca più. Perché la risata fa evitare uno dei pericoli maggiori, che è la catarsi… Partendo dall'VIII secolo in poi, si ritrovano sempre storie drammatiche raccontate in forma grottesca. Questo in tutta la tradizione. Se poi andiamo con i Greci, ancora di più. Con i Romani lo stesso… Noi non vogliamo liberare dall'indignazione la gente che viene. Noi vogliamo che la rabbia resti dentro e non si liberi, che diventi operante con lucidità nel momento della lotta". Nella stagione 1971-72, Dario Fo e Franca Rame scrivono e mettono in scena: "Morte e resurrezione di un pupazzo" (riedizione de "Grande pantomima ecc. ecc." del '68: lo spettacolo è mordente, violento, duro; la satira non permette respiro), "Fedayn" e "Ordine per DI0.000.000.000!".


Dario Fo truccato da Franca Rame

Il periodo tra il '70 ed il '72 rappresenta un momento di crisi. Occorre far evolvere il collettivo verso forme di rappresentazione nuove superando il concetto di teatro itinerante. Del periodo è lo spettacolo "Pum! Pum! Chi è? La polizia!". Dura la repressione dello Stato. La magistratura ipotizza contatti di Dario Fo e di Franca Rame con le Brigate Rosse. A Milano nel quartiere periferico di Quarto Oggiaro, teatro di forti tensioni sociali, viene affittato un cinema per rappresentare gli spettacoli della "Comune". Per la prima volta si tenta di stringere un legame forte tra il teatro e la strada. È in questa situazione di aperto scontro tra la "Comune" ed il potere che, nel '73, Franca Rame viene sequestrata, a due passi dalla sede della DC, da un commando fascista per essere percossa e violentata. Stanchezza, amarezza, la fatica accumulata in anni ed anni di scontri, rotture spesso violente sullo stesso terreno della sinistra extraparlamentare (si era da poco allontanato dalla "Comune") portano Fo ad un breve, ma sofferto, periodo di crisi. A Sassari per la rappresentazione di "Guerra di popolo in Cile" (ispirato al colpo di stato del '73) la Questura fa irruzione con la forza nel cinema affittato. Lo spettacolo viene sospeso. Il giorno seguente dovrebbe essere rappresentato "Mistero Buffo", ma la polizia arriva in forze prima ancora dell'inizio dello spettacolo. Fo si oppone all'ingresso dei poliziotti. Viene arrestato, ma la sua prigionia dura solo 19 ore: viene liberato a furor di popolo. Nel '74 la "Comune" porta in Francia il "Mistero Buffo". Dopo 15 anni di esilio, Fo torna alla RAI nel 1977. Continua comunque a scrivere opere quali: "Fabulazzo osceno" ('82), "Coppia aperta" ('83), "La fine del mondo 2" ('85), "Il Papa e la strega" ('89), "Zitti! Stiamo precipitando" ('90), "Dario Fo recita Ruzzante" ('93). Le opere di Fo vengono poi rappresenta te in giro per il mondo: in Argentina, in Australia, in Austria, in Belgio, in Brasile, in Bulgaria, in Canada, in Cina, in Danimarca, nello Zimbabwe, in Venezuela, negli USA, in Uruguay, in Svezia, in Svizzera, in Olanda, in Messico, in Inghilterra, in Israele, in Scozia, in Romania, in Cile, in Francia, in Germania, in Giappone, in Norvegia, in Irlanda, in Islanda, in Spagna, in Sud Africa, ecc. ecc...


Dario Fo recita alla FIAT

Nel 1997 Dario Fo è stato insignito del premio Nobel per la Letteratura: Fo non vince il Nobel per le sue 40 e più commedie, ma per la sua lingua incomprensibile ed altamente comunicativa, Grammelott, Gramelot o Grammelot che riportar si voglia. Fo è l'uomo di cultura italiano più famoso all'estero perché il suo linguaggio è universale, perché parla con il corpo, perché parla di ciò che ci accomuna ai nostri simili, perché ci riporta alle radici rituali, festose e carnevalesche del teatro.

«Faccia a faccia» tra il «giullare» e i lettori di ViviMilano
Dario Fo: «A volte rimpiango la vecchia Dc»
 
Il premio Nobel ha dato lezioni di teatro e politica: «La mia opera su Berlusconi? Faccio come Shakespeare che attaccò il suo re»
MILANO - Una grande lezione di teatro e letteratura, serata da Premio Nobel, un’ora e mezza tra domande e risate, quella tenuta ieri sera da Dario Fo alla Sala Montanelli del Corriere nel «Faccia a Faccia» per ViviMilano. Alto, dinoccolato, Dario Fo, 77 anni di cui oltre 50 passati su e giù dalla scena, scorre con un sorriso larghissimo la platea affollata e comincia a parlare di Milano. «Stiamo vivendo tempi bui e difficili», dice rispondendo alla domanda della moderatrice Giuseppina Manin. E parla «delle fabbriche che non ci sono più, che erano importanti come la Fiat, ma alla Fiat il Governo è andato incontro un sacco di volte, sborsando miliardi, anche se loro non hanno mai mantenuto le promesse di trovare nuovo propellente che non inquinasse...».
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IL POTERE - Primo applauso. «Non ci sono più gli operai, ma neppure gli impiegati: entrambi assicuravano il pubblico del teatro, quello del "Piccolo" soprattutto. Franca ed io avevamo difficoltà, come sempre, ma tutto sommato rimpiango la Dc. Nel mio Fanfani rapito ci andavo giù di brutto, ma non ci censurarono (adesso non ci fanno neppure andare in tv), non scattò il subbuglio provocato dalla mia nuova commedia L’anomalo bicefalo su un’operazione chirurgica che riguarda Berlusconi e Putin...». Domanda dal pubblico: «Ma lei vuol attaccare il potere in generale...». Risposta immediata di Dario Fo: «No, no io voglio proprio parlare di Berlusconi. Del resto anche Shakespeare nel suo ultimo lavoro Misura per misura volle colpire il re, succeduto a Elisabetta: e da allora non rappresentò più nulla, poi morì». Commento in sordina dalla prima fila, voce di Franca Rame: «Spero non succeda anche a noi». Su Shakespeare il Nobel si è scatenato raccontando a suo modo il Giulietta e Romeo, una sequela di ammazzamenti tra parenti, per spiegare che «il teatro scespiriano e anche tutto quello venuto dopo la nostra Commedia dell’Arte del ’500, era "di situazione". Era una storia da raccontare».

NOI ITALIANI - E infatti «noi italiani nel Rinascimento fummo grandi in tutto. Al punto che i capi inglesi pensarono di imparare la nostra lingua. Che bello essere italiani, ammirati nel mondo. Ha ragione il nostro premier!». Applausi. Che raggiungono l’apoteosi quando Dario, rievocate le prime esperienze di «affabulatore» con pescatori e contrabbandieri di Porto Val Travaglia, dove è nato, «smaschera» il significato della lirica «Rosa fresca aulentissima» del 1225, alla base delle sue ricerche su uno dei suoi più famosi e esilaranti pezzi teatrali, Mistero Buffo. Dunque, dietro quelle parole dolci «che a scuola non vi spiegano mai, c’è una sordida storia di leggi menfitane promulgate da Federico II, l’imperatore di allora, per proteggere violentatori, sopraffattori a condizione che pagassero un balzello, una tassa».


di Claudia Provvedini